1. Entrando alla sede centrale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a Roma, subito dopo i tornelli posti all’ingresso, sulla parete di destra, non sfugge all’attenzione del visitatore una grande lapide trasparente che riporta i settantaquattro nomi di altrettanti caduti nell’espletamento del loro servizio penitenziario.
È la storia di questa Amministrazione e, più in particolare, delle crisi che il carcere italiano ha dovuto affrontare dal secondo conflitto mondiale ad oggi.
Nel leggere quei nomi e le date corrispondenti alla morte di quelle persone, infatti, pare di rileggere il saggio di De Vito che ripercorre le fasi storiche della Nazione viste dalla prospettiva penitenziaria[1].
Tutte fasi che sono state caratterizzate da condizioni materiali, eventi ed esigenze che tanto hanno modificato l’ordinamento penitenziario e la vita carceraria, con l’introduzione o l’applicazione di una variegata serie di norme, prassi e sentenze.
Si va dal secondo conflitto mondiale al dopoguerra, agli anni ’70, ’80 e ’90, quelli del terrore politico e di quello imposto dal crimine organizzato.
L’ultima persona riportata in quella lapide, in ordine cronologico, è stata uccisa l’antivigilia di Natale del 1995.
Ognuno di noi ha un appuntamento con la propria fine. Ci si può giungere per caso, inconsapevoli oppure pienamente coscienti, più o meno rassegnati, in alcuni casi addirittura sereni.
Se mi soffermo su quelle date mi viene da riflettere che tutte le persone ricordate in quella lapide, in quel giorno preciso anteposto al loro nome, erano semplicemente uscite dalla loro casa per andare al lavoro.
Spesso mi chiedo, con una buona dose di angoscia, come li avrà colti la morte? Se ne resero conto? Se l’aspettavano o ne furono sorpresi? Tentarono una fuga o non ne ebbero tempo e possibilità? A chi pensarono l’istante prima di essere colpiti?
Di certo rimane il fatto che uscirono di casa, salutando le proprie famiglie come mille altre volte nella certezza di poterle rivedere nel giro di qualche ora, per andare a fare il proprio mestiere che avevano scelto o che si erano ritrovati a fare ma che, in ogni caso, facevano.
Per questo sono morti.
O meglio, anche per questo sono morti.
Quel lavoro è stato vissuto come un ostacolo per i loro assassini.
Ma perché e come si diventa un ostacolo semplicemente facendo il proprio dovere?
2. Il nome di Giuseppe Salvia compare nel terzo blocco della lapide, quella che ricorda i magistrati, i direttori e i collaboratori, e la data che corrisponde alla sua morte è quella del 14 aprile 1981.
Era, infatti, il vicedirettore anziano del carcere di Poggioreale.
Non ho potuto conoscerlo, essendo entrato in Amministrazione dieci anni dopo la sua morte, ma ho conosciuto molti dei colleghi che hanno lavorato gomito a gomito con lui nell’istituto di Napoli anche se ormai tutti hanno terminato il loro servizio attivo.
Al rischio dello sfilacciamento dei ricordi della sua vita e della sua morte ha, di recente, ovviato Antonio Mattone che ha pubblicato un corposo volume che ne racconta la storia[2]. Cinque anni di lavoro passati negli archivi, ad ascoltarne i parenti stretti, i colleghi e i collaboratori, sino ad intervistare il mandante del suo omicidio, Raffaele Cutolo, e uno degli autori materiali dell’uccisione, Mario Incarnato.
È stato importante scegliere di investire tutto quel tempo per entrare nella vita di Salvia, non solo perché la ricorda nei suoi passaggi più importanti ma anche perché, a ben vedere, ci consente di capire come un impegno professionale può diventare la causa della propria morte. Se ci riflettiamo essere vittima del proprio dovere appare come un ossimoro.
Sarebbe più comprensibile essere vittima della propria incapacità o negligenza, dei propri errori o superficialità.
Eppure per tutte le persone riportate in quella lapide, quindi anche per Giuseppe Salvia, il vero motivo per il quale qualcuno ha inteso condannarle a morte va ricercato in quella loro tendenza a non deviare da quello che sentivano essere la cosa giusta da fare.
La biografia di Mattone descrive con dovizia di particolari il clima del carcere napoletano in quei durissimi anni in cui era la camorra a farla da padrona.
In carcere i simboli e la loro ostentazione sono fattori fondamentali per stabilire l’ordine informale di quel luogo, le gerarchie e le precedenze che ne derivano.
In quegli anni, come non mai, la paura serpeggia all’interno di quelle mura, non solo tra i detenuti, divisi tra i vari clan, ma anche tra il personale, ed è sancita esattamente dai gesti simbolici che vengono perpetuati come in una drammatica recita continua.
Questo comporta che alcune celle rimangano aperte quando invece dovrebbero rimanere chiuse come tutte le altre, che alcuni vengano regolarmente perquisiti mentre altri, sempre gli stessi, non vengano neppure sfiorati, che alcuni organizzino banchetti mentre altri vivano della “casanza”.
