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I nati non riconoscibili: il ruolo dei giudici nella persistente inerzia del legislatore

di Francesca Paruzzo
assegnista di ricerca in Istituzioni di diritto pubblico, avvocato del Foro di Torino

In nota a due sentenze, del Tribunale e della Corte d’appello di Torino, che negano il diritto del nato da fecondazione assistita al riconoscimento del partner del genitore biologico: in attesa che intervenga il Legislatore…

1. Premessa

I nati in Italia mediante il ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita eterologa, costituiscono la “nuova categoria” di bambini non riconoscibili. Così li ha definiti la Corte costituzionale nella sentenza n. 32 del 2021, collocandosi e rafforzando un orientamento a cui ha ritenuto di aderire il Tribunale di Torino, prima, con decreto n. 1133 del 13 luglio 2021 e, in sede di gravame, la Corte di Appello di Torino, con decreto del 24 febbraio 2022. 

Questi i fatti da cui ha avuto origine la vicenda.

Nel maggio 2021, l’Ufficiale di Stato civile del Comune di Torino consente, ai sensi dell’art. 254 del Codice civile, il riconoscimento di una bambina, già riconosciuta dalla madre biologica, da parte di un’altra donna, che, stabilmente convivente dal 2015 con la prima, aveva con questa condiviso il percorso genitoriale attraverso la fecondazione eterologa svoltasi all’estero. Le due madri, atteso l’ormai intervenuto riconoscimento, si rivolgono quindi al Tribunale di Torino affinché lo stesso disponga la modifica del cognome della minore. Il giudice di primo grado, tuttavia, non si pronuncia su tale domanda, in quanto ritiene assorbente di ogni altra questione la dichiarazione di illegittimità – e la conseguente disapplicazione - del provvedimento amministrativo di riconoscimento operato dal Comune, poiché in contrasto, secondo il Tribunale, con l’art. 42 del D.P.R. n. 396 del 2000. 

Tale norma subordina infatti il riconoscimento del figlio alla dimostrazione dell’assenza di motivi ostativi legalmente previsti, rinvenibili, nella vicenda in esame, nell’art. 5 della l. 40 del 2004, recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, nella parte in cui prevede che, in Italia, solo le coppie sposate o conviventi eterosessuali possano accedere alle tecniche di PMA. 

Tale decreto viene poi confermato dalla stessa Corte d’Appello, all’esito di un giudizio di reclamo in cui il Comune di Torino decide di costituirsi, valutata la regolarità tecnica del provvedimento dell’Ufficiale di Stato civile, sul presupposto dell’inesistenza di un espresso divieto legislativo che si opponga a tale riconoscimento, dell’esigenza di tutela del preminente interesse del minore e della conformità della invocata trascrizione ad altre vicende giurisprudenziali italiane, sovranazionali e internazionali. 

Il giudice di appello si limita, in questo caso, nella sua decisione, a richiamare un suo precedente[1] e, pur ammettendo l’esistenza di differenti orientamenti interpretativi, ritiene di doversi conformare a quello, a oggi maggioritario, espresso soprattutto dalla giurisprudenza di legittimità nelle sentenze n. 7668 del 2020 e 8029 del 2020[2]; la Corte d’Appello di Torino fonda quindi la sua motivazione sul fatto che : a) avendo la Corte costituzionale, con sentenza n. 221 del 2019, dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata con riferimento agli artt. 5 e 12 della l. n. 40 del 2004 nella parte in cui precludono alle coppie omosessuali l'accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, non può che escludersi, a contrario,  “una generalizzata legittimazione del ricorso alle predette tecniche e l'utilizzabilità delle stesse per la soddisfazione delle aspirazioni genitoriali delle coppie omosessuali”; b) “le tecniche di PMA si pongono come rimedio alla sterilità o infertilità umana avente una causa patologica e non altrimenti rimuovibile, e sono volte a garantire che il nucleo familiare scaturente dalla loro applicazione riproduca il modello della famiglia caratterizzata dalla presenza di una madre e di un padre”; c) l'ammissione delle coppie omosessuali alla procreazione medicalmente assistita “è vietata dal quadro normativo, a cui si aggiunge che la Costituzione non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli”; d) è esclusa la possibilità di avvalersi di tali tecniche per la realizzazione di forme di genitorialità svincolate dal rapporto biologico tra il nascituro e i richiedenti, pena la previsione di modifiche radicali al sistema attualmente vigente, non realizzabili attraverso l’intervento del giudice.

