Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Sull’efficacia della fatwā di Khomeini contro Salman Rushdie

di Deborah Scolart
professoressa associata di diritto dei paesi islamici all'università di Napoli "L'Orientale"

Il 12 agosto 2022, durante un festival letterario nello stato di New Jersey, lo scrittore Salman Rushdie è stato vittima di un accoltellamento plurimo che lo ha ridotto quasi in fin di vita. Il suo aggressore è stato arrestato ed è in attesa di processo. La vicenda ha riportato alla ribalta la fatwā pronunciata contro Salman Rushdie dall’Ayatollah Khomeini 33 anni fa.

Sommario: 1. Ruolo e funzione della fatwà nel diritto islamico - 2. Il testo della fatwā contro Salman Rushdie - 3. I soggetti della fatwā - 4. Il reato ascritto - 5. Chi deve attuare la fatwā? - 6. Condanna a morte senza processo - 7. 

 

1. Ruolo e funzione della fatwà nel diritto islamico

Il termine fatwā può essere tradotto come opinione, parere giuridico che può essere chiesto e reso in riferimento a ogni ambito della vita dell’individuo e riguardare questioni civili come squisitamente religiose. La fatwā non è una sentenza ed è priva di esecutorietà; composta di una domanda e di una risposta, può essere priva di motivazione, ma è bene che sia articolata e comprensibile, chiara in tutti i suoi aspetti. 

Il muftī, titolare di quello che Tyan[1] definisce uno jus respondendi simile ai responsa del diritto romano, deve appartenere all’islam, essere equo (ʿadl) e capace di iǧtihād, ossia di raggiungere - attraverso l’interpretazione delle fonti - la soluzione del problema oggetto del quesito che gli viene sottoposto[2]. Ne consegue che, teoricamente almeno, l’appellativo di muftī dovrebbe essere attribuito solo al muǧtahid[3], un giurista capace di iǧtihād, e non al muqallid, cioè a colui che si rifà pedissequamente alle interpretazioni della scuola di appartenenza. Tuttavia, non sono certo mancati casi, nel passato e in epoca attuale, di soggetti auto-investitisi della funzione di muftī pur essendo privi delle necessarie qualità scientifiche, cosa possibile appunto perché accanto a organi istituzionali (si pensi oggi, per fare degli esempi, alla Dār al-Iftāʾ egiziana istituita nel 1895 o alla più recente – 2012 – Dār al-Iftāʾ libica) convivono muftī che si autoproclamano tali e agiscono a livello individuale[4]. La richiesta di parere può provenire da privati come da istituzioni; la necessità per il credente di vivere conformemente ai valori e alle regole della religione islamica induce, infatti, una costante ricerca di chiarificazione su cosa si può e cosa non si può fare. In passato non di rado a richiedere una fatwā era il giudice[5] e se egli era della stessa scuola giuridica del muftī il parere di quest’ultimo era ritenuto vincolante ai fini della decisione del giudice, altrimenti valeva come mera indicazione interpretativa.

I primi muftī ufficiali, cioè designati dal potere politico, compaiono già alla fine del I secolo dell’islam (inizio dell’VIII secolo d.C.) anche se di vera e propria istituzionalizzazione si può parlare solo con gli Ottomani, che renderanno la carica parte dell’apparato statale facendo del muftī un funzionario, con lo šayḫ al-islām di Istanbul al vertice degli ʿulamāʾ. Va in ogni caso ricordato che nel mondo islamico contemporaneo è assai difficile trovare leggi o regolamenti che disciplinino l’istituto della fatwā, sicché sono ancora valide le regole classiche relative alla determinazione delle caratteristiche che deve possedere un individuo per poter essere chiamato muftī.

Storicamente la funzione del muftī è stata importantissima perché ha consentito alla dottrina sviluppata nelle scuole giuridiche di farsi prassi, diritto vivente; le compilazioni di fatāwa restituiscono spesso un quadro - più ricco, attuale e preciso di quanto non facciano le sentenze, che non erano motivate - del diritto effettivamente applicato, e sono testi giuridici fondamentali per comprendere lo spirito e la sostanza del diritto musulmano. 