3. Tra i primi primeggia la figura di Raffaele Cutolo.
È il boss incontrastato della Nuova Camorra Organizzata e governa Napoli e non solo, se si considera che viene corteggiato da esponenti politici e personalità dello Stato che non ne fanno mistero, tanto da mandargli gli auguri a casa nelle feste comandate, per il ruolo che gli venne chiesto per far rientrare a casa l’Assessore Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate Rosse proprio nel periodo a cavallo dell’uccisione di Giuseppe Salvia.
Il suo non è un potere fatto solo di privilegi, anzi, questi ultimi altro non sono che il risultato della violenza che esprime per spianare qualunque ostacolo che si pari di fronte.
Sei mesi prima dell’omicidio di Salvia, nella notte del terremoto che sconquassò il Sud dell’Italia, a Poggioreale va in scena una vera e propria carneficina il cui regista è esattamente lui che ordina ai suoi sodali di uccidere i suoi rivali e i traditori.
In quegli anni e in quel carcere si riportano gesti palesi di vera e propria devozione nei suoi confronti da parte degli affiliati, al pari di una divinità.
Tutti lo temono e molti dei timorosi stanno anche da questa parte delle sbarre.
Il libro di Mattone riporta espressamente un clima di palese corruzione che vede alcuni protagonisti direttamente tra il personale in servizio.
Se non è accettabile è tuttavia comprensibile, considerato che il personale vive negli stessi quartieri della città partenopea e nei paesi dell’hinterland napoletano, spesso a diretto contatto con gli uomini dei clan.
Si fa in fretta a condannare e a stigmatizzare ma si deve vivere una situazione per capire quale sarebbe il nostro comportamento in quelle esatte condizioni.
Solo chi la vive può dire.
Certo, sia chiaro, questo non significa giustificare ma solo entrare in quel contesto sino alle pieghe più dolorose e maleodoranti.
4. Giuseppe Salvia vive pienamente il suo ruolo in quella situazione.
È una persona che è cresciuta in una famiglia caprese di sani ed antichi principi.
Ha sgobbato sui libri e si è meritato quel lavoro.
La sua storia e quella della sua famiglia lo portano naturalmente ad affrontare la vita in un modo tale per cui il suo comportamento non flette di fronte a quelle condizioni ambientali.
La sua educazione e la sua personalità lo mettono al riparo dal dubbio di cedere ed accomodare.
Non è una posa, non è un modo di atteggiarsi, è un tratto della sua personalità. Non esiste un’alternativa.
Non siamo al cospetto ad una persona che esercita il potere a lui affidato in modo prepotente, chiuso ed arrogante.
Non lo testimoniano solamente i familiari e gli amici più cari ma anche le attestazioni di affetto, di riconoscenza e di stima che gli stessi detenuti gli riservano in punto di morte. Una cosa che, in altre circostanze, ricordano l’onore delle armi all’avversario valoroso e corretto.
È interessante sottolineare che questa particolarità si ritrova anche nelle riflessioni che, trentuno anni fa, Marcelle Padovani descrisse parlando di Giovanni Falcone, in quel libro scritto a quattro mani emergeva chiaramente l’idea del giudice di dare naturalmente per scontato che si debbano applicare le regole.
Diceva Falcone «appartengo a quella categoria di persone che ritiene che ogni azione debba essere portata a termine. Non mi sono mai chiesto se devo affrontare o no un certo problema, ma solo come affrontarlo»[3].
Per certi versi tale atteggiamento è antieroico nella misura in cui, in genere, gli atti eroici vengono posti in essere da persone che si trovano nella condizione di fare, per ruolo o per caso, quello che valutano, spesso con un processo intimo e quasi inconsapevole, essere l’unica cosa possibile, senza che il costo e l’opportunità entri in un calcolo.
Quasi sempre gli “eroi” si stupiscono dell’ammirazione altrui, opponendo agli interlocutori estasiati la “semplice” considerazione di aver fatto l’unica cosa possibile nella condizione nella quale si sono trovati.
5. È con questo naturale atteggiamento che Salvia affronta quell’inferno in terra che è Poggioreale in quegli anni.
La cronaca narra che questo lo porterà presto a contrapporsi all’arrogante prepotenza del boss al punto che Cutolo, infastidito ed intollerante al rigore del vicedirettore anziano, giungerà a schiaffeggiarlo.
Si è molto discusso su questo fatto come su altre circostanze che sono state interpretate come le cause scatenanti l’omicidio.
Il fatto che sia stato Cutolo ad ordinare la morte di Salvia è ormai sentenziato in maniera definitiva e lui stesso lo ammette a Mattone nel corso del loro incontro.
È importante ma, ai nostri occhi, non ci pare sufficiente per capire fino in fondo il valore di quest’uomo e come questo lo abbia condotto alla morte.
