Magistratura democratica
Diritti senza confini

Il regolamento per l’accesso alle prestazioni agevolate del comune di Lodi o la burocrazia dell’ingiustizia

di Elisabetta Tarquini
consigliera della Corte d’appello di Firenze
Quella che riguarda la mensa scolastica del comune lombardo è una storia che mette in luce la straordinaria capacità della burocrazia di funzionare da strumento di esclusione. Il regolamento viola i diritti di una parte di chi abita quel territorio, individuata in relazione alla sua nazionalità e origine etnica, e lo fa violando norme statali sovraordinate

In una scena del film Selma [1], una delle protagoniste intende registrarsi per votare. Siamo in Alabama negli anni Sessanta e lei è nera.

L’addetto all’ufficio, per accettare la sua registrazione, le chiede prima di recitare il preambolo della Costituzione degli Stati Uniti e lei lo fa. Quindi le chiede quante siano i giudici di contea in Alabama e lei, come una studentessa che si è molto preparata per un esame atteso, risponde esattamente: sessantasette. Infine l’impiegato le chiede di dirne tutti i nomi: allora lei abbassa lo sguardo e riprende la sua domanda di registrazione, sulla quale l’impiegato ha scritto «Respinta».

È una brutta storia, ma è una storia vera.

Anche quella che riguarda la mensa scolastica del comune di Lodi, di cui molto si è parlato in questi giorni sulla stampa, è una storia vera e con quella che si è appena raccontata ha questo in comune: la straordinaria capacità della burocrazia di funzionare da strumento di esclusione.

La vicenda di Lodi è nota: il consiglio comunale di quella città ha modificato il regolamento in materia di accesso alle prestazioni sociali agevolate prevedendo che ai fini dell’accesso a quelle prestazioni rilevino anche «i redditi, i beni immobili e mobili registrati disciplinati dall’art. 816 cc eventualmente posseduti all’estero e non dichiarati in Italia ai sensi della vigente normativa fiscale». La titolarità, ma anche l’assenza di tali cespiti, dovrà essere documentata dai richiedenti che non siano cittadini italiani o dell’Unione europea da dichiarazioni rilasciate dalle competenti autorità dello Stato estero «corredate di traduzione in italiano legalizzate dall’autorità consolare italiana che ne attesti la conformità». Con le medesime modalità quegli stessi richiedenti dovranno «comprovare la composizione del nucleo familiare».

Queste disposizioni non trovano applicazione per i rifugiati politici, «qualora convenzioni internazionali dispongano diversamente» e per i cittadini dei Paesi nei quali, a giudizio della stessa amministrazione comunale che dovrebbe a tal fine stilare un apposito elenco, sarebbe «oggettivamente impossibile acquisire le certificazioni» sopra indicate.

Non è difficile immaginare la fine di questa storia: la generalità dei residenti extracomunitari di Lodi non è stata in grado di produrre i documenti richiesti, per cui all’inizio dell’anno scolastico i bambini provenienti da queste famiglie non hanno potuto beneficiare delle tariffe agevolate per reddito dei servizi di mensa e di scuola-bus, i loro genitori non sono stati in grado di pagare la tariffa massima prevista per chi non avesse documentato compiutamente i propri redditi ai fini Isee e i bambini sono stati esclusi da quei servizi.

L’esclusione, anche questo è noto, ha condotto a una mobilitazione spontanea di cittadini che, in pochi giorni, ha consentito di raccogliere abbastanza denaro da pagare ai bambini stranieri di Lodi l’accesso ai servizi a tariffa piena per l’intero anno scolastico, in attesa dell’esito del giudizio introdotto avverso il regolamento.

Perché un giudizio ci sarà e allora i tecnici del diritto, ma anche i cittadini e le cittadine che intendano formarsi un’opinione consapevole, non possono evitare di domandarsi se quell’esclusione, che a molti appare come un’ingiustizia immediatamente evidente, sia comunque avvenuta «secondo la legge».

