Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018

di Chiara Favilli
associato di Diritto dell'Unione europea, Università di Firenze
La Cassazione eleva l’integrazione sociale a motivo rilevante per la determinazione della vulnerabilità individuale e di riconoscimento della protezione umanitaria. Motivo autonomo, ma non indipendente dalla condizione di origine del richiedente, che implica l’accertamento del fatto che egli nel suo Paese corra il rischio di veder sacrificati i propri diritti fondamentali anche per ragioni diverse da quelle per cui opera la protezione internazionale con lo status di rifugiato e con la protezione sussidiaria. Ma al giudice del merito spetta il compito di verificare se tale rischio di pregiudizio sia attuale. E tale gravosa funzione si può e si deve giovare dell’obbligo di cooperazione istruttoria e del beneficio del dubbio.

1. L’integrazione sociale come motivo rilevante ai fini della determinazione della vulnerabilità individuale

Con la sentenza n. 4455/2018 la Corte di cassazione è intervenuta enunciando i criteri ermeneutici rilevanti ai fini di un’appropriata applicazione delle disposizioni in materia di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, comma 6, del d.lgs 286/1998.

La Cassazione si è pronunciata sul ricorso del Ministero dell’interno avverso una sentenza della Corte d’appello di Bari che aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano il diritto al rilascio di un permesso per motivi di integrazione sociale e per l’esposizione ad una situazione di particolare vulnerabilità che sarebbe derivata dall’allontanamento verso il Gambia, stante la grave compromissione dei diritti umani ivi presente. Secondo il Ministero dell’interno, infatti, il permesso di soggiorno per motivi umanitari non potrebbe essere rilasciato solo per ragioni di integrazione sociale e per il rischio derivante da una generale violazione dei diritti umani nello Stato di origine.

La Corte accoglie il ricorso e allo stesso tempo chiarisce in modo netto che l’integrazione sociale è uno dei motivi che concorrono a determinare la situazione di vulnerabilità personale rilevante ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in sintonia, sotto questo profilo, con la sentenza impugnata della Corte d’appello di Bari. Il motivo dell’accoglimento del ricorso non è, dunque, l’astratta idoneità dell’integrazione sociale ad integrare la fattispecie aperta di cui all’art. 5, comma 6, TU 286/1998, bensì la carenza dell’impianto argomentativo e dell’indagine individualizzata che, invece, secondo la Corte devono essere presenti al fine del riconoscimento della vulnerabilità nel caso concreto.

In particolare, la sede di sussunzione dell’integrazione sociale tra gli elementi sintomatici delle vulnerabilità legittimanti il riconoscimento della protezione umanitaria è rinvenuta nell’art. 2 della Costituzione e, per il tramite di esso, nell’art. 8 della Cedu. L’argomentazione della Corte prosegue dunque operando quel bilanciamento tipico dell’orientamento seguito dalla Corte Edu per valutare la legittimità delle limitazioni consentite dall’art. 8(2) Cedu al diritto alla vita privata e familiare di cui all’art. 8(1). Secondo la Cassazione, la vulnerabilità può essere accertata anche effettuando il bilanciamento tra l’integrazione sociale acquisita in Italia e la situazione oggettiva del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ne ha determinato la partenza, così da accertare la condizione personale di effettiva deprivazione dei diritti umani che abbia giustificato l’allontanamento (punto 5 della sentenza).

La Corte applica poi il medesimo schema argomentativo anche ad altre ipotesi di vulnerabilità, già frequentemente emerse nella giurisprudenza di merito, ma con orientamenti altalenanti. Il riferimento è alle condizioni di estrema povertà o a quelle ambientali. A questo riguardo la Corte chiaramente afferma che la condizione di vulnerabilità può dipendere anche «dalla mancanza di condizioni minime per condurre un’esistenza nella quale non sia radicalmente compromessa la possibilità di soddisfare i bisogni e le esigenze ineludibili della vita personale, quali quelli strettamente connessi al proprio sostentamento e al raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa». Quindi non solo una situazione di instabilità politico-sociale che esponga a situazioni di pericolo per l’incolumità personale ma «anche un’esposizione seria alla lesione del diritto alla salute» oppure «può essere conseguente ad una situazione politico-economica molto grave con effetti di impoverimento radicale riguardante la carenza di beni di prima necessità, di natura anche non strettamente contingente, od anche discendere da una situazione geo-politica che non offre alcuna garanzia di vita all’intero del Paese d’origine (siccità, carestie, situazioni di povertà inemendabili)».

