Magistratura democratica
Magistratura e società

Amnistia e indulto: una rivisitazione necessaria

di Livio Pepino
già consigliere della Corte di cassazione, direttore Edizioni Gruppo Abele
Prima la vicenda, sinistramente grottesca, della disciplina della prescrizione, poi il riesplodere, sotto i colpi dell'emergenza Coronavirus, della questione carceraria, hanno riportato in primo piano, a scapito di ogni demagogia, la riflessione su amnistia ed indulto

Ci sono momenti, pur rari, in cui la razionalità si prende la rivincita sulla demagogia. Accade, in questi giorni, con riferimento agli istituti dell’amnistia e dell’indulto. Per una serie di ragioni convergenti. Da un lato la vicenda, sinistramente grottesca, della disciplina della prescrizione (momentaneamente accantonata dall’emergere di nuovi campi di battaglia in cui sfogare la conflittualità interna alla maggioranza). Dall’altro il riesplodere, sotto i colpi dell’emergenza Coronavirus, della questione carceraria (sempre incombente nonostante la voce grossa di chi, nella politica come nella magistratura, vorrebbe finanche buttare via la chiave degli istituti penitenziari). 

 

Cominciamo dalla vicenda che ha diviso in questi mesi la politica. Superfluo dire – la cosa è chiara anche a un bambino – che il problema della giustizia penale non è la prescrizione (che è, piuttosto, il punto di emersione di una crisi che affonda le radici nei tempi della giustizia). Se i processi avessero una durata ragionevole, infatti, la prescrizione sarebbe una (sacrosanta) valvola di sfogo per pochi casi marginali. La questione, dunque, è la lunghezza dei processi che, peraltro, non si risolve con grida manzoniane sulla durata massima di questa o quella fase. Chi lo sostiene – anche con appositi progetti di legge ‒ cerca semplicemente di mascherare la propria incapacità e impotenza e di tacitare in qualche modo le periodiche proteste di un’opinione pubblica sconcertata da questo o quel caso giudiziario (magari raro ma) scandaloso. Meglio, dunque abbandonare le ipocrisie e provare a ragionare.

Primo. Il giusto processo non si presta a semplificazioni né alla retorica della “giustizia sotto l’albero”. Esso richiede accertamenti e verifiche (talora complessi) da effettuarsi secondo regole e con garanzie prestabilite. E ciò comporta tempi significativi. Quando si parla di durata dei processi il riferimento deve essere, dunque, non a una impossibile brevità ma a una doverosa ragionevolezza. Ciò detto è tuttavia evidente che, nel nostro sistema, i processi non hanno mediamente una durata ragionevole. Lo dice l’esperienza di chi frequenta i tribunali e lo confermano i dati statistici del Ministero della giustizia (pur lacunosi e, per taluni aspetti, inattendibili data l’estrema complessità della situazione e l’eterogeneità e incompletezza delle rilevazioni). I dati statistici, poi, sono sempre dati medi e non tengono conto – non possono tener conto ‒ del fatto che i processi non sono tutti uguali (una cosa è un processo contro un imputato per un furto in flagranza, altro un processo con 300 imputati per un’associazione mafiosa), che ci sono indagini a cui segue un’immediata archiviazione e altre che sfociano in dibattimenti (destinati, a loro volta, talora a esaurirsi in un’unica udienza e altre volte a percorrere tutti i gradi di giudizio) e così via. I dati medi offrono dunque un quadro da prendere con prudenza ma, tuttavia, indicativo. E il quadro è questo. Nel nostro Paese la durata media dei processi penali è, dalla notizia di reato alla sentenza di Cassazione, di 1.600 giorni (e, dunque, di quattro anni e sei mesi circa) che crescono in maniera imponente in alcuni distretti come Napoli e Roma (città, quest’ultima, dove si arriva a 2.241 giorni, cioè più di sei anni). Più in particolare la durata media delle indagini preliminari è di poco meno di un anno e mezzo mentre il collo di bottiglia è la Corte d’appello dove gli atti, a Roma e a Napoli, stazionano rispettivamente, in attesa del giudizio, 1.000 e 1.500 giorni. Attualmente i processi che giacciono da più di tre anni nei tribunali del Paese in attesa di fissazione del dibattimento sono 230.000 e quelli che aspettano da più di due anni la fissazione in appello sono 110.000. Troppo, ovviamente. Soprattutto se si considera che parliamo, appunto, di durata media e che i procedimenti reali durano a volte molto di meno (perché definiti, per esempio, con una immediata archiviazione o con un rapido patteggiamento) e altre volte molto di più (nei casi complessi e delicati). 

