Magistratura democratica

Al confine dei diritti.
Richiedenti asilo tra normativa e prassi, dall’hotspot alla decisione della Commissione territoriale

di Alessandra Sciurba

Muovendo da una riflessione teorica che definisce l’asilo come il “diritto di confine” dei diritti umani, il presente contributo analizza criticamente il sistema di accoglienza e le procedure stragiudiziali che coinvolgono i richiedenti asilo, dall’arrivo in Italia fino all’audizione presso le Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale. A questo riguardo, viene descritto per ogni fase, sottolineandone l’importanza, il lavoro degli operatori legali delle associazioni e delle cliniche legali che, assistendo gratuitamente chi chiede protezione in Italia, rappresentano molte volte l’unica garanzia di accesso a un diritto universale troppo spesso violato nella sua concreta essenza.

1. Un diritto di confine

Nel 1951, Hannah Arendt, in pagine celeberrime, descriveva la relazione che intercorre tra la tutela del diritto d’asilo e la credibilità della concezione stessa dei diritti umani.

Al periodo di crisi economica, inflazione, guerre civili e crollo dei grandi imperi che afflissero l’Europa tra le due guerre mondiali, - scrive la filosofa - quando milioni di profughi divennero «schiuma della terra» e «indesiderabili d’Europa»[1], corrispose la scelta politica di cancellare «l’unico diritto che avesse sempre campeggiato come simbolo dei diritti umani nella sfera delle relazioni internazionali»[2]. Quel momento, secondo Arendt, ha rivelato con tutta la violenza possibile il limite intrinseco di questi diritti, ovvero il loro rivelarsi «inapplicabili, persino nei Paesi che basavano su di essi la loro Costituzione, ogni qual volta sono apparsi individui che non erano più cittadini di nessuno Stato sovrano»[3].

In questo senso, il diritto d’asilo è un diritto di confine non solo perché il suo esercizio comporta strutturalmente l’attraversamento della frontiera di uno Stato. L’asilo è il diritto posto al confine dei diritti umani, poiché è specificamente chiamato a ridare «un posto nel mondo» a coloro i quali hanno perduto «tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana»[4]. Per questo è la “chiave di volta” che può tenere in equilibrio gli altri elementi dell’impianto, affinché esso non crolli, raso al suolo.

All’indomani della Seconda guerra mondiale, la nuova «Età dei diritti»[5], proclamata dalla «straordinaria stagione costituente che fu il quinquennio 1945-1949» quando si affermò «il “mai più” Costituzionale agli orrori dei totalitarismi e delle guerre»[6], sembra avere visto in effetti, nell’affermazione del diritto d’asilo, uno strumento essenziale per la rifondazione dell’intero sistema dei diritti umani.

Il diritto d’asilo trova infatti posto all’interno di tutte le costituzioni postbelliche dei Paesi europei, oltre che essere inserito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (art. 14).

Dall’asilo, inoltre, muove quel processo di specificazione dei diritti fondamentali volto a rafforzarne l’effettività declinando l’eguaglianza degli esseri umani in termini sostanziali e non solo meramente formali, e quindi tutelandone con strumenti specifici, le peculiari condizioni. Allo status del rifugiato viene infatti dedicata la prima delle Convenzioni delle Nazioni unite, nel 1951 a Ginevra, a protezione, al contempo, di un diritto particolare e di un determinato soggetto di diritti. Da quel momento, e in particolar modo dopo il fondamentale passaggio politico-concettuale concretizzatosi nella stesura del Protocollo di New York del 1967, che eliminerà ogni riserva temporale e geografica contenuta nella Convenzione di Ginevra, l’asilo viene sancito come un diritto umano universale intorno al quale è costruito un vero e proprio diritto internazionale dei rifugiati che prevede precisi obblighi giuridici da parte di tutti gli Stati aderenti alla Convenzione[7]. Per garantirne l’applicazione, è costituito dall’Assemblea generale l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, l’Acnur (Unhcr), secondo in ordine di tempo solo all’Unicef che era stato istituito nell’emergenza della Seconda guerra mondiale per supportare i bambini vittime dei combattimenti.

Proprio l’Acnur, cui spetta anche il compito di primo esegeta della Convenzione di Ginevra, declina come segue i tre principi fondativi del diritto d’asilo: il principio di non discriminazione, relativo alla sua universalità; quello di non sanzionabilità dell’ingresso illegale sul territorio di uno Stato aderente alla Convenzione se tale ingresso è finalizzato alla richiesta di asilo[8]; quello del non refoulement, ovvero del divieto di respingere qualcuno in uno Stato in cui la sua vita possa essere in pericolo o dove possa subire trattamenti inumani e degradanti. Quest’ultimo principio, in particolare, appare strettamente connesso ai contenuti dell’art. 2 (diritto alla vita) e dell’art. 3 (divieto di tortura) della Convenzione europea dei diritti umani del 1950, e rappresenta il cuore della «sfaccettata interazione»[9] tra il diritto internazionale dei rifugiati e il diritto dei diritti umani.

Tutti e tre questi principi, inoltre, e qui risiede la loro reale portata, sono immediatamente effettivi innanzitutto rispetto a chiunque attraversi una frontiera al fine di chiedere asilo, prima ancora che nei suoi confronti avvenga un riconoscimento formale dello status di rifugiato. Il diritto d’asilo include pertanto, «come minimo, il diritto di ingresso, il diritto di restare, il diritto di non essere allontanati dal territorio con la forza», oltre che «il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona»[10].

Come ha insegnato Stefano Rodotà, però, i diritti non sono mai acquisiti una volta per tutte. Sono sempre insidiati, a rischio. La loro non è mai una vicenda pacificata. Il loro riconoscimento formale ci parla sempre di una battaglia vinta, ma immediatamente apre pure la questione del loro rispetto, della loro efficacia, del loro radicamento. I diritti diventano così, essi stessi, strumenti della lotta per i diritti[11].

Che l’effettività del diritto d’asilo, quanto e più di quella di altri diritti umani fondamentali, non possa dirsi conquistata solo a partire dal suo riconoscimento formale come diritto universale, è chiaro, in effetti fin dal primo istante. La Convenzione di Ginevra nasce tra le tensioni ideologiche della guerra fredda, mentre i due blocchi contrapposti, quello sovietico e quello occidentale guidato dagli Stati Uniti, strumentalizzavano politicamente, da una parte e dall’altra, la questione degli sfollati e dei profughi all’indomani della seconda guerra mondiale. Strumento politico nelle mani dei governi nazionali, l’asilo ha sempre faticato a rappresentare, nella sua implementazione concreta, un efficace diritto di accesso ai diritti per la maggior parte delle persone a rischio di persecuzione nel mondo, o per i popoli in fuga dai conflitti. Non a caso, la stragrande maggioranza di questi è invece sempre stata accolta in condizioni di grande precarietà nei Paesi limitrofi alle zone di guerra, in cosiddetti “campi profughi” nati nell’emergenza e spesso diventati soluzioni permanenti per intere generazioni[12].

Che il diritto d’asilo non sia un’acquisizione completamente realizzata, né tanto meno definitiva, della civiltà giuridica europea diventa però più che mai evidente con l’ingresso nella contemporanea «era delle migrazioni». I processi di globalizzazione, accelerazione e differenziazione della mobilità umana transnazionale, di politicizzazione – nel senso della strumentalizzazione politica – senza precedenti del tema delle migrazioni, unitamente alla proliferazione della transizione migratoria, per cui Paesi storicamente di emigrazione, come quelli dell’Europa meridionale, diventano anche (ma non solo) Paesi di immigrazione, sono infatti le caratteristiche precipue che si affermano a partire dagli anni Novanta del secolo scorso[13].

Il presente contributo guarda alla contemporanea “crisi dell’asilo” dalla specifica prospettiva del contesto italiano, negli anni dal 2014 ad oggi, rispetto alla fase stragiudiziale relativa all’accesso alle procedure e al sistema di accoglienza, nonché alla valutazione delle “storie” dei richiedenti asilo da parte delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale dislocate sul territorio nazionale.