Tutti questi motivi (integrazione sociale combinata con la privazione dei diritti fondamentali; condizioni di estrema povertà o ambientali, motivi di salute) possono utilmente nutrire la fattispecie aperta della protezione umanitaria a condizione che siano valutati in concreto, non essendo sufficiente semplicemente dimostrare l’esistenza di condizioni di vita migliori nel paese di accoglienza. Occorre, in altre parole dimostrare che la persona che invoca la protezione umanitaria si sia allontanata «da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili» ai quali sarebbe nuovamente esposta se la protezione non fosse riconosciuta e fosse così allontanato verso il Paese d’origine (punto 5 della sentenza).

Va da sé che l’integrazione sociale non è una condicio sine qua non per riconoscere la protezione umanitaria, come può invece talvolta apparire dalla lettura di alcuni provvedimenti di diniego della protezione. Essa ne costituisce uno dei presupposti il cui accertamento richiede l’applicazione del giudizio comparativo di cui al punto 7 della sentenza. La protezione umanitaria impone, infatti, che sia primariamente considerata la situazione del richiedente nel Paese d’origine: da questo punto di vista, la protezione per motivi di integrazione sociale non è diversa da quella per motivi di estrema povertà o per disastri ambientali. Si tratta sempre di tutelare il soggetto da una situazione esistente nel Paese d’origine. Solo che nel caso della protezione per motivi di integrazione sociale, (sradicamento totale dal Paese di origine tale da pregiudicare i diritti fondamentali del richiedente), il presupposto diventa meritevole di tutela alla luce della comparazione con l’attuale livello di integrazione in Italia. Quando, invece, emergano motivi di salute, di estrema povertà o ambientali, (sempre tali da pregiudicare i diritti fondamentali del richiedente), la comparazione con l’attuale livello di integrazione sociale in Italia non è rilevante, perché queste situazioni sono di per sé costitutive di un presupposto della protezione umanitaria.

La Corte ribadisce il principio dell’obbligo di «cooperazione istruttoria officiosa», che include anche la previa approfondita audizione e, dunque, la necessità di esaminare caso per caso la sussistenza dei presupposti, così da accertare la situazione di vulnerabilità in concreto e non solo con il riferimento generico alla situazione nel Paese d’origine e alle migliori condizioni di vita in Italia. La necessità dell’esame individuale e dell’accertamento della vulnerabilità in concreto è imposta secondo la Corte anche quando in tale Paese vi sia il rischio di «violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani» come disposto dall’art. 19.1.1 del d.lgs. 286/1998 (vds. infra par. 3).

2. Il bilanciamento tra esigenze contrapposte: il principio tratto dall’art. 8 della Cedu

La valorizzazione dell’integrazione sociale come fattore utile ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari è ricavata dall’interpretazione dell’art. 8 della Cedu che arricchisce il novero dei diritti fondamentali di cui all’art. 2 della Costituzione. Com’è noto, l’art. 8 Cedu riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, le cui limitazioni sono legittime solo se previste per legge e siano giustificate da motivi inerenti «alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del Paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui».

La norma ha avuto una vivace applicazione in materia di diritto degli stranieri, talvolta relativamente ad alcuni aspetti del diritto al ricongiungimento familiare, più spesso come limite al potere statale di allontanare lo straniero “indesiderato”. Già l’abrogata Commissione dei diritti umani europea aveva ammesso che l’espulsione di uno straniero può costituire in certi casi un’ingerenza nella vita familiare vietata dall’art. 8(1).

