Magistratura democratica
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Recensione a "Le regole e la vita. Del buon uso di una crisi tra letteratura e diritto"

di Michele Papa
Ordinario di diritto penale Università di Firenze

La recensione a Le regole e la vita. Del buon uso di una crisi tra letteratura e diritto, a cura di Gabrio Forti, ed. Vita e Pensiero, Milano, 2020. Il libro è scaricabile gratuitamente sul sito dell’editore: https://www.vitaepensiero.it/news-novita-le-regole-e-la-vita-5317.html. Nel file del libro sono disponibili collegamenti ad una serie di video in cui gli autori presentano i loro contributi. 

1. Ci sono molte buone ragioni per parlare di questo libro

Le regole e la vita è un volume che documenta l’esperienza intellettuale di alcuni giuristi durante il lockdown della primavera 2020. Si tratta di un gruppo di penalisti accademici, talora anche avvocati, coordinati da Gabrio Forti, ordinario di diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, al quale si deve anche una dotta e piacevole introduzione al volume: Una attesa di luce, dalla carità (pp. 12-38). All’introduzione di Forti, seguono saggi di Claudia Mazzuccato, Arianna Visconti, Alessandro Provera, Giuseppe Rotolo, Fabio Seregni, Francesco Centonze, Francesco D’Alessandro, Matteo Caputo, Pierpaolo Astorina Marino, Marta Lamanuzzi e Alain Maria Dell’Osso. 

Oltre che per il pregio dei contenuti, dei quali diremo, il libro è di grande interesse quale sorta di periscopio tramite cui scorgere, a distanza di alcuni mesi,  tranches de vie spirituali di un momento storico molto particolare e davvero irripetibile: quello del primo lockdown. Irripetibile a prescindere dal numero delle “ondate” epidemiche che dovremo ancora sperimentare: l’alba della grande pandemia, l’alba di questa crisi epocale, improvvisa, che tutto ha stravolto, è infatti un momento che spiritualmente non torna. Non tanto perché - come diceva Karl Marx - quando la storia si ripete, ciò che è stato tragedia si ripresenta come farsa (c’è ancora troppo dolore concreto per guardare le cose con il distacco del filosofo della storia); ma perché, nella novità dell’inizio, nella purezza cognitiva del mattino,  c’è talora una misteriosa e fugace capacità di cogliere l’universale che caratterizza il seguito della giornata. Parlo del comprenderne il senso profondo;  diversa cosa essendo, ovviamente, il prevedere lo svolgersi concreto delle cose. Nella drammatica, ma anche  verginale, inedita, esperienza del primo lockdown abbiamo avuto, credo, opportunità uniche di comprendere la particolare salienza del frangente storico nel quale ancora ci troviamo,  ormai consumati da troppi discorsi. 

 

2. Come fare buon uso della crisi: premesse 

E’ possibile fare “ buon uso” di una crisi improvvisa, drammatica, epocale? 

Questa è la domanda fondamentale che sta al centro del libro e a cui gli autori, e in primis chi ne ha guidato il lavoro e cioè Gabrio Forti, provarono in quei giorni del primo lockdown a  dare risposta. Si mossero allora - e il libro ne dà piena testimonianza - con l’energia vitale di quella fase primaverile, sviluppando una rete davvero articolata di percorsi culturali e giuridici. 

Il punto di partenza per fare buon uso della crisi è, come dice Gabrio Forti all’inizio del volume, «ascoltare la voce della vita». Farlo anche, e forse soprattutto, quando la vita ci parla crudamente, rivelandoci, attraverso lo specchio del mondo, le verità più scomode. 

C’è dunque, in quello che sta succedendo, la voce, il grido, di una natura che si ribella alla artificialità, alle contorsioni,  alle degenerazioni impostele da una forza che sta sovvertendo l’ordine delle cose?  E’ una domanda che a mio avviso ne presuppone un’altra: posto che la pandemia è certamente un male, di che tipo di male si tratta? E’ solo un “male naturale”, come quello dei terremoti, oppure siamo di fronte ad un “male morale”, cioè a una negatività che discende da una colpa e implica una responsabilità? 

