Alle recenti elezioni per il rinnovo della componente togata del CSM l’affluenza alle urne è stata molto elevata. Come interpreti questo dato?
La stagione delle riforme percepita, a torto o a ragione, in un’ottica punitiva del lavoro del magistrato ha disinnescato il pericolo di una serpeggiante disaffezione dal nostro organo di autogoverno e ha contribuito a stimolare una sostenuta partecipazione al voto, in tendenza positiva rispetto al passato. A questo si è aggiunto il proliferare del numero di candidature, ben superiore alla media usuale degli ultimi anni ed anche più che proporzionale all’aumento del numero degli eleggibili.
Che immagine complessiva della magistratura è emersa da queste elezioni? Vi è stato – e se si quale – un peso ed un ruolo specifico delle elettrici e dei giovani?
Ciò che ho appena sostenuto è quello che, secondo me, è successo. Certo non è quello che mi sarebbe piaciuto accadesse.
Avrei voluto “il sogno”, cioè un ritorno all’idealità pura, alla voglia di appropriarci del nostro autogoverno, perché espressione più autorevole del nostro modo di essere e della scelta di pulizia e trasparenza, che molti di noi coltivano per riacquistare una credibilità persa. Temo, tuttavia, che l’immagine, che non ci fa onore, di un distante leviatano, dentro il quale è importante collocare un volto amico o un nuovo alleato (anche all’esito di un sorteggio premiato) non sia del tutto o completamente superata.
E mi preoccupa che questa esigenza muova, specie se avvertita anche tra le nuove fila di colleghi, da un grande, diffuso, sentito bisogno di tutela.
Questo, per me, è fonte di grande preoccupazione non solo per l’autogoverno, ma per il destino della magistratura tutta.
Un magistrato deve avere l’indipendenza ed il coraggio di andare controcorrente e deve coltivare queste doti, che non sono innate, ma sono il frutto di un paziente esercizio di esperienza. Per arrivarci occorre usare “la paura di sbagliare” come un guardiano che protegge la nostra essenza più preziosa e creativa, che le consente di uscire in modo più meditato e razionale all’esito di uno studio critico e riflessivo.
Non devo ricordare io ai lettori di questa rivista le «nove massime di deontologia giudiziaria» del Prof. Ferrajoli: «Il magistrato, lo si è detto più volte, non deve cercare il consenso della pubblica opinione, dev’essere in grado di condannare quanto tutti vogliono l’assoluzione, e soprattutto di assolvere quanto tutti vogliono una condanna». Eppure la tendenza è opposta, la ricerca di tutela viene spacciata per necessità di conformismo e la conferma della decisioni, la loro prevedibilità, anzi “predittibilità” appare il mantra del futuro e viene offerto alle nuove generazioni come una coperta di Linus, sotto la quale ripararsi dagli attacchi interni (del disciplinare) ed esterni (della politica o dell’opinione pubblica) e forse anche dai carichi di lavoro eccessivi. Non è questo il futuro che immagino per noi e per il Paese, perché ci allontana dal “coraggio dell’equità”, di quello scomodo e terzo grado di giudizio che si inserisce, armato di imprevedibilità, tra la conoscenza del fatto e l’interpretazione della regola per umanizzarla.
In questo i giovani colleghi non sono stati sufficientemente stimolati e, come presidente di una corrente come Magistratura Democratica, che fa della capacità di riflettere sul nostro ruolo e sul corretto esercizio del potere la sua stella polare, esercito un convinto “mea culpa”.
Quanto al ruolo delle donne, la strada (non voglio usare il termine battaglia in questo momento così amaro) è ancora tutta in salita. Ho sempre più l’impressione che, come donne, per realizzarci sia in magistratura, che altrove, dobbiamo rinunciare alle nostre principali caratteristiche, prima fra tutte l’assoluto rispetto delle “esigenze di cura” dell’altro. Per meritare il successo dobbiamo ancora oggi mostrarci più simili all’uomo, nella capacità di sapere postergare la nostra innata abilità empatica di capire l’altro e di “proteggerlo” dai suoi istinti autodistruttivi (tipico dell’istinto materno, coltivato o meno che sia) in favore della lotta per i riconoscimenti dei nostri meriti. E questo è già un insuccesso, che ci obbliga a privarci di feconde differenze.