Alla luce di tali motivazioni, la Corte d’Appello di Torino, pur ammettendo l’esistenza di un vuoto normativo in grado di produrre effetti negativi sulla sfera giuridica dei soggetti coinvolti, rimette il bilanciamento tra i limiti posti dall’ordinamento, il diritto di ciascuna persona, qualunque sia il suo orientamento sessuale, di avere un figlio (anche) tramite l'uso delle tecnologie e la salvaguardia dei diritti del concepito e del nato - in primo luogo, del suo status filiationis - al solo legislatore, considerato unico interprete della collettività nazionale[3], escludendo di poter porre rimedio in via interpretativa alle lacune riscontrate. 

 

2. Inerzia legislativa e spazi di interpretazione del giudice. Quali i principi in causa?

Decisione scontata, quindi? 

Certamente l’interpretazione fatta propria tanto dal Tribunale, quanto dalla Corte d’Appello di Torino, trova conforto in ormai plurimi precedenti giurisprudenziali. Tuttavia, ciò non esclude che, adottando differenti opzioni ermeneutiche, si potesse giungere a un risultato differente. 

La delicata tematica relativa alla filiazione delle coppie dello stesso sesso e dei diritti dei soggetti coinvolti, figli e genitori, biologici o intenzionali che siano, nella persistente inerzia del legislatore, non ha ancora trovato soluzione[4]: i giudici, chiamati a dover dare risposta a domande di tutela, si trovano quindi costretti a fare i conti – in un ordinamento in cui la previsione contenuta nell’art. 5 della l. n. 40 del 2004 ha superato indenne, nonostante i moniti rivolti al legislatore, il vaglio della Corte costituzionale - da un lato, con la pretesa del riconoscimento di un diritto alla genitorialità in capo alle coppie dello stesso sesso, quantomeno equivalente a quello che oggi è garantito alle coppie eterosessuali, alle quali il legislatore (anche grazie a interventi della stessa Corte costituzionale, ha riservato plurime possibilità ulteriori per diventare genitori in presenza di difficoltà riproduttive: l’adozione piena, la PMA omologa e da ultimo, anche eterologa)[5]; dall’altra, con il diritto del minore alla continuità del suo status filiationis.

Quanto al primo profilo, oggi, la pretesa di riconoscimento dell’esistenza di un diritto alla genitorialità generalmente inteso e quindi riferibile anche alle coppie omogenitoriali non trova conforto specifico nel nostro ordinamento. La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 230 del 2020, afferma infatti che “l’aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona nei sensi di cui al citato art. 2 Cost.”, che “l’art. 30 Cost. non pone una nozione di famiglia inscindibilmente legata alla presenza di figli” e che “la libertà e volontarietà dell’atto che consente di diventare genitori […] non implica che […] possa esplicarsi senza limiti” (sentenza n. 162 del 2014)”. Per quanto gli stessi giudici costituzionali mostrino una se pur minima apertura là dove si fermano a considerare come questi stessi limiti “anche se ispirati da considerazioni convincenti di ordine etico, meritevoli di attenzione in un ambito così delicato, non possono consistere in un divieto assoluto”, tuttavia, rimettono al legislatore la possibilità, nella sua discrezionalità, di modularli diversamente o di eliminarli, traducendo il bilanciamento tra i valori fondamentali in conflitto e “tenendo conto degli orientamenti e delle istanze […] maggiormente radicati, nel momento dato, nella coscienza sociale”[6].

I giudici, nelle pronunce in esame non avrebbero quindi potuto ricavare dall’ordinamento in via meramente interpretativa, un diritto alla genitorialità[7] rivendicabile dalla madre intenzionale – in assenza di alcun legame biologico con la minore - in grado di costituire la base perché le vicende a essi sottoposte potessero avere un differente esito; lo stesso, invece, non si può dire con riferimento al profilo del fondamentale diritto di ogni bambino alla continuità dello status filiationis, a sua volta strettamente connesso alla tutela della sua identità personale ed entrambi espressione del principio del superiore interesse del minore. 