A dispetto del riduzionismo degli approcci scientisti, la questione è fondamentale. 

Ben fanno dunque gli autori de Le regole e la vita a partire dal bisogno di “ascoltare la vita”, ponendosi, anche se in modo non esplicito, il problema del male morale. Ma se la pandemia è un male morale, di chi è la colpa? Non del virus, evidentemente. Colpa e responsabilità devono infatti riferirsi ad un agente morale, non a un microbo senza testa né cuore. Occorre dunque volgersi all’Uomo. Ma dove sta la colpa dell’Uomo e perché ciò che sta accadendo grida la sua responsabilità? 

Lasciamo in disparte ogni riferimento alla colpa come presupposto di un castigo soprannaturale:  nessuno -né il sottoscritto né gli autori del libro – ipotizza che una entità divina stia lanciando intenzionalmente i suoi fulmini sull’umanità. Vero ciò, si deve tuttavia constatare come il mondo contemporaneo sia, come mai nella storia, il prodotto di una civiltà che, rinnegando il divino trascendente, ha elevato l’uomo a creatore del mondo. Si potrebbe dunque ritenere che l’uomo sia colpevole e responsabile in quanto , nel tempo che viviamo,  si è auto-attribuito il  ruolo di unico creatore del mondo. Se, rinnegando Dio, l’Uomo ha voluto occupare il suo posto, è solo l’Uomo,  in una sorta di una aggiornata teodicea,  a doversi ora giustificare per il male nel mondo. Come il fumo delle fabbriche o la cocaina, il virus, o almeno il suo salto di specie,  è parte di un creato dove non c’è altro Signore che l’Uomo.  

Il libro di cui parliamo non segue questo percorso. Esso elabora  l’argomento del male morale nel quadro di un rapporto che non coinvolge espressamente il piano trascendente: è il rapporto tra i “segnali della natura”, le “voci della vita”,  da un lato, e la hybris umana,  dall’altro. La nozione di hybris adottata è forse più vicina a quella della tradizione greca classica, che a quella centrata sulla “ribellione verso Dio”: la hybris del peccato originale, ad esempio. La hybris cui si allude in Le regole e la vita è quella espressa dai comportamenti umani contrari all’ ordine della natura e a una certa misura dello spirito, accompagnati da un atteggiamento soggettivo di superba tracotanza. Sono comportamenti quali la violenza sistematica contro l’ambiente, il dileggio sprezzante per il sapere e per la faticosa serietà dello studio, la corsa sfrenata al voler tutto normare e regolare, l’uso sconsiderato della lingua,  accompagnato da un’ebbrezza retorica trabordante e spesso di tenore bellicista, la ricorrente dinamica sociale del “capro espiatorio” adoperata per placare il senso di vuoto e la paura dell’ignoto.  

 

3. Verso il piano della “complementarità”

 Ma a parte il correggere, dopo aver ascoltato, appunto, le voci della vita, simili derive della società umana contemporanea, come altro si può fare “buon uso” della crisi? 

Secondo Gabrio Forti, la risposta scaturisce da un atteggiamento congeniale a grandi uomini e donne che hanno lasciato un segno nella storia della cultura e che si è espresso - ad esempio nel caso di Johann Wolfgang Goethe – nella superiore ambizione ad elevarsi «al piano della complementarità», cioè ad utilizzare le debolezze per ricavarne virtù. Bisogna insomma, come ancora insegna Goethe «abbracciare il contrario e metterlo in concordanza» riscontrando che «l’uomo ragionevole non si è mai occupato d’altro» (p.29). Ovvero, secondo le parole di Italo Calvino: «cercare e saper riconoscere che e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare, e dargli spazio» (p. 29). 

Come sviluppare questo “senso della complementarità”? Occorre innanzitutto valorizzare le  “sacche di umanità” ancora esistenti, sapendole individuare anche quando giacciono sommerse; poi distinguere e far crescere quegli aspetti di Bene, talora embrionale, che talora miracolosamente nascono come “provvidenziali difetti” della contingenza negativa. Ovvero prendere coscienza, nella tragedia, dei bisogni di cura ma anche della possibile “riattivazione attiva”  di alcune categorie di soggetti deboli, come ad esempio gli anziani. Ancora: cercare nell’esperienza quotidiana più difficile, come quella della clausura da lockdown, l’occasione per comprendere davvero cosa voglia dire essere privati della libertà e restare “carcerati”. 