Le procedure e le problematiche prese in considerazione sono direttamente note a chi scrive grazie all’attività svolta presso la Cledu-Clinica Legale per i diritti umani dell’Università di Palermo. Declinazione particolare dell’insegnamento clinico del diritto[14], la Cledu ha interpretato la doppia finalità di questo approccio - implementazione della giustizia sociale e superamento della didattica frontale e nozionistica -, attivando uno sportello all’interno del Dipartimento di Giurisprudenza. Qui, migranti e minoranze Rom e Sinti ricevono consulenza legale gratuita da ricercatori e avvocati volontari, coadiuvati dagli studenti e dalle studentesse che vengono coinvolti in una modalità di apprendimento del diritto a-gerarchica e di condivisione[15]. Specifica è anche la posizione geografica della Cledu, situata in Sicilia, porta Sud dell’Europa, dove vengono sperimentate molte delle politiche europee di immigrazione e asilo, e che da questo punto di vista ne rappresenta un osservatorio privilegiato.

Dal 2015 ad oggi la Cledu ha prestato sostegno a più di 400 migranti, la maggior parte richiedenti protezione internazionale. Adottando un approccio interdisciplinare, tutti i casi individuali seguiti da questa clinica legale sono sempre considerati all’interno di una visione sistemica, che risale alle storture da cui originano disfunzioni e violazioni reiterate, per dare avvio a vertenze e a “cause pilota”, volte a modificare le prassi individuate come più lesive dei diritti. Questo lavoro ha costruito nel tempo un patrimonio di saperi che riguarda in particolar modo l’accesso a, e l’esercizio concreto del, diritto d’asilo.

A fronte di una rilevante differenza tra i comportamenti delle questure italiane in materia, l’esperienza diretta della Cledu è relativa esclusivamente ai richiedenti asilo che si relazionano con la Questura di Palermo e con altre questure siciliane. Il quadro d’insieme delle procedure italiane verrà però costruito, in questo contributo, tenendo anche conto delle prassi vigenti in alcune altre grandi città. Questa limitata mappatura è stata realizzata attraverso la raccolta di testi e documenti, oltre che tramite il confronto diretto con associazioni e cliniche legali presenti sui territori presi in considerazione.

L’ultima premessa generale, per interpretare il contesto in cui le riflessioni qui elaborate, riguarda la chiusura progressiva, dal 2012 ad oggi, delle frontiere europee.

L’eliminazione di quasi tutti i canali di ingresso legale, unitamente ad alcune prassi amministrative, come la pretesa della presentazione di un passaporto per il rilascio di un permesso di soggiorno per minore età[16], hanno nella maggior parte dei casi trasformato la richiesta di protezione internazionale nell’unica possibilità, per i migranti, di accedere a uno status legale. Non riteniamo che ciò abbia principalmente portato, come è retorica diffusa, a un abuso strumentale della richiesta di protezione, ma ha certamente dirottato molte istanze che avrebbero trovato più adeguato accoglimento all’interno di altri canali, a declinarsi tutte all’interno della richiesta di asilo.

La stipula dell’accordo congiunto tra l’Unione europea e la Turchia[17], inoltre, chiudendo la cosiddetta “rotta balcanica”, ha reso dal 2016 il Mediterraneo centrale l’unica porta di accesso ancora socchiusa verso l’Europa per i migranti in cerca di protezione, costringendoli ad attraversare la frontiera più mortifera al mondo, dopo avere trascorso lunghi periodi di permanenza in un paese insicuro e violento come la Libia. Ad oggi, anche questo canale d’ingresso appare chiudersi giorno dopo giorno, dopo la firma del Memorandum d’intesa tra il Governo italiano e uno dei capi libici, Al Serraj, il 2 febbraio del 2017, e l’allontanamento, tramite iniziative politiche e giudiziarie[18], delle navi delle Ong che operavano soccorso e salvataggio in mare.

Il numero dei migranti che riescono a raggiungere l’Italia è quindi drasticamente diminuito. Se tra il primo gennaio e il 23 febbraio 2017, 11.637 persone, tra cui 1.489 minori soli, avevano raggiunto l’Italia attraversando il Mediterraneo, nello stesso periodo del 2018 ne sono arrivate solo 1.059 tra cui 686 minori non accompagnati[19].

Allo stesso tempo, chi ancora riesce ad arrivare riporta situazioni di vulnerabilità maggiori che in precedenza, a causa dell’inasprirsi delle condizioni di vita in Libia.

2. La discriminazione nell’accesso a un diritto fondamentale

2.1. L’indebolimento del principio di non discriminazione

Come accennato, l’accesso alla domanda di protezione internazionale non dovrebbe essere soggetto ad alcuna forma di discriminazione rispetto alla nazionalità del richiedente, o al paese di transito da cui proviene. Questo principio appare oggi sostanzialmente violato dal già citato accordo dell’Ue che prevede «il ritorno di tutti i nuovi migranti irregolari e richiedenti asilo dalla Grecia alla Turchia», mettendo a dura prova anche il principio di non-refoulement, fatto solo formalmente salvo dalla definizione della Turchia come “Paese terzo sicuro”.

In realtà, dalla prima implementazione delle regole di Dublino, nel 1990 (oggi alla loro terza rivisitazione col Regolamento 2013/604/Ue), fino alle previsioni contenute nella Direttiva 2013/32/Ue, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, una graduale deroga al principio di non discriminazione nell’accesso all’asilo è stata formalizzata all’interno del Sistema comune europeo di asilo (Ceas). La possibilità di rimandare indietro in un paese di transito o di origine un richiedente protezione internazionale ha infatti aperto una breccia nella compattezza dei principi della Convenzione di Ginevra, introducendo la possibilità, per gli Stati firmatari, di delegare la propria responsabilità di accogliere e valutare le richieste di asilo e quindi le persone che le avanzano. Se i principi di Dublino fondano questa delega nell’assunto che ogni Stato membro possa essere considerato un Paese sicuro per ogni richiedente asilo[20], la Direttiva Procedure estende il concetto di Paese sicuro anche a Stati terzi di origine o di transito che rispondano a determinati requisiti formali di tutela dei diritti, e offre nell’annesso 1, una definizione precisa di paese di origine sicura. Per uno Stato membro che analizza la richiesta di protezione internazionale di un migrante che proviene da un paese di origine o di transito definito “sicuro” si apre quindi la possibilità di valutare tale richiesta come manifestamente infondata o direttamente inammissibile attraverso una procedura accelerata.

Diversi studi e rapporti internazionali hanno rimarcato i rischi connessi a queste restrizioni nell’accesso alla richiesta di protezione in termini di violazione dei principi del diritto internazionale dei rifugiati[21]. Nonostante ciò, la distinzione dei migranti, sulla base del loro paese di origine o di transito, rispetto alla possibilità di accedere pienamente al diritto d’asilo tende sempre più a informare le politiche europee, traducendosi spesso, come vedremo a breve, in prassi amministrative altamente lesive dei diritti.

2.2 L’approccio Hotspot

L’approccio Hotspot viene introdotto dalla Commissione europea nel maggio del 2015[22], e presupporrebbe la possibilità di separare immediatamente i migranti arrivati alle frontiere europee e riconoscibili come in clear need of protection, - quando la media Eurostat delle protezioni internazionale concesse ai loro gruppi nazionali di appartenenza (una media che non considera le decisioni dei tribunali dopo eventuali ricorsi ma solo le valutazioni delle Commissioni) supera il 75% - dagli “altri” richiedenti asilo e dalle persone da respingere immediatamente.