Presupposto dell’applicabilità dell’art. 8 è l’esistenza di una «vita privata e familiare», da accertare nel caso concreto e desumibile da svariate circostanze (Berrehab v. Netherlands, 21 giugno 1988, ric. n. 10730/84; Abdulaziz, Cabalez e Balkandali v. UK, 11 maggio 1982, ric. n. 9214/80).

Una volta accertata l’esistenza della vita privata e/o familiare occorre verificare se vi sia stata un’ingerenza e se questa sia ammissibile ai sensi dell’art. 8(2). Un elemento di notevole peso nel bilanciamento di interessi operato dalla Corte, è la possibilità di trasferirsi nel Paese d’origine, avendo riguardo anche ai legami sussistenti con lo Stato di residenza comparati con quello verso il quale dovrebbe essere espulso. La Corte ha precisato che l’obbligo imposto dall’art. 8 non può comportare un obbligo generale di rispettare qualsiasi scelta delle persone circa il Paese della loro residenza e che devono essere accertati gli ostacoli che sussistono per ristabilire la vita privata e familiare nel Paese di origine (Cruz Varas and others v. Sweden, 20 febbraio 1991, ric. n. 15576/89).

Se nella gran parte dei casi sottoposti alla Corte, l’allontanamento è stato riconosciuto in contrasto con l’art. 8 Cedu quando erano coinvolti migranti di cd. “seconda generazione”, privi di legami significativi con il Paese d’origine, talvolta il medesimo orientamento è stato applicato a migranti da poco giunti nel Paese membro (Radovanovic v. Austria, ric. n. 42703/98 del 22 luglio 2004).

I casi sui quali la Corte Edu ha avuto sino ad oggi modo di pronunciarsi sono diversi da quello specifico che ha originato la pronuncia della Cassazione in commento. Tuttavia, il principio che si ricava dall’art. 8 Cedu è esattamente quello della valorizzazione dei legami familiari o sociali costruiti nel Paese membro (art. 8.1) comparati con quelli esistenti nel Paese d’origine. La Corte di cassazione effettua, infatti, un giudizio comparativo tra tali legami e la situazione della persona interessata nel Paese d’origine, onde verificare l’esistenza di una situazione di vulnerabilità. Non una mera comparazione delle migliori o peggiori condizioni di vita nel Paese d’origine, ma l’accertamento in concreto della compromissione di un diritto costituito nel Paese membro e tutelato dall’art. 8 della Cedu in rapporto a quello esistente nel Paese che è stato abbandonato. Ovviamente, negli altri casi di protezione umanitaria, diversi dai motivi di integrazione sociale, non è tanto l’art. 8 Cedu la norma di riferimento quanto, semmai, l’art. 3 Cedu.

L’analisi che la Corte Edu compie è sempre un’analisi individualizzata, caso per caso, effettuando un bilanciamento tra, da una parte, il diritto dello straniero alla tutela della vita privata e familiare e, dall’altra, il diritto dello Stato di regolare l’ingresso e il soggiorno dello straniero, rifiutando l’ingresso o interrompendo il soggiorno nel proprio territorio con l’allontanamento. I criteri elaborati dalla stessa Corte devono essere soppesati dai giudici nazionali onde verificare nel concreto se sussista il diritto alla vita privata e familiare e se la sua limitazione sia o meno legittima. Lo stesso metodo dell’analisi individualizzata che caratterizza l’orientamento della Corte Edu in materia di esposizione di uno straniero al rischio grave di tortura o sottoposizione a pena e o trattamento disumano e degradante.