Non si muore solo per principio e per senso del dovere. Si muore quando questo non è comune e diffuso a sufficienza al punto da diventare il punto di maggior esposizione di un sistema di persone molto attente ad evitare il rischio di esserlo.
Di nuovo si ritrova la perfetta sovrapposizione con le considerazioni di Giovanni Falcone raccolte molti anni fa da Marcelle Padovani.
Esattamente nell’ultima pagina del loro saggio si ritrova quella che è, oltre che una considerazione di Falcone mille volte citata, anche una grande verità; «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno»[4].
In diversi passaggi del suo saggio Mattone tratteggia, ad esempio, l’atteggiamento del direttore di Poggioreale, Grossi, il superiore diretto di Salvia.
Assente, sfuggente, pronto a scaricare su quest’ultimo urgenze, oneri e responsabilità. E Salvia non si sottrae mai.
Corre ogniqualvolta gli viene ordinato e anche quando non gli viene ordinato al punto da dover sopportare lo sfottò affettuoso della giovane moglie che si dice convinta che il marito ritenga di dover essere sempre presente convinto che senza di lui quel fortilizio maledetto possa crollare.
È una vecchia legge della burocrazia della peggior specie. Meno ci sei e meno potrai essere accusato di aver sbagliato.
Viceversa è evidente che più la tua presenza è assidua ed attiva, più ascolti e più decidi e più prendi posizione di fronte a quesiti e questioni che non sono mai neutre ed indifferenti. C’è gente che, per fortuna di tutti, si nutre di questo, si nutre del proprio impegno convinta che dirimere i problemi aiuti molti a vivere meglio.
Ma la regola burocratica della dilazione e dello spostamento delle responsabilità vale anche nei confronti del personale di più umile estrazione ed applicazione.
Mattone narra delle continue richieste a Salvia da parte di quest’ultimo, di fronte all’impossibilità di agire o alla paura di doverlo fare.
È indubbio che anche questo espone a dei rischi, più subdoli ma non meno pericolosi. Uno dei primi insegnamenti che mi venne impartito, entrando nell’Amministrazione, fu proprio questo.
Ricordati, mi venne detto, ogni volta che qualcuno, da dentro dell’istituto, ti chiama in ufficio prospettandoti un problema o una richiesta che, evidentemente, non può che avere un esito negativo ed impossibile, è molto probabile che veda, di fronte all’interlocutore dall’altra parte del cavo, la fisica presenza del diretto interessato.
La tua risposta suggellerà il fatto che sei tu, e solo tu, colui il quale si oppone alla soluzione desiderata.
La Giustizia è costellata di questi atteggiamenti e, in tal senso, da questi viene indebolita e bistrattata.
La morte di Salvia non evidenzia solamente la cattiveria del Male, la ferocia di un boss, ma anche, forse soprattutto, la banalità dell’ingiustizia fatta di disimpegno e vigliaccheria. La Giustizia si amministra solamente a ranghi compatti e consapevoli che nessuno può essere sacrificato.
6. Certo, è più facile dirlo che farlo ma una cosa mi rimane da dire, anzi da svelare.
Negli anni in cui ho lavorato al Dipartimento, una sera, mi accorsi di un gesto, quasi impercettibile, di un ragazzo che, dopo una giornata di lavoro, si apprestava ad uscire da quell’edificio.
Nel procedere velocemente verso l’uscita, deviando leggermente dalla sua traiettoria nel corridoio, allungando leggermente la mano, sfiorò la lapide.
Lì per lì registrai la cosa senza, tuttavia, che questo destasse più di tanto la mia curiosità né, tantomeno, ne interpretassi il motivo.
Non mi chiesi il perché senonché, con il tempo, mi resi conto che anche altri ripetevano quel gesto.
Ne chiesi il motivo e la risposta che ottenni confermò quello che iniziavo ad immaginare. Una parte delle persone che lavorano al Dipartimento, soprattutto i più anziani, sfiorano quella lapide per “salutare” chi non c’è più.
Qualcuno lo fa entrando, altri uscendo, altri ancora in un caso come nell’altro.
Ritengo che questo sia un gesto straordinariamente significato e molto bello, non solo nei confronti di quei compagni di viaggio persi per strada.
Non si sa come sia nato, non viene pubblicizzato, risulta spontaneo, silenzioso e discreto e per questo è un segno di rispettoso ricordo e di identità ancora più prezioso.
È su questa identità che occorre lavorare, sul senso di appartenenza e di reciproca fiducia. Questo è ciò che la morte di Salvia e di tutti gli altri ci lascia e questo è ciò che noi dobbiamo loro e al più ampio e generale senso di Giustizia sul quale si fonda ogni civile vivere in comune.
[1] C.G. De Vito, Camosci e girachiavi: storia del carcere in Italia, Laterza, Bari, 2009.
[2] A. Mattone, La vendetta del boss: l’omicidio di Giuseppe Salvia, Guida, Napoli, 2021.
[3] G. Falcone, M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano, 1991, p. 14.