L’implementazione concreta alle frontiere di questa pericolosa previsione si è rivelata spesso catastrofica in termini di violazione del diritto di chiedere protezione internazionale. In Italia, ad esempio, si è a lungo tradotta nella consegna, presso i centri-hotspot siciliani, di centinaia di decreti di respingimento differito ex art. 10, comma 2, d.lgs 25 luglio 1998, n. 286, emessi senza alcuna reale valutazione delle posizioni individuali, a migliaia di persone considerate genericamente “migranti economici”[23]. Questa prassi è stata applicata dalle forze di polizia a seguito della somministrazione ai migranti di un “foglio notizie” a risposte multiple concernenti le ragioni del loro arrivo in Italia (nello specifico: lavoro; raggiungere i familiari; fuggire dalla povertà; fuggire per altri motivi; richiedere asilo politico). Ad oggi questa prassi illegittima[24], massicciamente messa in pratica specialmente nell’hotspot di Lampedusa, appare di molto ridimensionata, almeno in Sicilia (vedremo come invece sia stata traslata nel cuore di alcune delle nostre città metropolitane). Ciò è avvenuto anche a seguito delle denunce di molte Ong[25] e dei ricorsi presentati da tanti avvocati siciliani, tra cui quelli della Cledu che, recandosi proprio a Lampedusa, dopo avere intercettato decine di migranti giunti a Palermo con un decreto di respingimento differito consegnato dalla Questura di Agrigento, avevano potuto comprendere le reali prassi poste in atto nel centro-hotspot della piccola isola. Era allora emerso con evidenza come i migranti, al momento della compilazione del “foglio notizie”, non avessero minimamente compreso né i contenuti di quel documento né le conseguenze che avrebbe avuto, ed erano stati piuttosto indotti a firmarlo, come primo atto all’ingresso del centro, ancora attoniti e sfiniti dal viaggio in mare.

La prassi di preliminare smistamento sulla base della nazionalità, attuata nei centri- hotspot, appare però ad oggi superata soprattutto in conseguenza della forte diminuzione nel numero degli arrivi dovuta alle nuove politiche italiane nel Mediterraneo, dopo il Memorandum d’intesa con la Libia. Dati governativi riportano come al 19 febbraio 2018 “solo” 287 persone si trovassero in queste strutture: 18 nell’hotspot di Taranto; 84 in quello di Pozzallo, ad oggi vuoto, e 185 nell’hotspot di Lampedusa.

L’ultimo atto, almeno per il momento, della storia dei centri-hotspot in Sicilia è stata proprio la chiusura del centro di Lampedusa, dopo le gravissime denunce di Cild, Asgi e IndieWatch a seguito di un sopralluogo avvenuto nel mese di marzo 2018[26]. Le associazioni, i cui avvocati hanno in quell’occasione anche presentato un ricorso di urgenza alla Corte europea dei diritti umani, hanno denunciato «condizioni drammatiche di vita e sistematiche violazioni dei diritti umani (…) di migranti ospitati nel centro, ben oltre il termine di legge, anche da oltre due mesi, in un sistema detentivo de facto, congiuntamente a difficoltà ancora persistenti nel formalizzare la domanda di protezione internazionale»[27].

Un’ultima considerazione, relativa alle implementazioni arbitrarie del già controverso “approccio hotspot”, riguarda quanto avviene, ormai da anni, a Milano, dove la Questura limita l’accesso alla domanda di protezione internazionale, anche per persone che sono state già inserite dalla Prefettura nei centri di accoglienza. Quando queste vengono convocate per il foto-segnalamento, infatti, viene loro riproposto il “foglio-notizie” utilizzato presso i centri-hotspot. Esattamente come descritto per Lampedusa, sulla base della compilazione di questo documento la polizia valuta quindi «in modo del tutto arbitrario, chi può accedere alla procedura e chi invece, ritenuto un migrante economico, deve essere allontanato dal territorio nazionale tramite notifica di un provvedimento di espulsione»[28]. Come hanno denunciato Asgi, Naga, Apn e la Diaconia Valdese, questa prassi opera in aperta violazione della ripartizione delle competenze tra questure e commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, arrogandosi le prime un ruolo che non compete loro, come espressamente affermato dall’art. 3 del d.lgs 25/08.

La simmetria tra le prassi attuate in centri “di frontiera”, come Lampedusa, e quelle operate nel cuore di città metropolitane, come Milano, rende evidente la versatilità dell’“approccio hotspot” e la possibilità di una sua traduzione in contesti molto differenti, partendo sempre dall’assunto, sostanzialmente sbagliato e illegittimo, che si possano separare “richiedenti asilo” e presunti “migranti economici” sulla base di sbrigativi questionari, e che a farlo possano essere gli operatori di polizia, in frontiera come nelle questure.

2. 3 Gli accordi bilaterali e l’accesso all’asilo: storia di K.

Al di là e ben prima dell’approccio Hotspot lanciato dall’Ue nel 2015, l’esclusione automatica dall’accesso alla richiesta di asilo riguarda, in Italia, la maggior parte dei migranti che arrivano dai paesi del Maghreb con cui sono attivi accordi bilaterali di riammissione, oppure, come nel caso del Marocco, che hanno siglato Mobility Partnerships con l’Unione europea.

Sulla base di questi accordi, che rimangono prevalentemente non pubblici e subordinano agli interessi nazionali ogni considerazione relativa all’effettiva tutela dei diritti umani[29], i migranti del Nord Africa vengono di norma separati dagli altri già in fase di “sbarco”.

Come ha osservato anche l’Alto Commissario Onu per i diritti umani rispetto agli accordi firmati tra l’Italia e la Tunisia e l’Italia e l’Egitto, i migranti che provengono da questi Paesi e che hanno fatto ingresso illegale sul territorio italiano sono inseriti in procedure spesso sbrigative che comportano, se identificati dai loro consolati e laddove sia disponibile un mezzo di trasporto, un respingimento nello Stato d’origine nell’arco di 48 ore dopo essere stati trattenuti in strutture chiuse ad hoc e temporanee, che non sono il più delle volte accessibili per avvocati e associazioni.

L’accordo tra Egitto e Italia vige ad esempio dal 2007, e da allora non sono mai cessati i rimpatri con procedura semplificata dei cittadini egiziani fermati al momento dello sbarco irregolare sul territorio italiano, e di fatto mai messi nelle condizioni di chiedere asilo, nonostante le ben documentate criticità, in quel paese, in termini di rispetto dei diritti umani[30].

Anche se formalmente l’Italia non ha mai adottato una lista di “Paesi sicuri”, questa esiste dunque di fatto e determina da anni la possibilità, per i migranti, di chiedere o meno asilo a seconda del paese di provenienza.

Come ha sottolineato Amnesty International, l’introduzione dell’approccio hotspot ha solo consolidato il sistema per il quale i migranti provenienti da Paesi con cui esistono accordi bilaterali di riammissione sono direttamente individuati come espellibili, e quindi, quando è possibile, trasferiti direttamente in aeroporto o inviati presso i centri di identificazione ed espulsione[31], ora denominati Centri per il rimpatrio (Cpr).

Quando le espulsioni o la reclusione nei Cpr non si verificano, invece, l’esclusione dall’accesso alle procedure di asilo e la consegna dei decreti di respingimento differito ha come immediata conseguenza l’abbandono sul territorio di persone prive di risorse economiche e di un posto dove trovare ricovero. In questo caso, molti migranti cercano di lasciare la Sicilia per raggiungere le città del Nord Italia e, da lì, tentare il passaggio verso altri Stati dell’Unione europea. Molti restano invece sull’isola, ad affrontare la quotidianità con piccoli espedienti, o raggiungendo le campagne per impiegarsi come raccoglitori sfruttati. Anche questa possibilità, però, sembra sempre più preclusa dal fatto che molte aziende agricole preferiscano avere al loro servizio migranti regolari, come cittadini dei paesi più poveri dell’Ue[32], o richiedenti asilo e rifugiati[33], altrettanto disponibili allo sfruttamento, ma impiegabili senza il rischio di incorrere nelle sanzioni per l’impiego di lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno.

Una storia per tutte può aiutare a comprendere nel dettaglio come queste prassi vengano attuate in frontiera e quali ripercussioni concrete abbiano sulla vita delle persone.

L’8 novembre 2016, 1000 migranti furono sbarcati al porto di Palermo a seguito di un’operazione di Save and Rescue. Gli agenti dell’agenzia europea Frontex e di Easo (European asylum support office), applicando l’approccio hotpost insieme alla Polizia italiana, hanno proceduto alla pre-identificazione dei migranti, in gran parte svolta sulla banchina del porto, facendoli scendere dalla nave a gruppi di 100 per poi accompagnarli in questura per i rilievi fotodattiloscopici. Sulla stessa banchina, nel frattempo, succedevamo molte altre cose: sulla base dell’aspetto fisico e delle dichiarazioni rese, venivano separati i minori dagli adulti con l’ausilio di associazioni come Save the Children; gli operatori dell’Iom (International organization for migration) cercavano di identificare, più o meno sulla base degli stessi criteri, le potenziali vittime di tratta; e la polizia interrogava i migranti, anche minori, mostrando loro immagini da un telefono cellulare per individuare eventuali “scafisti”.