Quest’ultimo costituisce infatti principio fondamentale riconosciuto e protetto dall’ordinamento internazionale, da quello sovranazionale e da quello interno e articolato in una pluralità di situazioni giuridiche. Questo principio opera come clausola generale, come una scatola vuota[8], che, nella sua evoluzione storica, ha assunto significati diversi: tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, esso ha visto la propria origine nei diritti privati di famiglia dei singoli Stati in una funzione di “limitazione del potere degli adulti” indotta dai cambiamenti della società[9]; poi, si è imposto progressivamente come criterio cardine di ogni decisione giudiziale sui figli; infine, è confluito, nel secondo dopo guerra, nelle Carte costituzionali dei diversi Paesi e in numerose fonti internazionali e dell’Unione europea. Con riguardo a queste ultime viene in considerazione, in primo luogo, la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, il cui art. 3, par. 1, evidenzia come si debba sempre far riferimento al superiore interesse del minore qualunque sia l’ambito che lo riguardi. In secondo luogo, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa il 25 gennaio 1996, nel disciplinare i procedimenti riguardanti ogni bambino, detta, in un’ottica di tutela di tale principio, le modalità a cui l’autorità giudiziaria deve conformarsi prima di giungere a qualunque decisione nei suoi confronti. In ultimo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, all’art. 24, secondo comma, prescrive che “in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore degli stessi deve essere considerato preminente” e al terzo comma aggiunge che “il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse”. In Italia, l’entrata in vigore della Costituzione rafforza l’orientamento di massima garanzia del minore attraverso la previsione di alcuni diritti fondamentali riconosciuti e garantiti solo nei suoi confronti[10]. Tuttavia, è soltanto negli anni 60[11] - in concomitanza con la riforma del sistema delle adozioni operata con la legge n. 431 del 1967, recante Modifiche al titolo VIII del libro I del Codice civile Dell'adozione ed inserimento del nuovo capo III con il titolo Dell'adozione speciale - che il tema dei minori e del loro interesse emerge pienamente e porta all’affermazione definitiva di una prospettiva che vede il bambino e la sua tutela necessariamente al centro delle decisioni legislative che li riguardano: come sottolineato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 11 del 1981 avente a oggetto alcune disposizioni della legge sulle adozioni speciali si impone, infatti, per il combinato disposto degli artt. 2 e 30, primo e secondo comma, della Costituzione, la necessità di riconoscere come fine preminente lo svolgimento della personalità del bambino in tutte le sedi proprie e l’esigenza di assumere a valore primario “la promozione della personalità del soggetto umano in formazione e la sua educazione”. Ciò, a prescindere dalle scelte operate da terzi. In questo senso, ad esempio, sempre la Corte costituzionale, con la sentenza n. 494 del 2002, nel dichiarare l'illegittimità dell'art. 278 comma 1 c.c. (che escludeva la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità nei casi di divieto di riconoscimento dei figli incestuosi) afferma che imporre una capitis deminutio perpetua e irrimediabile ai figli, come conseguenza oggettiva di comportamenti di terzi soggetti, costituisce una evidente violazione del diritto allo status filiationis, quale espressione dell’identità degli stessi con fondamento nell'art. 2 della Costituzione[12].

L’esigenza di attribuire carattere preminente al principio del superiore interesse del minore consente poi altresì di sfumare – pur senza rimetterlo alla esclusiva disponibilità delle parti in causa – l’imprescindibilità del nesso tra legame biologico e genitorialità/filiazione. Se a livello internazionale tale prospettiva trova fondamento in alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo (i casi Mennesson c. Francia, Labassee c. Francia e soprattutto il caso Paradiso e Campanelli c. Italia), a livello interno, la Corte costituzionale, pur misurandosi con casi diversi (si trattava, per ciò che attiene alle pronunce più risalenti, di nati da PMA eterologa, praticata da una coppia eterosessuale con il consenso di entrambi, quando ancora non esisteva una disciplina omogenea in materia[13], prima e, quando questa era ancora vietata, poi)[14], è andata a sottolineare come, in presenza di un progetto genitoriale condiviso, la coppia debba assumersi la responsabilità dei nati, al di là del dato meramente biologico[15], al fine di garantire in capo al minore “una propria identità affettiva, relazionale, sociale, da cui deriva l’interesse a mantenere il legame genitoriale acquisito, anche eventualmente in contrasto con la verità biologica della procreazione”[16].

