Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Custodia in carcere e prognosi sanzionatoria: la proporzionalità delle misure tra predizione e realtà

di Luca Fidelio
giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Torino

L’art. 275, comma 2 bis, c.p.p. – pur con eccezioni – esclude che possa applicarsi la custodia in carcere quando, al momento dell’emissione dell’ordinanza, il giudice ritenga che, all’esito del giudizio, la pena detentiva irrogata non sarà superiore a tre anni. Ma cosa succede quando la prognosi è smentita dalla successiva sentenza? Sul punto si registra un contrasto di giurisprudenza, esaminato in questo contributo.

1. Con relazione n. 93/2020 la Suprema Corte di Cassazione ha segnalato l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale riguardante i criteri di scelta delle misure cautelari personali, con particolare riferimento alla disposizione di cui all’art. 275, comma 2-bis, c.p.p., come modificata da parte del D.L. n. 92/2014, e al limite di tre anni di pena detentiva per l’applicazione della custodia cautelare in carcere.

Come noto il Decreto Legge n. 92/2014, convertito nella L. n. 117/2014, ha introdotto un secondo periodo all’art. 275 c. 2 bis del codice di rito, stabilendo un esplicito divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere nei casi in cui il giudice pronostichi, all’esito del giudizio, una condanna non superiore a tre anni di reclusione.

La disposizione in oggetto, come chiarito dai lavori preparatori e dalla relazione di accompagnamento al suddetto Decreto Legge, è funzionale, da un lato, a decongestionare le carceri e a circoscrivere il perimetro di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere, dall’altro, risponde all'ulteriore esigenza di collegare il sistema cautelare con la fase esecutiva di espiazione della pena.

La norma in questione impone dunque al giudice della cautela di farsi carico di prevedere gli esiti del futuro giudizio con particolare riguardo all’entità della pena irrogabile, compiendo una valutazione analoga a quella prescritta dalla prima parte della medesima disposizione, laddove stabilisce il divieto di disporre la misura della custodia in carcere o degli arresti domiciliari nel caso di prognosi favorevole alla concessione della sospensione condizionale della pena con la sentenza di definizione del giudizio. 

Autorevoli commentatori hanno messo in evidenza, in modo del tutto condivisibile, come la regola in questione costituisca una concretizzazione del generale principio di proporzionalità tra le misure cautelari e la pena irrogabile all’esito del giudizio di cui all’art. 275 c. 2 c.p.p., che così recita: «ogni misura deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata».

In altre parole, la disposizione in oggetto, stabilendo il generale divieto di adozione della misura cautelare carceraria in caso di prevedibile condanna, all’esito del giudizio, a pena non superiore a tre anni di reclusione, non fa altro che specificare che in tali ipotesi la misura del carcere non è proporzionale alla pena irrogabile all’esito del giudizio.

È appena il caso di ricordare, inoltre, che la disposizione in scrutinio sancisce alcune eccezioni all’operatività del divieto di applicazione della misura custodiale, così sintetizzabili:

a) procedimenti che coinvolgono alcune specifiche fattispecie di reato, appositamente elencate (artt. 423- bis, 572, 612-bis, 612-ter e 624-bis c.p. nonché illeciti di cui all'art. 4-bis della L. 354/1975 e successive modificazioni; ovvero, ancora, uno dei reati per i quali debba applicarsi l'art. 275, comma 3 c.p.p. seconda parte (artt. 270, 270 bis, 416 bis ecc.);

b) il caso in cui, verificata l'inadeguatezza di ogni altra misura, sia accertata l'inesistenza di luoghi idonei alla fruizione degli arresti domiciliari; 

c) le ipotesi previste dall'art. 276 c.p.p., comma 1-ter (inottemperanza alle prescrizioni concernenti il divieto di allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari), e art. 280 c.p.p., comma 3 (trasgressione delle prescrizioni inerenti altra misura cautelare).

 

2. Ciò posto, in ordine al perimetro applicativo della norma in parola è insorto un contrasto in seno alla Suprema Corte di Cassazione.