L’indomani, al termine di tutte queste attività di identificazione e categorizzazione, rimanevano fuori dal porto e dal sistema di accoglienza 300 uomini, per lo più giovani e apparentemente Nord africani, con in mano un decreto di respingimento differito.

Quasi in processione, queste persone raggiungevano quindi la Stazione centrale di Palermo, alla ricerca di un treno verso il Nord Italia, nella speranza di poter raggiungere altri paesi europei. Moltissimi erano marocchini, ma tra loro vi erano anche egiziani e libici. La mediazione linguistica di un giovane ragazzo marocchino che conosceva il francese ha permesso agli operatori della Cledu, all’interno della stazione stessa, di riunire i migranti a piccoli gruppi e fare un’informativa di base sulla protezione internazionale. Un ragazzo, che chiameremo K., a quel punto, ha preso parola in arabo spiegando di avere cercato di comunicare alla polizia del porto la sua volontà di chiedere asilo, ma di non essere stato ascoltato: era di madre palestinese e padre egiziano, perseguitato per la sua origine palestinese in Egitto aveva inoltre disertato il servizio militare e rischiava pesanti ritorsioni se fosse stato rimandato indietro.

K. è stato quindi immediatamente preso in carico dagli avvocati della Cledu che hanno innanzitutto impugnato il suo decreto di respingimento. Nel ricorso si avanzava la richiesta, accettata da Tribunale col decreto di fissazione dell’udienza, di una misura cautelare che sospendesse l’esecutività del provvedimento. Questo decreto di respingimento, come tutti gli altri impugnati in quel periodo, è stato quindi annullato all’esito di un’istruttoria che lo ha riconosciuto illegittimo poiché prima di consegnarlo non era stato rispettato il dovere di informazione da parte delle autorità delle Stato, esplicitato nell’art. 8 della Direttiva 32/2013/Ue, in merito alla possibilità di presentare domanda di protezione internazionale. Dopo l’ottenimento della sospensione dell’esecutività del decreto di respingimento, nel momento in cui quindi non si rischiava più una valutazione della richiesta di protezione secondo una procedura accelerata, o la detenzione amministrativa del richiedente, K. aveva quindi chiesto un appuntamento alla Questura di Palermo per formalizzare la sua richiesta di protezione che, nel mese di gennaio 2018, è stata infine riconosciuta come fondata dalla Commissione territoriale. Questo lieto epilogo è dipeso però, in un certo senso, dall’arbitrio della sorte, e dal fatto che K. avesse incontrato un gruppo di ricercatori, avvocati e studenti che, come avviene anche in altre parti di Italia, conoscendo le disfunzioni del sistema di accesso alla richiesta di protezione internazionale cerca, dove può, di garantire un diritto che in molte occasioni è precluso. Migliaia di persone che hanno subito le stesse violazioni non hanno sicuramente avuto la stessa “fortuna” di K.

L’inserimento ritardato nelle procedure di asilo ha comunque avuto, come impropria e illegittima conseguenza che spesso si verifica in questi casi, l’esclusione di K. dal sistema di accoglienza. Chi non viene riconosciuto come richiedente asilo al momento dello “sbarco” resta infatti fuori dal circuito di accoglienza gestito dalle Prefetture. Solo a seguito di lunghe negoziazioni, e solo una volta e per un preciso elenco di migranti che avevano ricevuto decreti di respingimento differito poi annullati, la Cledu, in collaborazione con altre associazioni del territorio palermitano, è riuscita a garantire il loro inserimento in un Centro di accoglienza straordinaria (Cas).

3. Il limbo dei richiedenti asilo tra procedure e sistema di accoglienza

3.1. La registrazione della richiesta di protezione

Chi riesce ad accedere alle procedure di riconoscimento della protezione internazionale si ritrova solo all’inizio di un percorso lunghissimo ed estenuante. Nonostante la Direttiva 2013/32/Ue preveda, all’art. 6, che la registrazione debba avvenire entro 3, o al massimo 6 giorni lavorativi dopo la presentazione della domanda da parte del richiedente asilo, e tale previsione sia stata pienamente recepita nel nostro ordinamento, le tempistiche in Italia sono veramente molto diverse.

Proviamo a ripercorrere i vari passaggi procedurali.

Per chi è accolto nel sistema dell’accoglienza, la presentazione della domanda avviene tramite l’invio di un’email da parte degli operatori del centro alla Questura, con la quale si formalizza la richiesta di un appuntamento ai fini della presentazione dell’istanza di protezione internazionale. È questo il primo momento in cui i tempi rischiano impropriamente di dilatarsi. A Palermo, per esempio, la Cledu ha incontrato vari richiedenti asilo che si trovavano da mesi in accoglienza in Cas che non avevano inviato alla Questura alcuna comunicazione e che hanno provveduto a farlo solo dopo sollecitazione da parte dei nostri avvocati. La stessa problematica si registra anche per centri di accoglienza presenti in altre città.

Chi non è incluso nel sistema di accoglienza deve invece recarsi personalmente in questura per manifestare la volontà di chiedere asilo, incorrendo nel rischio, qualora non riesca a esplicitare perfettamente questa intenzione e sia originario di uno di quei Paesi con cui esistono accordi bilaterali, di ricevere un decreto di espulsione e di essere trasferito in un Cpr. Per questa ragione, quando la persona è già entrata in contatto con realtà di sostegno legale territoriali, come la Cledu a Palermo, la richiesta di appuntamento per chiedere protezione internazionale viene messa per iscritto tramite Posta elettronica certificata inviata alla Questura. A tale comunicazione non segue solitamente alcun riscontro, motivo per il quale il richiedente dovrà comunque recarsi fisicamente presso l’ufficio di polizia per richiedere un primo appuntamento. Nonostante ciò, il fatto di avere in tasca una comunicazione ufficiale che riporti “nero su bianco” la sua volontà di chiedere protezione internazionale può rappresentare una forma di tutela, per quanto esigua, da eventuali abusi (come quelli già segnalati riguardo la prassi “hotspot” della Questura di Milano).

In varie questure italiane, è previsto poi un numero limitato di richiedenti asilo che possono presentarsi ogni settimana al fine di richiedere un primo appuntamento. Come si legge in un comunicato dell’Asgi, ad esempio, la Questura di Napoli, oltre a impedire l’ingresso ai legali rappresentanti dei richiedenti asilo, ha fino a tempi recentissimi previsto che solo un giorno a settimana un numero molto limitato di richiedenti potesse accedere ai locali per chiedere un appuntamento. La conseguenza, in modo molto simile a quanto accade ancora oggi Roma, è stata la creazione di accampamenti informali di fronte alla Questura di persone che dormivano per terra la notte prima del giorno in cui era possibile richiedere l’appuntamento, per potere rientrare nell’esiguo numero di “fortunati” autorizzati a farlo. Simili prassi, spiega l’Asgi, violano la normativa vigente che impone alle questure di ricevere e trasmettere la domanda di asilo alla commissione territoriale (artt.3 e 26 d.lgs 25/08), e comportano situazioni non «rispettose del decoro personale dei richiedenti»[34], che potrebbero prefigurare anche dei veri e propri trattamenti inumani e degradanti. Forse anche a seguito della lettera indirizzata alla Questura di Napoli, in cui Asgi prevedeva la possibilità di ricorrere alla Commissione Europea per l’apertura di una procedura di infrazione relativamente alla mancata esecuzione della già citata Direttive 2013/32/Ue[35], tale questura ha ad oggi adottato un sistema informatico attraverso il quale chiedere appuntamento per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale. L’apposito portale è però funzionante solo per pochi minuti ogni settimana, e questo cambiamento non ha quindi minimamente inciso sui tempi di attesa dei richiedenti asilo.