3. La rilevanza delle violazioni sistematiche dei diritti umani nello Stato d’origine

La pronuncia in commento consente anche di precisare il rapporto tra la protezione per motivi umanitari e il rischio di grave violazione dei diritti umani nel Paese d’origine, al quale la Corte fa riferimento nel punto 7 della sentenza, richiamando l’art. 19.1.1 del TU 286/1998. A nostro parere le fattispecie di cui all’art. 5(6) e all’art. 19 TU 286/1998 hanno in comune solo il fatto che entrambe individuano i presupposti ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari ma sono diverse. Inoltre, molto spesso i limiti all’allontanamento di cui all’art. 19.1 e 19.1.1 si traducono nel riconoscimento di una forma di protezione internazionale; altre volte potrà essere riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari ricollegabile alla casistica della Corte Edu in materia di art. 3 Cedu analoga a quella del Comitato contro la tortura in applicazione dell’art. 3 della Convenzione internazionale contro la tortura. Tant’è che le fattispecie di cui all’art. 19 individuano casi di divieti assoluti di allontanamento, a differenza delle situazioni di vulnerabilità tutelate “solo” attraverso l’art. 5, comma 6, del TU 286/1998. È noto, infatti, che la tutela della vita privata di cui all’art. 8 Cedu individua un diritto protetto ma limitabile, mentre quella di cui all’art. 3 Cedu individua un diritto assoluto, mai derogabile.

Venendo più specificamente al contenuto dell’art. 19.1.1 del d.lgs 286/1998, occorre preliminarmente precisare che esso è stato introdotto nel 2017, ad opera dell’art. 3 della legge 14 luglio 2017, n. 110 di Introduzione del delitto di tortura nell'ordinamento italiano. L’articolo è in gran parte debitore dell’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 1984, il cui primo comma sancisce il divieto di allontanamento in caso di rischio di sottoporre una persona a tortura. La stessa disposizione trova corrispondenza nell’art. 3 Cedu, come interpretato dalla Corte Edu e codificato anche all’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In base al secondo comma dell’art. 3 della Convenzione contro la tortura, per valutare l’esistenza di tale rischio «the competent authorities shall take into account all relevant considerations including, where applicable, the existence in the State concerned of a consistent pattern of gross, flagrant or mass violations of human rights».

Tale disposizione è stata trasposta nell’art. 19.1.1 d.lgs 286/1998 con un testo più sintetico in base al quale nella valutazione dell’esistenza del rischio che l’allontanamento sottoponga una persona a tortura, «si tiene conto anche dell’esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».

L’art. 19.1.1 deve dunque essere interpretato alla luce dell’art. 3 della Convenzione contro la tortura, nonché della giurisprudenza rilevante della Corte Edu. Risulta così che la specificazione di cui all’art. 19.1.1 non costituisce una condizione aggiuntiva, senza il soddisfacimento della quale non opera il limite all’allontanamento e il dovere dello Stato di riconoscere la protezione umanitaria. Essa individua una situazione che potremmo qualificare come estrema, non sempre sussistente, nella quale il rischio di esposizione a tortura diventa ancora più serio e debba per questo essere tenuta in debito conto. Laddove infatti in uno Stato vi siano violazioni sistematiche e gravi dei diritti umani sarà ancora più attenuato quell’onere della prova necessario a dimostrare il rischio individualizzato, necessario per ottenere qualsiasi forma di protezione (sulla valutazione delle prove si veda Tribunale di Firenze Rg 14046/2016, punto 2). È questa l’unica interpretazione della norma compatibile con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, dalla quale deriva l’art. 19.1.1 e conforme anche alla decennale giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Ciò trova conferma anche nel recente General Comment n. 4 (2017) sull’applicazione dell’art. 3 della Convenzione nel contesto dell’art. 22, sulla competenza del Comitato contro la tortura a ricevere denunce da parte di soggetti privati (General comment n. 4 (2017) del 9 febbraio 2018 on the implementation of article 3 of the Convention in the context of Article 22).

È auspicabile che la novella, interpretata in modo conforme agli obblighi internazionali, consenta di superare definitivamente quell’orientamento restrittivo che talvolta invece emerge in pronunce anche della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, accomunando le negative condizioni economiche a quelle di salute, è richiesto che esse siano «l'effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della Cedu» (Cass. 21 dicembre 2016, n. 26641, richiamata da ultima da Cass. 2767/2018).