Secondo. La domanda è d’obbligo: perché le cose stanno così? La risposta è semplice: perché i processi sono troppi a fronte delle risorse, umane e strutturali, disponibili. Bastano alcuni dati (sempre con le avvertenze già fornite): ogni anno nelle Procure italiane vengono iscritti 1.600.000 procedimenti nei confronti di imputati noti che si sommano a una pendenza costante di pari entità (o lievemente maggiore). A fronte di questi carichi ci sono poco più di 2.000 pubblici ministeri (il riferimento è, ovviamente, a quelli addetti alle Procure presso i tribunali) che riescono a definire un numero di procedimenti grosso modo corrispondenti a quelli sopravvenuti nell’anno lasciando, dunque, inalterata la pendenza di oltre un milione e mezzo. Quanto agli uffici giudicanti i processi attualmente pendenti nei tribunali sono poco meno di 1.200.000 (di cui 530.000 davanti agli uffici dei giudici delle indagini preliminari, 610.000 di fronte ai tribunali monocratici e 30.000 di fronte ai tribunali collegiali) e le sopravvenienze annue sono di 680.000 procedimenti ogni anno. A fronte stanno poco più di 2.500 giudici (il riferimento è, anche qui, a quelli addetti al penale) che riescono a malapena a far fronte a un numero pari alle sopravvenienze. Non diverse sono, proporzionalmente, le situazioni delle corti d’appello (270.000 pendenze e 55.000 sopravvenienze annue) e della Cassazione (25.000 pendenze e 30.000 sopravvenienze). Cifre da brividi che per di più – si noti – non tengono conto della situazione della giustizia di pace. Cifre che dimostrano come qualunque riforma capace di dare ai processi tempi certi e brevi (predisposta grazie a una bacchetta magica improvvisamente reperita) sarebbe comunque tarpata da un arretrato che, per essere smaltito, richiede anni.