Ricordiamo che tutto quanto appena detto riguarda solo le procedure volte ad ottenere un primo appuntamento per la formalizzazione della richiesta di asilo grazie al quale, tutto ciò che i richiedenti conquisteranno, è un ulteriore appuntamento, comunicato esclusivamente in forma verbale, che li rimanda a una data successiva, generalmente fissata dopo circa sei mesi, in cui avverrà il foto-segnalamento. In questa occasione, verrà quindi accordato un terzo appuntamento, in cui finalmente avverrà la vera e propria formalizzazione della richiesta di protezione attraverso la compilazione dell’apposito modulo denominato “Modello C3”.

La compilazione del modello C3 prevede l’inserimento di una serie di informazioni personali, incluso i paesi attraversati e in quali date, che saranno la base di partenza dell’intervista presso la Commissione territoriale, circa sei mesi dopo la registrazione della domanda. Per i richiedenti asilo in accoglienza le questure adottano solitamente un documento, che potremmo definire “pre-C3” in cui gli operatori dei centri dovrebbero raccogliere le informazioni richieste. Questo lavoro dovrebbe essere svolto con molta perizia, ad esempio rispetto alla compilazione di campi quali la data di nascita, che spesso sono stati scritti frettolosamente nei documenti relativi alla prima identificazione al momento dello sbarco. È importante infatti che i dati vengano modificati, qualora siano sbagliati, affinché coincidano con quelli riportati nei documenti di identità in possesso del richiedente ed eventualmente recuperabili anche se rimasti nel Paese di origine o in quelli di transito. L’omissione di questa accortezza comporterà il fatto che tutti i documenti successivamente emessi in Italia (carta di identità, codice fiscale, ecc.) riporteranno dei dati sbagliati che dovranno comunque, e più faticosamente, essere corretti in seguito. Alcuni campi da riempire, inoltre, si rivelano particolarmente insidiosi, come quello in cui si chiede di specificare le ragioni della partenza dal Paese d’origine, o con quali risorse il richiedente pensa di sostenersi durante la propria permanenza in Italia. Alla prima domande un operatore accorto risponderà rimandando al momento più adeguato, quello dell’audizione in commissione, ogni informazione circostanziata. Rispetto alla seconda, invece, occorrerebbe sempre fare molta attenzione affinché ogni dichiarazione di volontà di cercarsi un lavoro e vivere con mezzi propri non sia fraintesa da chi ha il potere di decidere l’esito delle domande di protezione internazionale come un’ammissione delle ragioni “economiche” della propria scelta migratoria.

Dopo la compilazione del C3 il richiedente asilo dovrà quindi, ma finalmente con un documento in suo possesso, attendere la convocazione per l’audizione in commissione. I tempi di attesa arrivano in questa fase a sei mesi circa, almeno nelle Commissioni delle città metropolitane.

L’ultima nota da aggiungere a commento di questo sistema di rinvii e dilazioni è che le summenzionate procedure risultano complicate dalla richiesta di alcuni documenti che il richiedente asilo deve presentare: quali siano e in quali momenti vadano esibiti sono fattori che variano di questura in questura, elemento che sottolinea una mancanza di uniformità procedurale rilevante.

La dichiarazione di ospitalità può essere ad esempio richiesta al momento del secondo appuntamento, come avviene a Palermo, o del rilascio del permesso di soggiorno per richiesta asilo, come succede invece a Milano. Si rileva che per le persone che vivono fuori dall’accoglienza, spesso in situazioni abitative informali, non è semplice ottenere questo documento, e tale problematica, quando le questure non accettano domiciliazioni preso studi legali o associazioni, può arrivare a compromettere il corso della procedura.

La richiesta di esibire altri documenti può rendere particolarmente difficoltoso anche l’ottenimento di un permesso di soggiorno all’indomani della decisione della commissione territoriale. Qualora infatti non vengano riconosciuti al richiedente asilo lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria, ma la commissione richieda comunque alla questura il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, alcune questure, come quella di Palermo, esigono a questo fine la presentazione di un certificato di residenza (non più quindi una semplice dichiarazione di ospitalità), e di un passaporto in corso di validità. Si sottolinea che, con ordinanza del 21 dicembre del 2017 il Tribunale ordinario di Palermo, Prima sezione civile, in composizione collegiale, ha accolto il reclamo presentato da un’utente della Cledu contro la decisione del medesimo Tribunale che, in prima istanza, aveva rigettato il suo ricorso ex art. 700 cpc volto ad assicurare nei suoi confronti gli effetti della decisione della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, opponendosi alla richiesta del passaporto da parte della questura. La suddetta ordinanza riconosceva, tra le altre cose, che la questura non ha alcun margine di discrezionalità valutativa in ordine alla sussistenza dei presupposti per il rilascio e il rinnovo di documenti di soggiorno relativi alla protezione internazionale, e che l’adempimento richiesto non è affatto previsto dalla normativa vigente[36]. Ciononostante, la Questura di Palermo non ha in nulla modificato il suo comportamento.

A prescindere dal fatto che si sia collocati o meno in un centro di accoglienza, a Palermo, come in altre grandi città quali Roma o Milano, la semplice formalizzazione e registrazione di una richiesta di asilo è quindi un percorso a ostacoli, che prevede un’attesa di circa 8 mesi, cui seguono almeno altri 6 per la convocazione in Commissione. In questo tempo, le persone rimangono sospese in un limbo giuridico che aggrava di molto la situazione di precarietà, sub iudice per antonomasia, in cui ogni richiedente asilo si trova già strutturalmente.

3.2. Le ripercussioni psicologiche e materiali

Il ritardo nella registrazione della domanda di protezione internazionale comporta un consequenziale ritardo nell’ottenimento del permesso di soggiorno per richiesta asilo, con l’effetto di lasciare le persone sprovviste di uno strumento indispensabile per fare valere molti dei loro diritti.

Per chi si trova incluso nel sistema dell’accoglienza questa criticità è solo in parte risolta dai servizi offerti dai Centri in cui si viene alloggiati. Anche in questo caso, infatti, occorre evidenziare prassi del tutto inadeguate, come quella, vigente a Palermo, per la quale le richieste di iscrizione al Servizio sanitario nazionale vengono inoltrate e accettate solo dopo la formalizzazione della richiesta di asilo, mentre fino a quel momento i richiedenti asilo vengono di norma registrati tramite codice Stp (straniero temporaneamente presente), come se fossero del tutto irregolari sul territorio e garantendo loro l’accesso solo alle prestazioni sanitarie urgenti. Senza un permesso di soggiorno non è neppure possibile procedere all’iscrizione anagrafica, e men che meno accedere al mercato del lavoro stipulando un contratto, anche solo come tirocinante.

I tempi di attesa lunghissimi anche solo per ottenere il primo documento scritto che certifichi una posizione di regolarità in Italia, hanno inoltre delle ripercussioni psicologiche considerevoli, specialmente per chi (come la maggior parte dei richiedenti) ha già subito traumi nel paese di origine o in quelli di transito e per i tantissimi minori richiedenti asilo. Tali ripercussioni sono inoltre aggravate dall’inadeguatezza del sistema di accoglienza, che riflette un approccio strutturalmente emergenziale e continua a ribassare la qualità dei servizi offerti per tagliare i costi di gestione. La tendenza generale è quella di diminuire il numero dei centri afferenti allo Sprar (Sistema di protezione per Richiedenti asilo e rifugiati), per dirottare i fondi sui Centri di prima accoglienza (Cpa) o di Accoglienza straordinaria, che di straordinario, visto anche l’esiguo numero di arrivi nell’ultimo anno per le ragioni già evidenziate, hanno ormai, in molti casi, solo l’inadeguatezza dei servizi offerti. Questi centri, inoltre, si trovano spesso lontani dagli aggregati urbani. La mancanza di posti nei centri Sprar, che sarebbero quelli dove i minori dovrebbero essere collocati, determina anche per loro una lunghissima permanenza nei Cpa, che invece di limitarsi al massimo di 30 giorni previsti dalla Legge 47/2017 (la cosiddetta Legge Zampa), arriva a durare anche per più di 12 mesi.