Ma al di là di tutto questo, il senso della complementarità trova probabilmente le sue risorse più feconde nel rapporto con le espressioni artistiche dell’umanità e con la letteratura in particolare. Come dice Gabrio Forti: «Alla letteratura e all'arte può e dovrebbe rivolgersi con profitto il professionista del diritto, anche solo per coglierne la comprensione intuitiva, la visione d'insieme su concetti, anche complessi, la cui trattazione scientifica può risultare decisivamente indirizzata dalle lame di luce che da queste espressioni dell'umano arrivano diversa­mente a ciascuno, e da ciascuna competenza professio­nale o culturale possono essere recepite in modo diversa­mente generativo». Lame di luce come, ad esempio, quella attraverso cui Alessandro Manzoni illumina il valore benefico della benevolenza: «tanto di quella che si sente, quanto di quella che si trova negli altri» (p. 36).  Ecco dunque l’opportunità di umanizzare le nostre paure, trasformandole in gesti di ascolto, di aiuto, di cura. Ricordando,  come Gabrio Forti fa citando San Paolo, che «la carità è la più grande di tutte le cose». 

 

4. Come lanterne al buio

Alle pagine di  Gabrio Forti segue l’esplorazione, da parte degli altri autori, di una articolata serie di percorsi giuridici e culturali. Claudia Mazzuccato (Come lanterne nel buio. La facoltà di giudizio alla prova (pp. 39- 53) affronta il problema di come “giudicare e agire” nel contesto di una grande crisi, interrogandosi sul modo di esercitare la capacità di discernere il bene dal male e di decidere l’azione corrispondente al bene in assenza di precedenti e in presenza, anzi, di segnali drammaticamente contraddittori. Partendo dal pensiero di Hannah Arendt, e dall’esempio dei Giusti tra le Nazioni, Claudia Mazzucato sottolinea la necessità di sviluppare innanzitutto la «capacità di pensiero», intesa come dialogo silenzioso con sé stessi, come abitudine a esaminare e riflettere su tutto ciò che accade senza eccessi bulimici verso la conoscenza come dato in sé. Alla capacità di pensiero deve accompagnarsi il «senso comune», inteso come consapevolezza della intera comunità umana e dunque come capacità di immedesimazione nei punti di vista altrui. Fondamentale è poi la memoria, cioè il pensiero retrospettivo, al cui interno occorre fare ricordo anche del Bene. 

 

5. Emergenza e letteratura

Nella sua seconda parte, il libro affronta più direttamente i temi legati a Letteratura, narrazione e regole dell’emergenza, con i saggi di Arianna Visconti, Alessandro Provera e Giuseppe Rotolo. Arianna Visconti (Venti di tempesta e foreste del diritto. Il discorso della legge come argine alla sopraffazione delle narrative emergenziali, pp. 55-63), analizza i modi in cui, molto problematicamente, le narrative emergenziali riescono a integrarsi nel vissuto e nella mentalità comuni, operando come una sorta di virus, contro il quale servono robusti anticorpi civili. Alessandro Provera (La peste di Atene. La sopravvivenza dell’umanità nel periodo di crisi grazie alla cura del bello e del giusto, pp. 64-68), partendo dalla rievocazione della peste d’Atene e dagli spunti letterari suggeriti dall’Epitaffio di Pericle e dal discorso dei Melii agli ambasciatori di Atene, sottolinea come resistere nel periodo di crisi sia possibile oltre che doveroso quando si è portatori di un ideale di giustizia e di bello, che consi­ste nella cura dell’ultimo, del debole, dell’emarginato affinché tutti possano contribuire alla costruzione di una società giusta e retta da reciprocità, base anche per la fioritura artistica.