La risposta a parere di chi scrive è: no.

Il regolamento del consiglio comunale di Lodi viola i diritti di una parte dei componenti la comunità che abita quel territorio, individuata in relazione alla sua nazionalità e origine etnica, e lo fa violando norme statali sovraordinate.

Infatti la materia dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate è oggi disciplinata dal Dpcm 05 dicembre 2013, n. 159, portante il Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell'Indicatore della situazione economica equivalente (Isee).

Il regolamento, emesso ex lege n. 400/1988, come risulta dalla premessa, descrive all’art. 2 l’Isee come «strumento di valutazione, attraverso criteri unificati, della situazione economica di coloro che richiedono prestazioni sociali agevolate», mentre all’art. 1 definisce le prestazioni sociali come «tutte le attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia» e le prestazioni sociali agevolate come «prestazioni sociali non destinate alla generalità dei soggetti, ma limitate a coloro in possesso di particolari requisiti di natura economica, ovvero prestazioni sociali non limitate dal possesso di tali requisiti, ma comunque collegate nella misura o nel costo a determinate situazioni economiche».

E ancora l’art. 2 del regolamento dispone che «la determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione», disposizione quest’ultima che, merita ricordarlo, riserva allo Stato «la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».

Una piena lettura di queste disposizioni impone allora di escludere che le amministrazioni locali tenute a fornire prestazioni sociali agevolate abbiano titolo a intervenire, modificandole, sulla «determinazione e l’applicazione dell’indicatore», poiché simili iniziative determinerebbero all’evidenza proprio quella disparità «nei livelli essenziali» di accesso alle prestazioni sociali che la norma costituzionale intende invece assicurare in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale.

Assunto questo dato, devono farsi due rilevanti premesse: la prima è che, come risulta inequivocamente dalla definizione di nucleo familiare come famiglia anagrafica contenuta nell’art. 3 del Regolamento e a contrario dalla speciale disciplina dettata dall’art. 8 per le prestazioni in materia di accesso allo studio universitario, l’indicatore portato nel Dpcm trova applicazione in relazione ai soli residenti sul territorio nazionale; la seconda è che in base all’art. 2 del Tuir, i residenti (italiani e stranieri) sono tenuti a pagare in Italia le imposte sui redditi da loro complessivamente prodotti, e quindi anche su quelli prodotti all’estero (salva la possibilità di evitare la doppia imposizione con varie modalità).

Coerentemente con queste premesse il Dpcm collega l’accesso agevolato alle prestazioni a un indicatore reddituale e a un indicatore patrimoniale, di cui disciplina compiutamente la determinazione, rispettivamente agli art. 4 e 5, facendo comunque riferimento, ed è quello che qui interessa, a cespiti (redditi o beni) in ogni caso rilevanti ai fini fiscali in Italia, in quanto soggetti a tassazione in Italia o da essa esenti comunque secondo la normativa nazionale [2], e di conseguenza affida le verifiche sulla veridicità delle informazioni raccolte all’Agenzia delle entrate, che deve eseguirle «sulla base di appositi controlli automatici» sui «dati presenti nel Sistema informativo dell'anagrafe tributaria», all’Inps che deve provvedervi a mezzo della «consultazione in base alle disposizioni vigenti degli archivi amministrativi delle altre amministrazioni pubbliche che trattano dati a tal fine rilevanti» e infine agli enti erogatori delle prestazioni, che sono tenuti ad eseguire «tutti i controlli necessari, diversi da quelli già effettuati» da Inps e Agenzia delle entrate, «avvalendosi degli archivi in proprio possesso», compresi «i controlli di cui all'articolo 71 del dPR 445/2000» [3].