Alla luce di tutto questo, non è difficile comprendere come mai decine di migranti si siano presentati in questi anni presso lo sportello della Cledu, riportando denunce penali sporte dagli operatori dei centri per proteste e manifestazioni nel corso delle quali le richieste più frequenti erano l’accesso a informazioni chiare sulle loro procedure di asilo, o l’acceso a servizi minimi adeguati e il trasferimento in centri situati in contesti urbani[37].

Tra di loro, molti erano minori, sotto processo con capi di imputazione anche gravi, come sequestro di persona e rapina, a seguito di episodi che manifestavano chiaramente situazioni di disagio aggravate dall’incertezza rispetto alle loro procedure di richiesta di protezione. È molto difficile, infatti, costruirsi un percorso di inclusione, studiare, imparare l’italiano, immaginare il proprio futuro, quando non si ha nessuna sicurezza nemmeno del fatto che un giorno si potrà ottenere un titolo di soggiorno stabile nel paese in cui ci si trova.

Tre minori, N., A. ed L., ad esempio, dopo essere rimasti in un centro di prima accoglienza alla periferia di Palermo per mesi, senza che nessuno rispondesse alle loro richieste di informazioni, hanno sottratto il cellulare della responsabile dopo avere chiuso a chiave la porta del suo ufficio, per poi chiamare ingenuamente la polizia chiedendo di correre lì portandogli i loro documenti. Il loro procedimento penale è ancora in corso.

Queste denunce comportano quasi sempre la revoca dell’accoglienza su tutto il territorio italiano. Nonostante sia possibile impugnare i provvedimenti di revoca, e la Cledu lo abbia fatto in più occasioni ottenendone l’annullamento, le persone che ne sono destinatarie devono comunque, in attesa dell’esito del processo, lasciare il centro ritrovandosi per strada. Denuncia e consequenziale revoca possono diventare quindi uno strumento di ricatto affinché i richiedenti asilo accettino anche condizioni di accoglienza lesive della dignità umana. Le denunce sporte dagli operatori dei centri, inoltre, anche quando si risolvono in un’assoluzione nel corso del procedimento penale, sono di solito valutate molto negativamente in sede di Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, arrivando a volte a compromettere l’esito dell’audizione.

A fronte di tutto quanto appena detto, appare singolare che, con l’emanazione della legge 46/2017 (che converte il d.lgs 13/2017, cosiddetto decreto Minniti-Orlando), invece che intervenire su questa lunghissima fase stragiudiziale, al fine di “semplificare” le procedure di riconoscimento della protezione internazionale, si sia scelto di abolire un grado di giudizio, ovvero la possibilità di ricorrere in Corte d’appello, per il richiedente asilo cui è respinta la domanda dalla Commissione territoriale, violando, rispetto alla possibilità di tutela di un diritto umano fondamentale, l’articolo 3 della Costituzione italiana.

4. L’audizione in Commissione e la “credibilità” del dolore

Negli ultimi quarant’anni, in Europa, si è perfezionato quello che Jerome Valluy ha definito »il giudizio tecnocratico dell’esilio»[38], ovvero quel sistema di valutazione delle storie dei richiedenti protezione internazionale consolidato intorno a una serie di criteri ritenuti validi a orientare un esame oggettivo dei racconti, in termini di rispondenza con i parametri indicati dalla normativa internazionale e nazionale rispetto al riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria, o di quella per motivi umanitari. Questi criteri riguardano le condizioni dei Paesi di origine, le vicissitudini personali del richiedente, ma anche, preliminarmente, la definizione di cosa sia considerata una “persecuzione”, un “pericolo”, un “serio rischio”. Ad essere valutata, soprattutto, è però la “credibilità” [39] del richiedente asilo, per come può emergere nel corso di un’intervista che dura in media quaranta minuti e che procede per domande standardizzate.

In termini teorici, questa sorta di tecnica valutativa può essere considerata una materializzazione emblematica della relazione tra potere, conoscenza e «tecnologia», che secondo Michel Foucault, opera per «produrre» specifici soggetti piuttosto che altri[40]. Didier Fassin, in questa prospettiva, considera la crescente «perdita di credibilità dei richiedenti asilo», e il consequenziale aumento del numero dei dinieghi di richieste di protezione, come una conseguenza delle «crescenti restrizioni sull’immigrazione volte a limitare l’accesso dei migranti non europei al mercato del lavoro»[41].

Al di là di questo tipo di considerazioni[42], vale la pena descrivere criticamente e in via generale le modalità di svolgimento dell’audizione presso le Commissioni territoriali, gli elementi che sembrano orientare l’esito della decisione finale, e, rispetto a questo momento fondamentale del suo percorso, il tipo di supporto legale che può essere utile fornire al richiedente asilo.

Iniziamo col dire che tra le attività della Cledu la “preparazione” dell’audizione presso la Commissione territoriale è una delle più significative in termini quantitativi e qualitativi, rispetto all’impegno che richiede e alla potenziale incidenza sulla sorte dei richiedenti in questa fase stragiudiziale. L’attività consiste, preliminarmente, nel corso di un primo colloquio col richiedente, nel fornire una descrizione generale, che non sempre è già stata offerta con precisione, sulle tipologie di protezione che la Commissione potrà concedere a partire dalla storia che si troverà ad ascoltare. Nello specifico, viene spiegato quali informazioni fornite dal richiedente potranno essere considerate rilevanti dalla Commissione, ma anche in quale modo essa si aspetta che tali informazioni vengano fornite rispetto, ad esempio, alla coerenza e all’accuratezza dei dettagli.

Si procede poi illustrando al richiedente la possibile composizione della Commissione, e precisando che, seppure di fronte a estranei, sarà necessario raccontare con completezza gli episodi per quella sede significativi della propria vita. L’essere a conoscenza dei criteri che la narrazione dovrà seguire e del tipo di domande che verranno fatte per metterne alla prova la veridicità, può rivelarsi indispensabile per evitare che i richiedenti asilo, assorti nello sforzo di raccontarsi, rimangano spiazzati dagli interrogativi posti da interlocutori che potranno avere atteggiamenti anche molto diversi a seconda dei casi (ricordiamo che solitamente solo un membro della Commissione, che può essere un esponente dell’Acnur, un agente delle forze di polizia, come un assistente sociale indicato dall’amministrazione locale, conduce il colloquio).

È solitamente necessario più di un incontro per entrare poi nel merito delle singole storie.

Si tratta infatti, molte volte, innanzitutto di rimettere ordine nel dolore, aiutando i richiedenti a raccontare le violenze subite nell’arco di mesi, anni, e a volte di una vita intera, tenendo presente, come spiega Paul Ricoeur, «gli sconvolgimenti del raccontare» linearmente una sofferenza che invece, di norma, «si manifesta come rottura del filo narrativo, come conseguenza di una concentrazione estrema, di una focalizzazione puntuale sull’istante»[43].

Molti ricordi possono essere stati temporaneamente rimossi, altri rimangono confusi, di altri ancora è semplicemente troppo difficile parlare. Il fatto che il richiedente asilo possa ricostruire questa memoria in un ambiente protetto, prendendo il tempo necessario, di fronte a persone di cui ha imparato a fidarsi, può rendere meno faticoso lo sforzo di restituire la propria storia per la prima volta direttamente in commissione. Alcuni dettagli, inoltre, come le date esatte in cui gli episodi raccontati sono avvenuti, sono spesso complicati da ricostruire per persone che a volte non conoscono con esattezza neppure la propria data di nascita, come è il caso di molti giovani afghani, ma anche di tanti migranti africani che provengono da aree rurali e hanno una bassa scolarizzazione. La stessa costruzione narrativa, ordinata secondo la cronologia lineare, prevista dal tipo di intervista condotta dalle commissioni, non risponde spesso alla forma organizzativa del discorso narrativo propria della cultura dei paesi di origine di molti richiedenti.