Giuseppe Rotolo (Senza pietre non c’è arco. A proposito di osservanza delle regole per solidarietà, responsabilità ed empatia, pp. 69-76), apre il suo intervento ricordando il romanzo Cecità di Saramago: le vicende ivi narrate ben esprimono la necessità che, nell’epidemia come in ogni «strada di passione», si eviti la contrapposizione tra accusatori e vittime, cercando piuttosto solidarietà e condivisione. Di qui le perplessità, nell’attuale frangente storico, del ricorso al diritto penale come strumento di punizione/stigmatizzazione, risultando  preferibile una corresponsabilizzazione degli individui. Occorre che ciascuno possa operare  - bene lo esprime il titolo del saggio, ispirato ad un passo delle Città invisibili di Calvino- come «singola pietra», come sostegno indispensabile perché possa funzionare la miracolosa forza portante dell’arco. 

 

6. L’impatto del Coronavirus sull’esperienza giuridica

La terza parte del volume è dedicata al tema: Diritto e diritti al tempo del Coronavirus. Il contributo di Fabio Seregni, (La prevedibilità del “cigno nero” di Taleb e il principio di precauzione)(pp. 77-85) prende le mosse dalla nota metafora di Nassim Taleb, evocata nel titolo,  per sostenere che la pandemia da COVID 19 costituisce fenomeno ad essa non riconducibile: l’insorgere di una pandemia era infatti assolutamente prevedibile. Affrontando quindi la tematica della precauzione, Seregni ipotizza misure di intervento efficace elaborate sulla base delle scienze cognitive e comportamentali. 

Il saggio successivo, di Francesco Centonze (“Break the isolation”. Il buon uso della crisi per un nuovo modello di detenzione, pp. 86-98), si concentra sul  sistema carcerario e sul drammatico impatto che la pandemia può avere sulle già critiche condizioni di vita dei detenuti. Sostiene tuttavia che proprio facendo buon uso dell’attuale crisi è possibile non solo operare alcuni interventi rimediali urgenti, ma anche ripensare radicalmente gli attuali modelli punitivi.

Francesco D’Alessandro (Le vittime vulnerabili all’epoca del coronavirus. Dalle vittime di violenza domestica agli operatori sanitari esposti al contagio, pp. 99-108) segnala poi come l’emergenza sanitaria interroghi la sensibilità del penalista da vari punti di vista. Centrale risulta la necessità di protezione delle vittime vulnerabili, i cui diritti sono resi ancora più fragili dalle nefaste conseguenze della pandemia. Anche in questo caso, dalla crisi può trarsi spunto per ripensare e rinnovare il diritto, elaborando la stessa categoria di vittima vulnerabile in termini nuovi. Matteo Caputo (La responsabilità penale degli operatori sanitari ai tempi del Covid19. La gestione normativa dell’errore commesso in situazioni caratterizzate dall’emergenza e dalla scarsità di risorse, pp. 109-113) affronta un problema complesso e controverso, stante la forza devastante con l’epidemia si è abbattuta sul sistema sanitario. La risposta penalistica ad eventuali errori non potrà non tener conto dello scenario veramente inedito in cui medici e personale infermieristico si sono trovati ad operare. Pierpaolo Astorina Marino (Scienza e diritto di fronte alla paura del contagio, pp. 114-1124) affronta il difficile tema della integrazione tra dati scientifici e scelte regolative. E’ un argomento di cruciale importanza essendo decisivo fondare su reali esigenze cautelari, empiricamente comprovate,  le decisioni limitative di diritti e propedeutiche alla inflizione di sanzioni.  