Terzo. Con questi numeri, dunque, serve a poco fissare sulla carta termini di durata, destinati inevitabilmente ad essere disattesi. Che fare allora? Il primo intervento necessario – non risolutivo ma certamente utile ‒ sarebbe quello di ridefinire il catalogo dei reati riservando l’intervento penale ai soli fatti che lo meritano (nella prospettiva del cosiddetto “diritto penale minimo”). Se ne parla da almeno cinquant’anni ma, per farlo, occorrerebbe una politica coesa o una maggioranza forte. Dunque non accadrà. Meglio parlare di prospettive realistiche. Altri Paesi hanno “risolto” il problema adottando il principio di discrezionalità dell’azione penale che dà al pubblico ministero (o al ministro della Giustizia) la facoltà di scegliere quali reati perseguire e quali, invece, lasciare impuniti: soluzione accantonata – giustamente – dalla Costituzione del ‘48 perché estranea alla nostra tradizione e, soprattutto, per il rischio che mettere un filtro politico tra il reato e il suo perseguimento provochi ulteriori disuguaglianze e alimenti inaccettabili privilegi. Ci sono, per far corrispondere l’area del penale e le effettive possibilità di smaltimento del sistema, altri possibili strumenti: a) l’aumento delle risorse destinate alla giustizia e del numero dei magistrati (che, peraltro, ha dei limiti: di bilancio e di disponibilità umane); b) una depenalizzazione in settori cruciali come la disciplina degli stupefacenti e quella della immigrazione (non così irrealistica come la riscrittura del codice, ma certo impraticabile nell’attuale clima politico); c) l’estensione delle ipotesi di proscioglimento per irrilevanza penale del fatto, da trasformare – più correttamente – in “ridotta rilevanza penale” del fatto (che consentirebbe di escludere punibilità e processo per molti reati di scarso allarme sociale che ingolfano attualmente gli uffici giudiziari precludendo il perseguimento di delitti ben più importanti); d) l’adozione, da parte dei capi degli uffici inquirenti e giudicanti (con l’approvazione del Consiglio superiore della magistratura), di criteri di priorità vincolanti nella trattazione degli affari (che introdurrebbe elementi di razionalità ma non ridurrebbe l’area della penalità limitandosi a decidere preventivamente e in modo controllabile quali reati lasciare intonsi e destinare così alla prescrizione). Una manovra complessiva, con la predisposizione contestuale di tali interventi, ridurrebbe certamente – non poco e in modo razionale – la forbice tra il numero dei reati denunciati (o comunque al vaglio dell’autorità giudiziaria) e la possibilità/capacità del sistema di perseguirli. Ma si tratta di una manovra che, da un lato, ben difficilmente sarà messa in atto in tempi congrui e, dall’altro, anche se attuata, demanderebbe pur sempre un ruolo rilevante di valvola di sfogo del sistema all’istituto della prescrizione (soluzione all’evidenza impropria e, in ogni caso, oggi socialmente non accettata).

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Non dissimile è la vicenda del carcere, messa a nudo, in questi giorni, dall’emergenza dell’epidemia (su cui cfr. le lucide osservazioni di Riccardo De Vito: www.questionegiustizia.it/articolo/il-vecchio-carcere-ai-tempi-del-nuovo-colera_11-03-2020.php). Alla prova del Coronavirus il carcere è esploso e si contano i morti: tredici, o forse più. Era prevedibile ed era stato previsto. A riprova, se ce ne fosse bisogno, che quella del carcere è una vera emergenza.

Primo. Ci sono, nei nostri istituti penitenziari – il dato è del 29 febbraio scorso – 61.230 detenuti a fronte di 47.230 posti regolamentari (o 50.931, a seconda del sistema di calcolo). Non è una situazione contingente o eccezionale ma la regola, come dimostra (pur con le oscillazioni conseguenti alle modifiche normative imposte dalle sentenze della Corte europea del Diritti dell’uomo) la serie storica delle presenze dopo l’indulto del 2006: dalle 58.127 del 31 dicembre 2008 alle 60.769 di fine 2019, passando attraverso i picchi di 67.961 del 2010 e di 66.897 del 2011. Il trend del superamento della capienza regolamentare è, dunque, costante e ingente (dell’ordine del 20 per cento e più). Ciò comporta una violazione dei diritti fondamentali di molti detenuti, l’impossibilità diffusa di un’attività trattamentale utile e l’esposizione a rischi elevati in presenza di situazioni eccezionali. È quanto sta accadendo in questi giorni, con le rivolte che hanno attraversato le carceri del Paese, le proteste (giustificate) del personale della polizia penitenziaria, i problemi di ordine pubblico fuori dagli istituti. Ed è evidente che, nella situazione data, l’approdo del Coronavirus in uno o più istituti sarebbe devastante: per i detenuti e per l’esterno. Gli spazi ristretti, l’inevitabile promiscuità, l’impossibilità di misure precauzionali adeguate determinerebbero una diffusione esponenziale del contagio senza “vie di fuga”. I muri non sono una difesa né in entrata né in uscita. Il carcere non si può “sigillare”. E le misure adottate nell’immediato (sospensione dei colloqui, blocco dei permessi e, qua e là, interruzione del lavoro all’esterno e del regime di semilibertà) sono state tanto punitive quanto insufficienti ché le vie del contagio – come stiamo imparando giorno dopo giorno – sono molte e imprevedibili.