L’intero sistema costruito dal Dpcm si fonda quindi, del tutto ragionevolmente ad avviso di scrive, sulla rilevanza, ai fini dell’accesso alle prestazioni sociali agevolate, di indicatori delle disponibilità economiche delle famiglie e dei singoli accertabili prima facie dalle pubbliche autorità, a mezzo di riscontri con i dati esistenti nei rispettivi archivi amministrativi: le dichiarazioni dei redditi, le informazioni reperibili dall’Agenzia delle entrate a mezzo dell’anagrafe tributaria sui rapporti e le operazioni finanziarie (così l’art. 7 comma 6 del dPR 605/1973), le risultanze dei pubblici registri automobilistici e quelle dei sistemi informativi degli enti previdenziali, salva la previsione (contenuta nell’art. 11 comma 13) di controlli “sostanziali” (eccedenti quindi i riscontri sui dati formalizzati negli archivi amministrativi) affidati alla Guardia di Finanza in via successiva e meramente eventuale.

A questa struttura è allora del tutto conseguente la scelta normativa, portata nell’art. 10 del Dpcm (che disciplina la cosiddetta Dsu-Dichiarazione sostitutiva unica), di consentire ai richiedenti di  autocertificare una serie di componenti dell’indicatore, tra i quali, per quanto qui interessa, «la composizione del nucleo familiare e le informazioni necessarie ai fini della determinazione del valore della scala di equivalenza» (art. 10 comma 7 lettera a), i redditi esenti da imposta, compresi i redditi da lavoro tassati esclusivamente all’estero [lett. f) del medesimo comma], le componenti del patrimonio immobiliare, compresi gli immobili posseduti all’estero [lettera m) del comma 7], gli autoveicoli, ovvero i motoveicoli di cilindrata di 500 cc e superiore, nonché le navi e imbarcazioni da diporto [lett. o) dello stesso comma], infine le componenti del patrimonio mobiliare di cui all'articolo 5, comma 4 (strumenti e rapporti finanziari di varia natura).

I dati contenuti nell’autocertificazione sono infatti, come si è detto, tutti riscontrabili dalla documentazione in possesso dell’amministrazione (nelle sue diverse articolazioni) almeno quanto alla corrispondenza tra l’autodichiarazione e il contenuto delle dichiarazioni e delle informazioni ufficialmente riferibili al richiedente giacenti presso gli archivi amministrativi, mentre resta rimesso alle indagini di istituto della Guardia di Finanza ogni successivo, e del tutto eventuale, accertamento di difformità tra i redditi e i beni dichiarati e quelli effettivamente nella disponibilità dei dichiaranti.

Ora in un sistema così costruito la qualifica di cittadino o invece di straniero (comunitario o extracomunitario) è del tutto indifferente, sempre che si dia (come deve darsi perché il Dpcm trovi generale applicazione) il requisito della residenza: tutti infatti, cittadini e stranieri residenti, sono soggetti alla medesima disciplina fiscale e su tutti l’amministrazione finanziaria è in grado di raccogliere le medesime informazioni a mezzo degli stessi riscontri sui dati formalizzati, che è quanto rileva ai fini del rilascio dell’Isee.

E merita peraltro aggiungere, per quanto, deve ribadirsi, si tratti di procedura del tutto estranea alla fase di rilascio dell’attestazione Isee, che anche quanto all’accertamento della verità sostanziale delle informazioni formalizzate, le possibilità di verificare l’esistenza all’estero di proprietà non dichiarate da italiani e stranieri siano esattamente le stesse e anzi per vero diverse convenzioni con Stati di provenienza dei migranti prevedano espressamente uno scambio di informazioni, idoneo ad agevolare gli eventuali successivi controlli sulle dichiarazioni di “impossidenza” rese dagli interessati nella Dsu (così ad esempio le Convenzioni con la Costa d’Avorio del 30 luglio 1982 ratificata in Italia il 27 maggio 1985 con legge n. 293 o con il Senegal firmata a Roma il 20 luglio 1998 e ratificata con legge n. 417 il 20 dicembre 2000).