La condizione di salute, ad esempio, è considerata nella giurisprudenza della Corte europea come limite all’allontanamento dello straniero allorquando quest’ultimo lo esponga ad un rischio di trattamento disumano e degradante, vietato dall’art. 3 Cedu. Sebbene la Corte abbia accertato la responsabilità degli Stati in circostanze di gravissime condizioni di salute della vittima, non emerge nelle pronunce della Corte, nessuna necessità che vi sia anche una sistematica e generalizzata violazione dei diritti umani nel Paese d’origine (Corte Edu, D. c. Regno Unito, 1997; N. c. Regno Unito, 2008; Paposhvili v. Belgio, 2016). Analogo orientamento si riscontra nelle sentenze della Corte di giustizia nelle quali, proprio con riferimento alle ragioni di salute del richiedente protezione, è riconosciuto agli Stati uno spazio di autonomia nel garantire forme di protezione diverse da quella internazionale disciplinata dal sistema europeo comune di asilo (Corte di giustizia UE, 9 novembre 2010, B. e D., C-57/09, punti 118-121; 18 dicembre 2014, C-542/13, M’Bodj, punti 43-47).

4. La protezione umanitaria tra diritto d’asilo costituzionale e sistema europeo comune di asilo

La disciplina della protezione umanitaria è stata regolata in Italia attraverso diverse disposizioni legislative, adottate con interventi normativi succedutisi nel tempo con finalità e oggetto diversi e tali da offrire un quadro del tutto disorganico e non coerente. Nel confrontarsi con un testo normativo infelice, peraltro in un contesto del tutto avverso e a tratti caotico, inevitabili sono state le pronunce difformi, andando da orientamenti talvolta acrobatici ad altri talvolta eccessivamente restrittivi (si veda da ultimo N. Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2018, 1).

Quando per la prima volta, nel 1998, venne introdotto l’art. 5(6) con il decreto legislativo n. 286, mancava una normativa organica in materia di asilo che in gran parte avveniva per tramite dei ricorsi giurisdizionali e l’applicazione diretta dell’art. 10 (3) Cost. Il rilascio del permesso per motivi umanitari interveniva dunque in ipotesi effettivamente residuali.

Con l’avvento del sistema europeo di asilo si è avuta una articolata disciplina della protezione internazionale, largamente basata sulla Convenzione di Ginevra sul diritto dei rifugiati e sul principio di non respingimento ma inclusiva anche di interpretazioni evolutive della stessa Convenzione di Ginevra, nonché di quelle fattispecie diverse dal diritto di asilo che non hanno ancora avuto un’autonoma e completa disciplina a livello internazionale e né, spesso, a livello nazionale. Ci si riferisce in particolar modo ai limiti all’allontanamento derivanti dalla Convenzione europea dei diritti umani che in gran parte sono oggi “coperti” dalla nozione di protezione sussidiaria, mutando da meri obblighi di tipo negativo in veri e propri obblighi positivi di protezione e di riconoscimento di uno specifico status.

In virtù dell’attuazione degli obblighi derivanti dall’Unione europea, ogni Stato si è dovuto dotare di un vero e proprio sistema di asilo. In Italia l’impatto è stato significativo, data l’assenza di una disciplina organica e di una legge di attuazione del diritto d’asilo costituzionale, pur prevista dall’art. 10, comma 3. Cost. Inoltre, tramite l’attuazione delle direttive UE, l’Italia ha indirettamente dato piena attuazione a quegli obblighi di diritto internazionale codificati dalle direttive dell’Unione e spesso riconosciuti in Italia solo in via giurisprudenziale, grazie ad interpretazioni convenzionalmente orientate delle scarne norme nazionali. Analogamente, il recepimento degli obblighi UE è stato letto anche come un’attuazione indiretta, seppur parziale, dell’art. 10, comma 3, della Costituzione, stante la mancata approvazione in settant’anni della legge di attuazione cui tale articolo rinvia.