 

2. Il testo della fatwā contro Salman Rushdie

«In the name of God,
We are from God and to God we shall return:
I am informing all brave Muslims of the world that the author of The Satanic Verses, a text written, edited, and published against Islam, the Prophet of Islam, and the Qu’ran, along with all the editors and publishers aware of its contents, are condemned to death. I call on all valiant Muslims wherever they may be in the world to kill them without delay, so that no one will dare insult the sacred beliefs of Muslims henceforth. Whoever is killed in this cause will be a martyr, God Willing. Meanwhile if someone has access to the author of the book but is incapable of carrying out the execution, he should inform the people so that [Rushdie] is punished for his actions.
May peace and blessings of Allah be upon you,

Ruhollah Al-Musavi al-Khomeini»

Questa è la traduzione inglese non letterale, pubblicata insieme al testo originale persiano sul sito Iran Data Portal[6], della celeberrima fatwā che l’ayatollah Khomeini pronunciò a Radio Teheran il 14 febbraio 1989, così autorizzando l’omicidio «da parte di tutti gli zelanti musulmani ovunque nel mondo» di Salman Rushdie e degli editori del suo volume I versi satanici[7]. La fatwā non è mai stata ritirata da Khomeini né messa in discussione da altre autorità religiose iraniane dopo la morte dell’Ayatollah. Al contrario, è stata confermata nel 2005 e poi ancora nel suo trentennale dall’attuale Guida suprema (rahbarī), Ayatollah Ali Khamenei[8]; è ancora valida anche la taglia di 3 milioni di dollari posta sulla testa di Rushdie dalla 15 Khordad Foundation, fondazione religiosa sotto il controllo della Guida suprema.

Sulla vicenda della fatwā contro Salman Rushdie si sono confrontati storici, politologi, islamologi, giuristi; si è discusso di libertà di espressione, libertà di critica religiosa, libertà di religione, sono state valutate le conseguenze della fatwā sul piano delle relazioni Occidente-Islam e si è dibattuto su quale dovesse essere l’atteggiamento delle comunità musulmane in Europa, strette tra la necessità di obbedire alle regole del Paese di residenza e la volontà di tutelare la propria identità religiosa contro le minacce derivanti dall’assimilazione culturale e dalla critica al modello religioso islamico. 

Qui si intende, più modestamente, fare il punto su alcuni aspetti contenutistici del testo a partire da una domanda: la fatwā di Khomeini contro Salman Rushdie è, tecnicamente, una fatwā? Certo gliene manca la forma, e non perché sia stata rilasciata oralmente, cosa sempre possibile, ma perché priva della struttura classica domanda-risposta che tra l’altro caratterizza le moltissime fatāwa emanate nel tempo da Khomeini. 

 

3. I soggetti della fatwā 

La prima questione che viene in rilievo osservando il contenuto del testo è che la fatwā non chiama per nome i destinatarii della condanna a morte, identificati solo come l’autore del libro I versi satanici, e come gli editori (nāšerin) al corrente del contenuto (mottalaʿ az moxtavā-ye ān). 

Se l’autore rimane facilmente identificabile, e infatti non ci sono dubbi che si tratti di Salman Rushdie, la questione dei nāšerin è più complessa. Che significa «al corrente del contenuto»? Ovviamente chi traduce il libro e chi lo pubblica sanno di cosa parla il testo. Sanno, però, anche che quel libro può offendere i sentimenti di qualcuno? È ragionevole attendersi, da soggetti che traducono romanzi (I versi satanici non è un saggio di critica coranica o un testo di filosofia, è un romanzo in lingua inglese espressione della corrente del cosiddetto realismo magico come altre opere dell’Autore) che riconoscano il potenziale offensivo per l’altrui sensibilità religiosa (ma di chi poi? Di tutti i musulmani del mondo? Dei vertici delle accademie giuridiche islamiche? Dei capi di stato e di governo? E se uno solo di questi soggetti non ritenesse l’opera offensiva, come si dovrebbe regolare l’editore?) dell’opera a cui stanno lavorando se non hanno competenze, e anche di alto livello, in tema di religione e diritto islamico? Si tratta di un problema enorme, perché rinvia alla questione della responsabilità dell’editore per i contenuti che pubblica: portato all’estrema conseguenza, questo tipo di ragionamento può implicare che ogni volta che in un testo in corso di stampa si accenna alla religione islamica, quello stesso testo vada o censurato e quindi non pubblicato per evitare problemi di sorta, o sottoposto al preventivo parere di un’autorità religiosa islamica (ma quale poi?) che rilascerebbe o meno l’imprimatur in barba alla libertà di opinione e alla libertà di stampa che sono riconosciute in un buon numero di Paesi. Quanto sia specioso l’argomento della conoscenza da parte degli editori del contenuto (presunto) blasfemo del lavoro di Rushdie si evince anche dal fatto che il libro fu pubblicato a settembre del 1988 e venne recensito dalla stampa iraniana a novembre; le critiche furono severe, ma verterono sulla qualità del romanzo e non sul suo carattere blasfemo. Fu solo dopo la pubblicazione sul mercato americano nel febbraio 1989 che esplose la crisi[9], facendo così dubitare molti degli analisti della vicenda che il caso Rushdie fosse meramente pretestuoso, e funzionale a inasprire l’ostilità già ben radicata tra le autorità statunitensi e iraniane. 