Il regolamento del comune di Lodi si pone allora in contrasto evidente con il sistema descritto dal Dpcm, in quanto, nella parte in cui attribuisce rilievo ai fini dell’accesso alle prestazioni agevolate anche ai «redditi, beni immobili e mobili registrati disciplinati dall’art. 816 cc eventualmente posseduti all’estero e non dichiarati in Italia ai sensi della vigente normativa fiscale», sembra riferirsi all’astratta esistenza di cespiti fiscalmente irrilevanti nell’ordinamento nazionale e per questo non dichiarati, rispetto ai quali quindi sarebbe impossibile il controllo amministrativo rimesso in primis all’Agenzia delle entrate e all’Inps e poi agli enti erogatori, come invece disciplinato dal Dpcm.

Ma tali beni legittimamente non dovrebbero esistere, visto che gli stranieri extracomunitari, in quanto residenti, sarebbero tenuti a denunciare in Italia tutti i redditi comunque prodotti, così che l’omessa dichiarazione sarebbe piuttosto una dichiarazione infedele.

Ed è qui che si coglie, oltre all’effetto obiettivamente discriminatorio di cui si dirà, l’intento evidentemente vessatorio della normativa, in quanto richiede solo ai residenti stranieri non comunitari di documentare anche l’inesistenza di simili beni e quindi la veridicità sostanziale dei dati dichiarati al fisco e alle altre agenzie pubbliche italiane. Un incombente che ai cittadini italiani e comunitari non è richiesto dal Dpcm perché rimesso ai controlli successivi ed eventuali della Guardia di Finanza nell’ambito dell’attività d’istituto di contrasto all’evasione, destinata a svolgersi con le stesse modalità e strumenti in confronto di tutti i contribuenti.

E la finalità dell’intervento è ancora più lampante quando si pretende dagli stranieri residenti che a essere «comprovata» da documentazione dei Paesi di provenienza sia perfino «la composizione del nucleo familiare», che l’art. 3 del Dpcm chiaramente identifica, ai fini Isee, con la famiglia anagrafica. Mentre le eccezioni all’obbligo di documentazione restano (salve due ipotesi specifiche) rimesse alla discrezionale (o per meglio dire arbitraria) formazione da parte dell’amministrazione comunale di un elenco di Paesi dai quali si assume (è ignoto con quali criteri) sia «obiettivamente impossibile» ricevere i documenti altrimenti obbligatori.

È di tutta evidenza tuttavia come una simile pretesa incida, e significativamente, sia sulla «determinazione» che sull’«applicazione dell’indicatore», riducendo le possibilità di accesso di alcuni potenziali beneficiari alle prestazioni sociali rispetto ai «livelli essenziali», la cui applicazione uniforme sul territorio nazionale spetta allo Stato assicurare a mezzo della disciplina generale dell’attestazione Isee. Così che il regolamento del comune di Lodi interviene in un ambito sicuramente interdetto all’ente locale, con ogni conseguenza quanto all’illegittimità dell’atto amministrativo.

Ma quell’illegittimità produce un effetto specifico, che vale a qualificarla: essa infatti determina il trattamento deteriore di un gruppo di residenti in conseguenza, non solo della loro provenienza nazionale, ma in effetto della loro origine etnica.

Non c’è bisogno infatti di ricorrere a dati statistici (che saranno peraltro certamente disponibili) per sapere quello che qualunque persona adulta di buona fede sa: cioè che a far richiesta di accesso alle prestazioni sociali agevolate non sono in uguale percentuale gli stranieri extracomunitari di qualunque nazionalità, perché diversa è in via generale la collocazione sociale media, e quindi la disponibilità economica media, dei componenti dei diversi gruppi (per dire gli statunitensi o i canadesi residenti in Italia non chiedono certamente di accedervi nella stessa percentuale dei residenti di origine africana). E che proprio per i soggetti appartenenti ai gruppi che più frequentemente fanno domanda di accesso a quelle prestazioni è più difficile procurarsi la documentazione idonea ad attestare la veridicità delle loro dichiarazioni, atteso lo stato anche solo degli assetti amministrativi dei Paesi di provenienza.