Secondo un primo indirizzo, il limite di tre anni di pena detentiva deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura cautelare ma non anche nel corso della protrazione della stessa, di tal che l’irrogazione all’esito del giudizio di una pena non superiore a tre anni di reclusione non comporta alcuna automatica caducazione della misura inframuraria (così, da ultimo, Cass. Pen. Sez IV n. 21913/2020 RV 27929901 e, nello stesso senso, Cass. Pen. Sez VI n. 47302/2015 Rv 265339 e Cass. Pen. Sez IV n. 13025/2015 Rv 262961).

Tale orientamento si fonda principalmente su un dato di natura testuale: la lettera della disposizione di cui all’art. 275 c. 2 bis c.p.p. espressamente correla il divieto alla fase genetica e non a quella dinamica dell’iter cautelare «non può applicarsi la misura della custodia in carcere…».

E ciò diversamente da quanto stabilito al comma 4 della medesima disposizione di cui all’art. 275 c.p.p., in cui, nel sancire il generale divieto di applicazione della misura carceraria per donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, la disposizione si riferisce esplicitamente non solo alla fase genetica ma anche a quella successiva: «non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere …».

Ad avviso di un altro orientamento, al contrario: «Il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, previsto dall'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell'esecuzione della misura, sicché la misura non può essere mantenuta qualora sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite» (così Cass. Pen. Sez. Feriale n. 26542/2020 Rv 279632 e, nello stesso senso, più di recente, Cass. Pen. Sez V n. 4948/2021 Rv 280418).

Secondo tale indirizzo i generali principi di proporzionalità e adeguatezza di cui all’art. 275 c. 1 e 2 c.p.p. devono essere costantemente verificati al fine di attuare la minor compressione possibile della libertà personale, non potendo prevalere le valutazioni predittive compiute in fase cautelare rispetto all’effettiva pronuncia adottata all’esito del giudizio di merito.

Proprio muovendo dei principi generali di proporzionalità e adeguatezza quest’ultimo orientamento giunge a superare il dato letterale della disposizione – che, come detto, pare circoscritto alla sola fase genetica della misura -, facendo leva, in sintesi, sui seguenti argomenti.

In primo luogo, il criterio generale di proporzionalità di cui all’art. 275 c. 2 c.p.p., che esplicitamente prende in considerazione non solo la pena irrogabile ma anche quella concretamente inflitta all’esito del giudizio, trattandosi di principio che sovraintende e permea tutto l’iter cautelare: «ogni misura deve essere proporzionata … alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata».

In proposito è utile ricordare quanto sancito dalle Sezioni Unite n. 16085 del 31/03/2011, Khalil, Rv. 249324, che hanno espressamente affermato che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.

In secondo luogo, la disposizione di cui all’art. 299 c.p.p., che impone di prendere in esame tutti i fatti, anche processuali, sopravvenuti all’applicazione della misura, al fine di adeguare costantemente il trattamento cautelare alla situazione concreta.

Diversamente opinando si perverrebbe a conclusioni incoerenti e palesemente irragionevoli, posto che la sola prognosi di condanna non ultratriennale preclude l'applicazione della custodia in carcere e, al contrario, la concreta irrogazione di una pena inferiore a tre anni all’esito del giudizio sarebbe priva di rilevanza rispetto al perdurare della misura massimamente afflittiva.

Tale opzione ermeneutica ha anche il pregio di armonizzare l’interpretazione dell’art. 275 c. 2 bis c.p.p. con quella più volte fornita dalla Suprema Corte di Cassazione con riferimento ai soggetti ultrasettantenni.

Con riguardo a tali persone, come noto, l’art. 275 c. 4 c.p.p. stabilisce che non può essere disposta la custodia in carcere salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.

Anche in tal caso la lettera della legge si riferisce solo al momento genetico («non può essere disposta la custodia cautelare in carcere…») e nulla dice rispetto al successivo sviluppo cautelare.

Al riguardo la Suprema Corte ha più volte chiarito che tale norma si applica non solo in fase di adozione della misura ma anche durante tutto il successivo iter cautelare, proprio muovendo dalla finalità della disposizione e dai principi generali di adeguatezza e proporzionalità (cfr., tra le molte, Cass Pen. Sez VI n. 1/2014).