Alla luce di ciò, il rilievo attribuito, a livello nazionale, sovranazionale e internazionale al principio del superiore interesse del minore, che trova piena corrispondenza e attuazione nella garanzia dello status filiationis, unitamente alla disciplina delle unioni civili, meritevoli di tutela ai sensi dell'art. 2 Cost. quali formazioni sociali idonee a consentire il pieno dispiegamento della persona umana, al riconoscimento della capacità delle coppie omosessuali di accogliere, crescere ed educare figli[17], nonché, quale parametro di ragionevolezza, alla possibilità, ammessa dal nostro ordinamento, di trascrizione dell'atto di nascita validamente formato all'estero dal quale risulti che il nato è figlio di due donne[18], ben avrebbero potuto portare i giudici torinesi, pur in presenza dei limiti previsti dall’ordinamento, a sganciare la filiazione dall’attribuzione di rilevanza al dato biologico, collegandola invece alla valutazione circa la sussistenza di una vita familiare, frutto di una stabile relazione affettiva tra i soggetti coinvolti. In questo modo, Tribunale e Corte d’Appello di Torino si sarebbero potuti allineare a una giurisprudenza di merito[19], che, nonostante non trovi per ora l’avallo della giurisprudenza di legittimità[20], ha meritoriamente messo in luce da una parte “la necessità di distinguere l’illiceità (a oggi) dell’accordo di surrogazione e il ricorso alla gestazione per altri dai diritti del minore, frutto di quel progetto generativo e genitoriale”[21] e dall’altra,  il trattamento irragionevolmente differente cui vanno incontro coppie omogenitoriali femminili – come nel caso in esame - a seconda che decidano di far nascere il proprio figlio in Italia o all’estero e pur a fronte del medesimo evento (appunto, la nascita). Se nel primo caso, come visto nelle pronunce in commento, tali coppie rischiano di vedersi rigettata la domanda di rettifica dell’atto di stato civile con l’indicazione anche della madre sociale, nel secondo, invece, si vedono riconosciuto il diritto, sancito da giurisprudenza ormai costante[22], alla trascrizione dell’atto di nascita formatosi all’estero – e non contrario all’ordine pubblico - che rechi l’indicazione, come genitori, di entrambe le madri. 

 

3. Considerazioni conclusive

Il legislatore è, su questi temi – così come su altre questioni eticamente sensibili – colpevolmente inerte. A esso spetterebbe di trovare quel ragionevole punto di equilibrio tra i diversi beni costituzionali coinvolti, avendo prioritario riguardo alla tutela della dignità della persona. La dignità, vista nel suo rapporto con la libertà, diventa infatti presidio posto “non per custodire un’essenza, bensì per mettere ciascuno nella condizione di determinare liberamente il proprio progetto di vita”[23].

È tuttavia evidente che, nell’attesa del suo intervento, le situazioni, come quella da cui ha avuto origine la vicenda in commento, che sempre più emergono dalla realtà sociale e che chiedono riconoscimento e tutela non possono rimanere prive di risposta. Non è quindi sufficiente, anche da parte dei giudici, limitarsi a prendere atto dell’esistenza di un bilanciamento già effettuato a priori in via generale e astratta attraverso l’attribuzione al divieto penale della surrogazione di maternità di un valore prevalente rispetto al riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale: se quello del superiore interesse del minore, costituisce un principio complesso, non cristallizzabile in modo definito una volte per tutte[24], ma preminente, allora esso deve sia condizionare la legittimità delle scelte legislative[25], sia orientare quelle giudiziarie.

Alla giurisprudenza, in questo caso avallata anche dall’amministrazione comunale, quale, nei limiti delle sue attribuzioni, rappresentante di quel principio di sovranità popolare che fonda e legittima il nostro stesso ordinamento, spetta il compito di una lettura costituzionalmente orientata della normativa vigente alla luce dei principi sopra individuati e della loro applicazione in funzione del riconoscimento giuridico della genitorialità di intenzione, muovendo dai fatti che vedono coinvolti minori a cui deve essere garantita la tutela dei legami affettivi e familiari, anche se non biologici, e la certezza nella costruzione dell’identità personale. 

D’altronde, la stessa storia della giurisprudenza costituzionale insegna quanto possa essere frequente l’esistenza di “diritti senza legge”[26], cioè di situazioni giuridiche soggettive che si affermano a prescindere da una previsione normativa ed eventualmente, in talune circostanze, anche contro le sue determinazioni[27].
 

 

[1] Il riferimento è al decreto n. 81 del 15-26 gennaio 2021.

[2] La Corte di Cassazione, nelle pronunce citate, ribadisce e richiama i recenti pronunciamenti della Corte Costituzionale (Corte Costituzionale n. 221 del 2019, n. 237 del 2019 e n. 230 del 2020. Quest’ultima dichiara l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 30 e 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 24, paragrafo 3, CDFUE, agli artt. 8 e 14 CEDU e alla Convenzione sui diritti del fanciullo, degli artt. 1, comma 20, della legge n. 76 del 2016 e 29, comma 2, del d.P.R. n. 396 del 2000, che, nel loro combinato disposto, precludono alle coppie di donne omosessuali unite civilmente la possibilità di essere indicate, entrambe, quali genitori nell'atto di nascita formato in Italia, quantunque abbiano fatto ricorso, all'estero, alla procreazione medicalmente assistita. Per un commento alla sentenza, A. GIUBILEI, L’aspirazione alla genitorialità delle coppie omosessuali femminili. Nota alla sentenza n. 230 del 2020 della Corte costituzionale, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 3 del 2020.