In questa tornata di votazioni i magistrati hanno votato con un nuovo sistema elettorale. Che prova ha dato di sé il nuovo sistema? Quanto ha inciso sugli esiti della consultazione il carattere tendenzialmente maggioritario dei meccanismi elettorali?
Ha inciso nell’incrementare una tendenza, che doppiamo, more solito, da quello che accade nel Paese, e più in generale nelle democrazie occidentali, e cioè l’aspirazione alla formazione di due poli maggioritari che penalizzino la riflessione critica o alternativa delle minoranze e che restino arroccati in un dualismo, che spesso si traduce in una mera e meccanica alternanza cronologica della imposizione delle scelte, inibendo le variegate forme di speculazione del pensiero che devono agitare un potere come il nostro, che si fonda sul dubbio, sulla ricerca della verità, sulla capacità di guardarsi dentro con “cuore nuovo”.
Il nostro autogoverno non ha bisogno di “stabilità governativa” perché non è soggetto, diversamente da quanto avviene per il potere politico, a verifiche “fiduciarie” differenti dal momento elettorale quadriennale. Ed allora potrebbe e dovrebbe consentirsi di più di essere espressione di “canti e controcanti” in grado di esprimere (o forse anche accrescere e non soffocare) il grande fermento di idee, di problemi e di prospettive di soluzioni che ciascun giudice o pubblico ministero esprime nell’esercizio delle funzioni.
Le elezioni sono un momento eminentemente collettivo. Quali dinamiche sono intercorse tra le candidature al Consiglio (ormai meramente individuali) e il sostegno di stabili gruppi associativi o di aggregazioni elettorali nate intorno a singole candidature?
Posso rispondere, ovviamente, per l’esperienza del gruppo di colleghi a cui aderisco, Magistratura Democratica, e dire che lo spirito, che ha animato i candidati tra loro collegati e da noi sostenuti, è stato di massima, reciproca, generosa collaborazione. Si sono superati nell’aiutarsi l’uno con l’altro a redigere documenti sui temi a loro cari, nell’effettuare i viaggi nelle sedi più remote e tra i colleghi, compatibilmente con i ristrettissimi tempi concessi dalle scadenze elettorali e dal nostro lavoro, nel parlare l’uno delle doti dell’altro. Questo mi restituisce la cifra di un collettivo ancora utile e vitale, che combatte l’individualismo esasperato e, spesso, esasperante, che affligge la nostra categoria.
Nel CSM vi è una nuova geografia delle componenti togate. Quali sono le principali novità e quali gli elementi di continuità rispetto alle precedenti consiliature?
Si esalta una tendenza al “rassicurante” (nei termini già detti) dualismo, ma emerge anche la voglia degli elettori di discostarsi dal pensiero di maggioranza, aspirazione, quest’ultima, che il meccanismo penalizzante della legge elettorale ha tradotto in poco di più di un diritto di “tribuna”, ma non è detto che dalla voce delle minoranze non emergano buoni spunti di collaborazione e di pungolo per mettere in crisi, in modo costruttivo, le posizioni più monolitiche e strutturate degli eletti sostenuti dai gruppi di maggioranza.
Che cosa, a tuo avviso, la magistratura si attende dai nuovi consiglieri togati e laici e quali saranno i problemi più spinosi per il nuovo Consiglio?
La magistratura si attende che il Consiglio riproduca la parte migliore di noi. Quella che fa del desiderio di equità, che è la dimensione di giudizio più ignorata nelle decisioni di “governo”, un criterio aggiuntivo, che si accompagni sempre alla interpretazione asettica della legge ed alla sua applicazione.