Secondo. A fronte della gravità della situazione il Governo ha emesso, in queste ore, il decreto legge 7 marzo 2020, n. 18, i cui artt. 123 e 124 hanno esteso, con taluni limiti, la possibilità di concessione della detenzione domiciliare ai detenuti con pena inferiore a 18 mesi e di licenze ai semiliberi. È un primo passo, ma non basta (vds. www.questionegiustizia.it/articolo/cura-italia-e-carcere-prime-osservazioni-sulle-poche-risposte-all-emergenza_19-03-2020.php e L. Manconi, Carceri, il coraggio che non c’è, la Repubblica, 19 marzo 2020). Ci vuole un intervento ulteriore: per esempio, la sospensione e il differimento dell’esecuzione delle pene brevi, eventualmente con eccezioni per titoli di reato o recidiva. Solo un provvedimento siffatto consentirebbe la scarcerazione, di ufficio e in tempo reale, di un numero rilevante di detenuti di ridotta pericolosità e porterebbe la situazione carceraria nei limiti della capienza regolamentare rendendo possibile, ove necessaria, la predisposizione di misure precauzionali adeguate. Risultato doveroso, ma contingente. Resterebbe, a regime (cioè una volta superata l’emergenza), lo scarto tra numero dei detenuti e capienza degli istituti con le conseguenze – a volte drammatiche – già evidenziate.

 *****

 Torniamo, a questo, punto, all’amnistia e all’indulto.

Si tratta – non dico certo una novità – di istituti risalenti addirittura all’epoca imperiale romana e utilizzati nel nostro Paese, a volte con valenza politica, più spesso con finalità deflattive, ben 17 volte tra il 1946 e il 1990 (e, quanto all’indulto, in un’ulteriore occasione nel 2006) come “valvole di sfogo” del sistema e senza effetti destabilizzanti di sorta.

Ebbene, nell’ormai lontano 1992, nel clima della nascente Tangentopoli, amnistia e indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in bestemmie impronunciabili e, con un’allegra unanimità, si è riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento (cosa che ne rende l’approvazione più difficile della modifica della Carta fondamentale). Da allora è venuta meno, di fatto, la possibilità del Parlamento di intervenire in modo duttile e trasparente nei momenti di sofferenza del sistema, la cui gestione resta affidata alla casualità della prescrizione e all’invisibilità dell’ipertrofia del carcere (assicurata dalle mura di cinta e da una diffusa ipocrisia).

Razionalità vorrebbe che, oggi, amnistia e indulto riacquistassero diritto di cittadinanza nel sistema. Essi infatti, nei momenti di necessità, consentirebbero al Parlamento, previo monitoraggio della situazione, di approntare interventi mirati in grado di evitare l’ingolfamento del sistema giudiziario e l’implosione del carcere. È una consapevolezza che comincia a farsi strada. Dopo una risalente, timida, apertura del Consiglio superiore della magistratura in un parere del 2006 (all’atto del varo dell’ultimo indulto) è stato il presidente della Corte d’appello di Roma, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, a prospettare la necessità di un’amnistia per i reati minori. E, oggi, molte voci in favore dell’indulto si levano dall’avvocatura, dalla stampa, dal mondo dell’associazionismo.

Come era prevedibile il ministro della Giustizia e le principali forze politiche, preoccupati del facile consenso più che della razionalità, si sono chiusi a riccio e c’è, addirittura, chi ha invocato la militarizzazione delle carceri. Nulla di nuovo, è appena il caso di dirlo. Ma questa (risalente) incapacità di cogliere l’evolversi delle cose non potrà durare a lungo. È, dunque, auspicabile che non si perda l’occasione e si apra almeno un dibattito tra gli operatori, la cultura giuridica e i politici di buona volontà.

19/03/2020
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