L’illegittimità del regolamento si traduce quindi nella lesione del diritto di accedere in condizione di parità ai livelli essenziali delle prestazioni sociali garantite dallo Stato, specificamente per i richiedenti provenienti dai Paesi più poveri del mondo. Essa realizza quindi, in una parola, una discriminazione per origine etnica, vietata non solo dal d.lgs 286/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), ma anche e specificamente dalla direttiva 2000/43 dell’Unione, che afferma il principio di parità di trattamento, per quel che qui interessa, «per quanto attiene (…) e) alla protezione sociale, comprese la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria; f) alle prestazioni sociali; g) all'istruzione; h) all'accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l'alloggio». Direttiva attuata nel nostro ordinamento dal d.lgs 215/2003, ma che, quanto all’affermazione del principio di non discriminazione, sancisce comunque, per una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia, un principio suscettibile di immediata applicazione negli ordinamenti degli Stati membri [4].

L’illegittimità dell’atto amministrativo è pertanto certamente giustiziabile davanti al giudice ordinario e la natura della violazione dei diritti che essa determina autorizza l’accesso allo speciale procedimento contro le discriminazioni oggi disciplinato in via generale dall’art. 28 del d.lgs 150/2001.

L’ingiustizia è quindi anche illegittimità e l’illegittimità è discriminazione. Ma la legge oggi protegge i bambini stranieri di Lodi e le loro famiglie da chi pretenderebbe di chiedere ancora i nomi dei 67 giudici di contea dell’Alabama.



[1] Selma-La strada per la libertà è un film del 2014 diretto da Ava DuVernay, che rievoca le marce da Selma a Montgomery che, a partire dal 1965, segnarono il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

[2] Così quanto ai redditi prodotti all’estero l’art. 4 del Dpcm prevede che siano inseriti nel reddito complessivo i redditi da lavoro dipendente prestato all'estero, anche se «tassati esclusivamente nello Stato estero in base alle vigenti convenzioni contro le doppie imposizioni», nonché «i redditi relativi agli immobili all'estero non locati soggetti alla disciplina dell'imposta sul valore degli immobili situati all'estero di cui al comma 15 dell'articolo 19 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, non indicati nel reddito complessivo di cui alla lettera a), comma 1, del presente articolo, assumendo la base imponibile determinata ai sensi dell'articolo 70, comma 2, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917». Mentre l’art. 5 definisce il patrimonio immobiliare all'estero come «pari a quello definito ai fini dell'imposta sul valore degli immobili situati all'estero di cui al comma 15 dell'articolo 19 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, riferito alla medesima data di cui al comma 2, indipendentemente dal periodo di possesso nell'anno».

[3] Disposizione secondo cui «Le amministrazioni procedenti sono tenute ad effettuare idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi, sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47.

2. I controlli riguardanti dichiarazioni sostitutive di certificazione sono effettuati dall'amministrazione procedente con le modalità di cui all'articolo 43 consultando direttamente gli archivi dell'amministrazione certificante ovvero richiedendo alla medesima, anche attraverso strumenti informatici o telematici, conferma scritta della corrispondenza di quanto dichiarato con le risultanze dei registri da questa custoditi».

[4] Il complesso, articolato e talora accidentato percorso del principio di non discriminazione nel diritto dell’Unione e dei suoi effetti negli ordinamenti degli Stati membri è tema che non può essere affrontato nemmeno sommariamente in questa sede e la stessa bibliografia è sterminata. Basti allora qui richiamare, per un’analisi aggiornata e adeguata alle finalità del presente scritto: V. Piccone, Parità di trattamento e principio di non discriminazione nell’ordinamento integrato, in questa Rivista on-line, 15 febbraio 2017, http://questionegiustizia.it/articolo/parita-di-trattamento-e-principio-di-non-discriminazione-nell-ordinamento-integrato_15-02-2017.php.

06/11/2018
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