Accade, inoltre, che questi ultimi non abbiano neppure contezza di avere subito forme di abuso, e non riescano quindi a mettere in evidenza nell’esposizione della loro storia episodi che invece la Commissione considera particolarmente indicativi. Chi ha sempre vissuto come parte della propria quotidianità arresti arbitrari e violazioni del principio dell’habeas corpus, ad esempio, potrebbe ometterli dal proprio racconto non identificandoli come una violazione grave o un pericolo attuale in caso di ritorno in patria. O ancora, chi ha lasciato il Paese di origine perché la famiglia non riusciva più a mantenersi con un’agricoltura di sussistenza, non sempre saprà riferire che ciò è accaduto, ad esempio, a seguito dell’esproprio illegittimo delle terre da parte del Governo, come per decenni è successo in Gambia, o che magari in quell’occasione è stato anche eseguito l’arresto di fratelli o genitori che hanno provato a resistere al sopruso.

A volte le violenze subite hanno lasciato segni evidenti sui corpi, ed è importante che le cicatrici o le menomazioni vengano valutate da medici che hanno le competenze adeguate per riscontrare e certificare le cause che le hanno prodotte, si tratti di segni di tortura o di mutilazioni genitali femminili. Questo tipo di certificazioni possono avere un grande rilievo in sede di Commissione, così come possono averlo vecchie fotografie recuperate, articoli di giornale, o tessere di partito: tutti documenti il cui reperimento comporta il più delle volte un grande sforzo emotivo, oltre che una certa difficoltà materiale.

Capita anche che i richiedenti asilo, a seguito di confronti con altri migranti che hanno ottenuto esito positivo alla richiesta di protezione, “rinuncino” alla verità della loro storia e raccontino quella di altri, pensando che possa rispondere maggiormente alle aspettative della Commissione. Può essere fondamentale quindi, il fatto che un operatore legale, fino all’ultimo momento, aiuti a comprendere il valore del “dire la verità”, non come parametro etico, ma come la scelta che più garantisce probabilità di successo. Difficilmente, infatti, - nonostante molti Paesi di provenienza vengano ritenuti in via generale sicuri, e questa prevalutazione possa orientare significativamente le decisioni della Commissione-, la storia di un migrante contemporaneo che ha attraversato illegalmente le frontiere d’Europa non contiene alcun elemento rilevante ai fini del riconoscimento di una forma di protezione.

Anche rispetto alla situazione del proprio Paese di origine, è importante che il richiedente sappia che potranno essergli rivolte domande, a prescindere dal suo livello di istruzione e dal contesto sociale in cui ha vissuto, volte ad appurare la sua conoscenza del contesto socio-politico di provenienza, e che di questo contesto la Commissione ha già un’idea chiara, formata sulla base di alcuni Rapporti internazionali che sembra considerare come fonti attendibili per valutare ogni posizione individuale. Un recente diniego dello status di rifugiato a Palermo, ha riguardato ad esempio una donna obbligata al matrimonio forzato che non è stata creduta perché all’epoca aveva 28 anni, mentre nel suo Paese d’origine questa usanza è prevista per ragazze molto più giovani. A nulla sono servite le tante fotografie che la migrante aveva faticosamente recuperato della cerimonia, e quelle di se stessa, che invece aveva sempre portato con sé, col viso tumefatto in momenti diversi nel corso di anni, a causa delle violenze subite dal marito e dagli altri familiari a fronte dei suoi tentativi di ribellione.

In relazione al vissuto nei Paesi di transito o in quelli di arrivo, inoltre, occorre che il richiedente asilo sappia fino a che punto e secondo quali criteri le sofferenze patite in contesti come quello libico possano essere tenute in conto nelle valutazioni della commissione, o quale tipo di percorso di “integrazione” sia significativo provare di aver perseguito o stare perseguendo in Italia, portando con sé certificati e relazioni da allegare alla documentazione fornita.

È fondamentale, infine, che il richiedente asilo sia provvisto anche di informazioni meramente “tecniche”, come quella relativa all’importanza di prestare particolare attenzione, al termine dell’intervista, alla lettura del verbale che sarà in un secondo momento l’unico oggetto di valutazione collegiale da parte della Commissione, o al fatto che tale verbale possa essere integrato o modificato prima di firmarlo, o alla possibilità, e alle conseguenze, di cambiare le proprie generalità in sede di audizione, o ancora al diritto, qualora l’interprete non fosse adeguato, di esigerne un atro anche se ciò comportasse il rinvio dell’audizione a una nuova data.

Essere in possesso di questo “sapere”, da parte del richiedente asilo, può riportare un equilibrio all’interno di un colloquio che per forza di cose non vede i dialoganti in situazione di parità.

Nonostante ciò, il momento dell’audizione, atteso quasi sempre per più di un anno nelle condizioni di disagio precedentemente evidenziate, rimane il più delle volte una fonte di ansia e paura che possono compromettere, in quel frangente, la capacità di raccontare anche le storie più solide e rispondenti ai criteri richiesti per l’ottenimento della protezione. Per questa ragione, la Cledu ha ad esempio scelto che i suoi avvocati accompagnino in commissione richiedenti asilo particolarmente vulnerabili o che rischiano di subire, per il fatto stessa dell’intervista, forme di vittimizzazione secondaria.

La storia di F., 16 anni, fuggito dal Gambia per via del proprio orientamento sessuale, per il quale avrebbe potuto subire il carcere a vita, ne è un esempio. Di fronte al suo racconto dell’amore per M., coetaneo col quale era scappato e di cui aveva perso le tracce al momento della partenza dalla Libia, le domande della Commissione erano state le seguenti: «Ma lei che sentimenti provava per M.? Come vi siete conosciuti? Quanto tempo è durata la vostra relazione? Dove vi vedevate? Come trascorrevate il vostro tempo insieme?». E ancora: «Vuole raccontarmi il percorso che l’ha portata a comprendere il suo orientamento sessuale?» Mi può spiegare cosa intende con: «ho capito che non sentivo dentro di me di non essere un uomo? É mai stato oggetto di discriminazione ovvero di stigmatizzazione a causa del suo orientamento sessuale? Può farmi degli esempi di episodi di forme di stigma sociale e di discriminazione?».

È possibile chiedersi se questi siano interrogativi appropriati da porsi a un minore in assenza di un supporto psicologico e in una sede come quella della Commissione territoriale. E appare legittimo interrogarsi sul come avrebbe potuto, un ragazzino semi-scolarizzato proveniente da una zona rurale del Gambia avere contezza di cosa sia una stigmatizzazione sociale e portarne degli esempi.

F. ha ricevuto un diniego dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria motivato soprattutto dal fatto di non avere fornito «informazioni sufficientemente plausibili circa il percorso che lo avrebbe portato a prendere coscienza di sé né del proprio vissuto all’interno della propria comunità».

Il ricorso è ad oggi pendente.

Conclusioni

L’intervento legale in particolar modo nella fase stragiudiziale, ma non solo, dovrebbe sempre implicare un approccio interdisciplinare, capace di prendere in carico le persone rispetto alle loro storie di vita, alle loro condizioni di salute fisica e mentale, al contesto in cui sono inserite[44]. Ciò è tanto più vero oggi, quando si interviene sui percorsi giuridici dei richiedenti asilo: dopo aver superato vissuti e viaggi traumatici, essi sono sempre più soggetti a una sorta di “diritto parallelo” che rischia di subordinare il rispetto dei diritti a presunte esigenze di sicurezza in un’ottica emergenziale. In questo contesto, le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale diventano una vera e propria corsa a ostacoli che non tutte le persone riescono a superare anche solo fino al traguardo dell’audizione in commissione, che si rivela anch’essa una prova che molti richiedenti non hanno gli strumenti per affrontare.

Per queste ragioni, risulta prezioso il lavoro di chi fornisce supporto legale gratuito ai richiedenti asilo, specialmente in una fase stragiudiziale in cui nessun accesso al gratuito patrocinio è previsto, e i centri di accoglienza non hanno il più delle volte personale dalle competenze adeguate a fornire questo servizio.

Rappresenta però un dato allarmante il fatto che questo tipo di interventi “dal basso” siano a volte l’unico strumento per garantire il reale accesso a un diritto che dovrebbe essere universale, e quindi mai discriminatorio nella sua implementazione; un diritto, per di più, come ricordato all’inizio di questo contributo, che può definirsi il punto di tenuta della concezione stessa dei diritti umani.