[3] Si richiama, in questo senso, Cass. Civ., n. 8029 del 2020.

[4] F. MANNELLA, Oltre un serio avvertimento al legislatore? La Corte costituzionale e la nuova categoria di "nati non riconoscibili”, Nota alla sentenza n.32 del 2021 della Corte costituzionale, in Nomos. Le attualità del diritto, n. 1 del 2021.

[5] Cfr. Corte costituzionale, n. 162 del 2014 e n. 96 del 2015.

[6] Corte costituzionale, n. 230 del 2020 che a sua volta richiama Corte costituzionale, n. 84 del 2016.

[7] Per un commento, cfr. G. M. FLICK, Diritto ad avere un genitore e/o diritto ad essere un genitore: una riflessione introduttiva, in Rivista AIC, n. 1 del 2017.

[8] P. RONFANI, L’interesse del minore nella cultura giuridica e nella pratica, in C. MAGGIONI, C. BARALDI (a cura di), Cittadinanza dei bambini e costruzione sociale dell’infanzia, Quattroventi, Urbino, 1997, 254.

[9] C. SARACENO, M. NALDINI, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2007, 137.

[10] Si consideri, in tal senso, gli artt. 30 e 31 della Costituzione o l’art. 37 nella parte in cui afferma che “la Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione”.

[11] G.M. FLICK, Il bambino oggi: il diritto di avere diritti; la speranza di avere un futuro, in Rivista AIC, n. 2/2015, 2 – 3.

[12] Sia consentito il rinvio a F. PARUZZO, L’attribuzione al divieto penale della surrogazione di maternità di un valore prevalente rispetto al riconoscimento della filiazione nei confronti del genitore intenzionale, in Osservatorio AIC, n. 2 del 2017.

[13] Corte costituzionale, n. 347 del 1998.

[14] Corte costituzionale, n. 162 del 2014.

[15] Corte costituzionale, n. 272 del 2017.

[16] Così, da ultimo, Corte costituzionale, n. 127 del 2020.

[17] Che ha condotto, ad esempio, a ritenere ammissibile l'adozione del minore da parte del partner dello stesso sesso del genitore biologico, ai sensi della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 44, comma 1, lett. d).

[18] Si veda in questo senso Cass. Civ. n. 14878 del 2017 e n. 19599 del 2016.

[19] C. App. Cagliari, sez. prima, 28 aprile 2021; Trib. Genova, 4 novembre 2020. Sono richiamate nella sentenza della Consulta n. 32 del 2021, al punto 2.3.1, tra gli altri, Trib. di Brescia, 11 novembre 2020, Trib. di Cagliari, sentenza n. 1146 del 28 aprile 2020, C. App. Roma, 27 aprile 2020.

[20] Il riferimento è in questo caso alla Corte d’Appello di Cagliari del 29 aprile 2021 che, come affermato da M. ACIERNO, Gestazione per altri: una concreta possibilità di dialogo tra le Corti, in Questione giustizia, https://www.questionegiustizia.it/articolo/gestazione-per-altri-una-concreta-possibilita-di-dialogo-tra-corti

[21] Cosi M. ACIERNO, Gestazione per altri: una concreta possibilità di dialogo tra le Corti, cit.

[22] Cass. Civ. n. 19599 del 2016 e Cass. Civ. n. 23319 del 2021.

[23] S. RODOTA’, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2010, 194.

[24] C. FOCARELLI, La Convenzione di New York sui diritti del fanciullo e il concetto di «best interests of the child», in Rivista di diritto internazionale, 2010, 981 ss. L’Autore tenta di definire il concetto di superiore interesse del minore attraverso l’interpretazione della Convenzione di New York, secondo i criteri sanciti dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 1969.

[25] L. LENTI, “Best interests of the child” o best interests of the children?, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2010, 158 -161.

[26] A. MORELLI, I diritti senza legge, in Consulta online, n. 1 del 2015, 10.

[27] R. BIN, Chi è il giudice dei diritti? Il modello costituzionale e alcune deviazioni, in Rivista AIC, n. 4 del 2018, 636.  

09/05/2022
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