 

3. A parere di chi scrive il filone ermeneutico da ultimo riportato pare maggiormente convincente e persuasivo nella parte in cui stabilisce che il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere opera non solo nella fase di applicazione, ma anche nel corso dell’esecuzione della misura cautelare, trattandosi di una manifestazione del principio generale di proporzionalità che governa tutta la fase cautelare.

Il pronunciamento di una sentenza, anche se non definitiva, a pena non superiore a tre anni di reclusione non può essere considerato ai fini cautelari come un dato neutro e irrilevante, costituendo, al contrario, un fatto processuale che smentisce e supera la previsione formulata al momento di adozione della misura cautelare custodiale.

La pena irrogata all’esito del giudizio – e la conseguente eseguibilità della sanzione - spiega sicuramente un effetto ai fini cautelari di cui il giudice della cautela deve tenere conto a fini di adeguare il trattamento cautelare alla gravità del fatto e all’entità della pena concretamente inflitta.

Ciò posto si ritiene che l’orientamento secondo cui la condanna a pena non superiore a tre anni di reclusione debba sempre essere presa in considerazione sotto il profilo cautelare presenti alcune criticità laddove sancisce un automatico venir meno della misura cautelare carceraria.

Le sentenze che si iscrivono a tale filone interpretativo infatti dispongono chiaramente che nel caso in cui sopravvenga una sentenza di condanna, quantunque non definitiva, a pena non superiore al limite di tre anni di cui all’art. 275 c. 2 bis c.p.p. tale evenienza “impone” la sostituzione della custodia in carcere con altra misura meno afflittiva.

In altre parole, tali pronunzie ritengono che la condanna a pena entro i tre anni di reclusione sopravvenuta alla prima applicazione della misura cautelare comporti una caducazione automatica del vincolo carcerario.

Come già evidenziato da alcuni autorevoli commentatori[1], nel prevedere un rigido automatismo tali pronunce non tengono in adeguata considerazione la valutazione circa la persistenza e consistenza delle esigenze cautelari da salvaguardare nel caso di specie.

Detto altrimenti, nell’imporre una caducazione automatica della misura cautelare custodiale si nega la possibilità per il giudice del caso concreto di valutare l’eventuale sussistenza di esigenze cautelari di speciale pregnanza, la cui pretermissione potrebbe rischiare di compromettere pressanti esigenze di tutela sociale e di contenimento della pericolosità dell’interessato.

D’altronde, con sentenza n. 16085/2011 le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno statuito l'illegittimità di un provvedimento di revoca della misura cautelare basato unicamente su criteri aritmetici relativi alla pena irroganda.

A ciò si aggiunga che la preclusione all’applicazione della misura massimamente afflittiva stabilita dall’art. 275 c. 2 bis c.p.p. soggiace ad alcune significative eccezioni ed in particolare a quella prevista dall’ultimo periodo della disposizione in esame, secondo cui il divieto in questione non opera quando, rilevata l’inadeguatezza di ogni altra misura, gli arresti domiciliari non possano essere disposti per mancanza di uno dei luoghi di cui all’art. 284 c. 1 c.p.p..

Proprio il tenore di tale norma ed il riferimento all’inadeguatezza di altre misure non custodiali sembra consentire un margine di valutazione in capo al giudice circa l’esistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza tali da precludere – in assenza di luoghi in cui applicare la custodia domestica o rilevata l’assoluta inidoneità di tali spazi – l’attenuazione della misura custodiale anche in caso di irrogazione di una pena non superiore a tre anni di reclusione.

 

4. Nel permanere di una diversità di vedute sulla questione appare comunque auspicabile, data la rilevanza e l’impatto pratico della tematica, un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite.

 
[1] Si veda in particolare il commento di C. De Robbio, pubblicato sulla rivista online Diritto e Giustizia, come nota a margine della sentenza della Cassazione n. 4948/2021 sopra citata.

10/05/2021
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