In questo senso, la sofferenza del diritto d’asilo nell’Italia contemporanea, ma lo stesso può dirsi per tutti gli altri paesi europei (con situazioni anche più critiche come quelle che si registrano nell’Europa dell’Est), dovrebbe essere considerato, trasponendo una metafora usata da altri autori rispetto al tema della “razza” e del razzismo[45], come l’agonia del «canarino del minatore», mandato in sacrificio per verificare la presenza di gas nocivi nella miniera. La sua sofferenza preannuncia che l’aria potrebbe presto diventare irrespirabile per tutti.

[1] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, [1958] 2004, p. 374.

[2] Idem, p. 389.

[3] Idem, p. 406.

[4] Idem, p. 415.

[5] N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990.

[6] L. Ferrajoli, I diritti fondamentali come dimensione delle democrazie costituzionali, in Ricerche Giuridiche, 3, n.2, 2014, p. 214.

[7] S. Benhabib, The Rights of Others. Aliens, Residents and Citizens. Press Syndicate of the University of Cambridge, Cambride, 2004, p. 91.

[8] Acnur (Unhcr), Introductory note by the Office of the United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR) to the Convention and Protocol relating to the status of refugees, 2010, p. 2.

[9] V. Chetail Are Refugee Rights Human Rights? An Unorthodox Questioning of the Relations between Refugee Law and Human Rights Law, in R. Marin (a cura di) Human Rights and Immigration, Collected Courses of the Academy of European Law, Oxford University Press, Oxford, 2014, p. 30.

[10] M. T. Gil-Bazo, Refugee Status and Subsidiary Protection under EC Law, in New Issues in Refugee Research, 136, 2006, p. 8.

[11] S. Rodotà, Il diritto ad avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012, pp. 31-32.

[12] M, Agier, Aux bord du monde, le réfugiées, Flammarion, Paris, 2002.

[13] S. Castles e M. J. Miller, L’era delle migrazioni. Popoli in movimento nel mondo contemporaneo, Odoya, Bologna, 2012.

[14] Sull’insegnamento clinico del diritto, cfr. F. Bloch Access to Justice and the Global Clinical Movement, in Washington University Journal of Law & Policy, 28, 2008, e, con riguardo al contesto italiano, F. Di Donato e F. Scamardella, (a cura di) Il metodo clinico-legale: radici teoriche e dimensioni pratiche, ESI, Napoli, 2017.

[15] M. R. Marella e E. Rigo, Cliniche legali, commons e giustizia sociale, in Parolechiave, 1, 2015.

[16] G. Di Chiara e A. Sciurba, Esperienze di tutela dei minori soli richiedenti asilo e percorsi di formazione del giurista: la Clinica legale per i diritti umani di Palermo, in MinoriGiustizia, 3, 2017.

[17] Commissione europea, Next Operational Steps in EU-Turkey Cooperation in the Field of Migration, 16.3.2016 COM(2016) 166 final.

[18] Cfr., sul caso specifico dell’Ong spagnola Pro Activa Open Arms, S. Perelli, Il sequestro della nave Open Arms: è reato soccorrere migranti in pericolo di vita? in Questione Giustizia on line, 31 marzo 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-sequestro-della-nave-open-arms-e-reato-soccorrere-migranti-in-pericolo-di-vita-_31-03-2018.php.

[19] Dati governativi a disposizione dell’autrice.

[20] Una consolidate giurisprudenza della Cedu dimostra che questa presunzione non risponde sempre a realtà rispetto alla tutela di tutti i diritti fondamentali. Cr., ad es. Sharifi et al c. Italia e Grecia, n. 16643/09 (sentenza del 21 Ottobre 2014) e Tarakhelc. Svizzera, n. 29217/12 (sentenza del 4 novembre 2014).

[21] Cfr., ad es., G. Elspeth, Current challenges for international refugee law, with a focus on Eu policies and Eu co-operation with the Unhcr, Briefing Paper for the Eu Parliament, 2013 e Ecre. Safe third country of origin”: A safe concept? AIDA Legal Briefing 3, 2013.

[22] European commission, A European Agenda on Migration, 13.5.2015 COM (2015) 240 final.

[23] A. Sciurba, Categorizing migrants by disempowering the right to asylum. A focus on the Sicilian implementation of the “Hotspot approach”, in Etnografia e Ricerca Qualitativa, 1, 2017.

[24] Sui dubbi di illegittimità costituzionale del decreto di respingimento differito e sulla recente giurisprudenza che li prende in considerazione, cfr. P. Bonetti, Il respingimento differito disposto dal Questore dopo la sentenza n. 275/2017 della Corte Costituzionale, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 1, 2018.

[25] Cfr., ad esempio, Amnesty International, Hotspot Italia. Come le Politiche dell'Unione Europea portano alla violazione dei diritti dei rifugiati e migranti, 2016, e Oxfam, Hotspot, rights denied, 2016.

[26] Asgi, Chiuso l’hotspot di Lampedusa-CILD, ASGI e IndieWatch: Condizioni disumane e violazioni dei diritti umani, 14 marzo 2018.

[27] Hotspot di Lampedusa. Cild, Asgi e IndieWatch: All’interno della struttura condizioni disumane e violazioni dei diritti umani, Comunicato stampa del 9 marzo 2018.

[28] Asgi, La questura deve ricevere la richiesta di asilo, non valutarla, 14 giugno 2017.

[29] E. Paoletti, Migration Agreements between Italy and North Africa: Domestic Imperatives versus International Norms, http://ffm-online.org/wp-content/uploads/2013/03/Migration-Agreements-between-Italy-and-North-Africa.pdf, 2012.

[30] Cfr. Ad es. Amnesty international, Rapporto Annuale 2017-2018, Medio-Oriente e Africa del Nord, Egitto, 2018.

[31] Amnesty international, 2016, cit., p. 11.

[32] L. Palumbo e A. Sciurba, Vulnerability to Forced Labour and Trafficking. The case of Romanian women in the agricultural sector in Sicily, in Antitrafficking Revue, 5, 2015.

[33] N. Dines e E. Rigo, Postcolonial citizenship between representation, borders and the ‘refugeeization’ of workforce: Critical reflections on migrant agricultural labour in the Italian Mezzogiorno, in S. Pozzonesi, e G. Colpani, G. (a cura di), Postcolonial Transition in Europe: Contexts, Practices and Politics, London, Rowman and Littlefield, 2015.

[34] Asgi, ASGI alla Questura di Napoli: illegittimo limitare l’accesso ai richiedenti asilo e ai loro avvocati, 11 ottobre 2017.

[35] Lettera inviata dall’Asgi alla Questura di Napoli il 27 settembre 2017.

[36] Melting Pot Europa, La Questura non può chiedere il passaporto per il rilascio e il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi umanitari, 9 gennaio 2018.

[37] Emblematico è il caso delle serie di manifestazioni organizzate dai richiedenti asilo negli ultimi anni presso il Cas di Isnello, in Provincia di Palermo: si tratta di una baita di montagna che dista svariati chilometri a piedi dal primo luogo abitato, dove decine di giovani uomini vivono privati di ogni servizio, a partire da un sistema di riscaldamento adeguato.

[38] J. Valluy, Reject des exilés. Le grand retournement du droit de l'asile. Paris, éditions du croquant, 2009.

[39] Acnur (Unhcr), Beyond Proof - Credibility Assessment in Eu Asylum Systems, 2013.

[40] M. Foucault, Il faut défendre la société. Cours au Collège de France (1976-1977), Gallimard, Paris, 1997, p. 27

[41] D. Fassin, The Precarious Truth of Asylum, in Public Culture 25, 1, p. 48.

[42] Su questo punto mi permetto di rimandare a Sciurba, A., Misrecognizing Asylum. Causes, modalities and consequences of the crisis of a fundamental human right, In Rivista di Filosofia del Diritto, 1, 2017.

[43] P. Ricouer, La sofferenza non è il dolore, in F. Scaramuzza (a cura di), Dall’attestazione al riconoscimento. In ricordo di Paul Ricouer, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2016.

[44] J. Frank, Both EndsAgainst the Middle, University of Pennsylvania Law review, 100, 1951.

[45] G. Torres e L. Guinier, Il canarino del minatore e la nozione di political race, in K. Thomas e G. Zanetti, Legge, Razza e Diritti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005.