Alessandro Provera (Peste e gride. La vaghezza dei precetti utilizzati per la regolamentazione dell’emergenza, pp. 125-131), dedica il suo secondo contributo al volume ad una analisi concernente la determinatezza della legislazione emergenziale. Partendo dai passi dei Promessi sposi in cui Manzoni descrive con proverbiale lucidità  l’ inefficacia delle “gride”, si sottolinea come l’inefficacia dipendesse soprattutto dalla grande discrezionalità che lasciavano all’interprete. Anche nell’attuale pandemia, la scelta di regolare l’emergenza sanitaria tramite DPCM e ordinanze regionali ha spesso portato all’oscurità dei precetti, con conseguente difficoltà per i cittadini di cogliere il contenuto delle regole di condotta. Il contributo di Marta Lamanuzzi (La disinformazione ai tempi del Coronavirus, pp. 132-127) è dedicato al tema attualissimo delle fake news, la cui rilevanza è emersa in modo eclatante durante la pandemia. Se è indubbio che la disinformazione in ambito sanitario possa avere gravi conseguenze, resta sempre il difficile problema di trovare un corretto bilanciamento tra bisogno di verità e libertà di manifestazione del pensiero, ancorando una eventuale criminalizzazione ai principi di offensività e di extrema ratio

Chiude il volume l’intervento di Alain Maria Dell’Osso (Spunti di inesigibilità e reati economici in un contesto fuori dall’ordinario, pp. 138-145) dedicato ai reati d’impresa nella tempesta della nuova crisi economica. Discorrere della reazione del diritto penale a situazioni eccezionali, non può che evocare la categoria della “inesigibilità”. La logica sottostante è chiara; la possibilità di muovere un rimprovero entra in stallo quando il contesto dell’azione rende inesigibile una condotta diversa. Vero ciò, la proposta suggerita, e ben motivata, da Dell’Osso è quella di prevedere una nuova scusante, capace di dare risposte eque ai tanti “casi difficili” che la contingenza farà emergere. 

 

7. Una conclusione a sorpresa

Come il lettore avrà potuto constatare, il libro di cui abbiamo parlato contiene un ampio ventaglio di suggerimenti e talora istruzioni per fare un buon uso della crisi. Tutti gli autori sono sinceramente animati dal proposito di elevarsi, seguendo l’insegnamento di Johann Wolfgang Goethe, al «piano della complementarità». 

 La condizione fondamentale  perché si realizzi il passaggio al «piano della complementarità» è data, l’abbiamo già ricordato, dall’ ascolto attento di ciò che la vita ci sta dicendo, anche molto crudamente. Per ascoltare, occorre una disposizione d’animo particolare e questa scaturisce dal sincero interesse, dalla “benevola” e paziente disponibilità a registrare, interpretare, decodificare queste voci che parlano: voci della natura, voci degli esseri umani; voci che dicono espressamente e voci che non sanno che gridare. 

Ma solo di  voci si tratta? La mia impressione è che fermandosi all’ascolto si possa percorrere solo una parte del cammino. Ascoltare non basta. Per elevarsi al «piano della complementarità» vanno mobilitati tutti i sensi, immaginandoli combinati in una sorta di sinestesia. D’altronde: da dove nasce mai l’idea goethiana di «complementarità»? 

Non saprei dirlo esattamente, ma ho la sensazione che c’entri lo studio di cui Johann Wolfgang è sempre andato più fiero, più fiero che di tutta la sua poesia: mi riferisco alla “teoria dei colori”. Nel quadro della teoria dei colori di Goethe, il principio di complementarità, dei colori appunto,  viene elaborato in modo rivoluzionario e antitetico rispetto all’ottica meccanicista di Newton, allora dominante. Figlia di una epistemologia dialettica e attenta al ruolo del soggetto nel processo conoscitivo, la «complementarità» postula -secondo Goethe- che in ciascun colore ci sia il principio di un colore opposto. Secondo Goethe il colore emerge dall’interazione fra la luce e il buio, che sono i due grandi poli del mondo naturale. Nulla è tale in sé, ma solo nella dialettica con il suo opposto. E’ una intuizione capace di generare una filosofia della natura che,  superando il meccanicismo materialista, apre ad una visione olistica. Una visione che tocca anche il mondo morale: in ciascuna cosa, c’è il principio del suo opposto.  

Anche nel buio -naturale e morale - di questa pestilenza, c’è dunque il principio della luce. Il libro di cui abbiamo parlato ci invita non solo a custodire questo piccolo chiarore, ma a porre le condizioni perché, sorretta dalla buona volontà, la luce prevalga sulle tenebre che le sono così pericolosamente contigue. 

12/12/2020
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