Così, il diritto di asilo costituzionale viene a configurare la categoria generale entro la quale trovano collocazione tutte le forme di protezione incluse nella nozione di protezione internazionale, ciascuna delle quali rappresenta solo una parte della più ampia tutela riconosciuta dall’art. 10, comma 3, Cost.

L’indiretta attuazione del diritto d’asilo costituzionale attraverso l’attuazione delle direttive del Sistema europeo comune d’asilo unitamente alla preclusione dell’applicazione giurisdizionale del diritto d’asilo costituzionale, ha fatto confluire nell’ambito della protezione umanitaria anche quella residua applicazione dell’art. 10(3) Cost. non del tutto assorbita dalla legislazione di derivazione europea. Fino a tempi più recenti, inoltre, spiccava lo scarso riferimento nei ricorsi e nelle sentenze all’art. 10 della Costituzione che, invece, dovrebbe essere la norma di riferimento sia per l’interpretazione costituzionalmente orientata dei presupposti legittimanti il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari sia per l’eventuale riconoscimento del diritto d’asilo costituzionale in quegli spazi ancora lasciati tra l’attuazione del Sistema europeo di asilo e l’applicazione dell’art. 10(3) Cost. (si vedano le sentenze pubblicate in questa rivista: La protezione umanitaria e la Costituzione).

La protezione umanitaria dello straniero risulta quindi una protezione nazionale, complementare rispetto alla protezione cd. internazionale, in quanto in gran parte internazionale è la disciplina dei presupposti e dello status ad essa connesso. Essa è contemplata, ma non regolata, dal diritto dell’Unione, che rinvia alla legislazione degli Stati membri che la possono discrezionalmente riconoscere. La Corte di giustizia, nell’affermare che sussiste ancora uno spazio per forme di protezione più favorevoli disciplinate dal diritto nazionale, come espressamente ammesso dalle direttive UE, ha chiarito che esse devono sempre essere compatibili con le direttive ed in particolare devono rispondere una ratio di protezione diversa così da non confondersi con quelle di derivazione UE. Questo consente di offrire una tutela residuale e più ampia di quella risultante dalla protezione internazionale di derivazione europea, nella quale può essere ricompresa anche la tutela in conformità al diritto d’asilo costituzionale.

A causa della chiusura dei canali di ingresso regolare e dall’assenza dal 2009 delle periodiche regolarizzazioni/sanatorie, sono lievitate le richieste di riconoscimento della protezione umanitaria, di persone che in precedenza, pur in presenza dei medesimi presupposti, non avevano necessità di vedersi riconosciuta tale forma di protezione pur avendone pienamente diritto. La fattispecie aperta della protezione umanitaria ha così consentito di riconoscere il diritto di soggiorno ed un limite all’allontanamento in svariate circostanze, non tipizzate, dando dimora a tutte quelle situazioni nelle quali, a causa della particolare vulnerabilità, una persona, nonostante non possa beneficiare della protezione internazionale, debba comunque trovare accoglienza nel nostro Paese ed avere riconosciuto un permesso di soggiorno perché altrimenti vedrebbe sacrificati gravemente i propri diritti fondamentali.

La sentenza in commento offre una chiara linea interpretativa, onde evitare un’applicazione a mosaico da parte di tutti i soggetti coinvolti nel riconoscimento della protezione. Inoltre, per un verso, offre agli avvocati patrocinanti i ricorsi delle precise indicazioni su come impostare efficacemente una richiesta di riconoscimento della protezione per motivi umanitari; per altro verso indica anche al giudice l’impegnativo onere istruttorio (in attuazione del dovere di cooperazione) e motivazionale, collocando i processi per il riconoscimento della protezione su un elevato livello di complessità (vedi punto 6 della sentenza in commento).

14/03/2018
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