Tornando alla questione dell’identificazione dei soggetti da uccidere emerge un altro non secondario problema. A chi si sta riferendo esattamente Khomeni quando parla di nāšerin? Il termine persiano letteralmente significa editori; nella traduzione inglese che ho citato in apertura vengono indicati gli editors (curatori, redattori) e i publishers (editori). Khomeini rilasciò la fatwā alla radio in persiano, lingua che oggi è parlata da circa 77 milioni di persone (iraniani, afghani di lingua dari, tagiki e uzbeki) su un miliardo e mezzo di musulmani; è chiaro che la fatwā ha circolato nel mondo in altre lingue oltre al persiano e le traduzioni più o meno accurate possono aver involontariamente concorso a generare l’idea che chiunque fosse coinvolto a qualsiasi titolo nella pubblicazione del libro fosse un destinatario della fatwā[10]

 

4. Il reato ascritto

II secondo non irrilevante problema posto dalla fatwā è che non è chiaro di quale colpa si siano macchiati Salman Rushdie e i nāšerin

La fatwā fa riferimento a un libro contro l’islam, il profeta e il Corano (ketāb ke ʿaleih-e islām va payāmbar va qur’ān tanẓim šode ast) i cui autore ed editori devono essere uccisi. Che reato hanno commesso per meritare questa sorte? Chiaramente un reato contro la religione, ma quale: bestemmia (sabb) o apostasia (ertedād)? La questione è interessante anche perché il reato di bestemmia (sabb) è disciplinato dal codice penale iraniano mentre quello di apostasia non lo è, almeno non esplicitamente. Esso rientra, però, nella previsione dell’art. 220 c.p. ai sensi del quale «ai reati ḥudūd[11] non disciplinati in questo codice si applicano le disposizioni dell’art. 167 della costituzione» il quale a sua volta stabilisce che «il giudice ha il dovere di compiere ogni tentativo per individuare nelle leggi codificate (qavānin-e modavvane) le norme applicabili a ciascuna controversia. Qualora ciò non sia possibile, egli emette la sentenza più opportuna in riferimento a fonti islamiche degne di fede (manābeʿ moʿtabar-e eslāmī) o a precedenti sentenze (ḥokm-e qaziye) e pareri ufficiali emessi da autorità religiose riconosciute (fatāwa-ye moʿtabar). Il giudice non può rifiutarsi di indagare nel merito di alcuna controversia né astenersi dall’emettere la relativa sentenza adducendo a pretesto il silenzio in proposito delle leggi codificate, o loro ambiguità, deficienze o lacune»[12]. Non è chiaro perché il legislatore iraniano abbia scelto di non inserire nel codice penale la disciplina dell’apostasia; la conseguenza di questo silenzio è che non è dato sapere, a priori, quali condotta rischi di configurare il reato e si ha, quindi, una violazione del principio di legalità, a meno di ritenere universalmente noto (e in effetti nei Paesi islamici lo è) che il musulmano non può abbandonare la sua religione se non a rischio della propria vita. 

Come detto, la fatwā non cita esplicitamente il reato commesso; negli anni successivi, però, un opuscolo pubblicato dalla Rappresentanza iraniana presso le Nazioni Unite e lo stesso ambasciatore iraniano all’ONU confermarono che l’accusa nei confronti di Salman Rushdie era di apostasia[13]. Che cos’è, allora, l’apostasia? Molto semplicemente, è l’allontanamento dalla religione dell’islam (al-ruǧūʿ ʿan dīn al-islām) o la recisione del legame con l’islam (qaṭʿ al-islām); con le parole del giurista malichita Ḫalīl ibn Isḥāq (m. 1365) l’apostasia «è l’atto del musulmano che rinnega la fede sia esplicitamente sia in modo implicito, con parole o atti inequivoci»[14]. Salman Rushdie sarebbe un apostata perché, con il suo libro ritenuto offensivo dell’islam, del profeta e del Corano avrebbe dimostrato di aver abbandonato la religione islamica nella quale è nato. Se i sunniti ammettono che all’apostata venga concesso un termine di tre giorni per pentirsi, la dottrina sciita è più severa e riconosce tale possibilità solo per coloro che, nati in un’altra religione, si siano convertiti all’islam salvo poi abbandonarlo. Questa rilevante differenza di impostazione solleva il problema di come dovrebbe regolarsi il musulmano sunnita nel caso Rushdie: obbedire ciecamente alla fatwā di Khomeini e al diritto sciita, o attenersi alla regola sunnita che concede il tempo del pentimento e quindi, nel caso, affrontare l’ulteriore onere di catturare l’apostata, tenerlo segregato, chiedergli se intende pentirsi e solo in caso di risposta negativa ucciderlo (tutte attività, queste, che non competono all’individuo ma solo allo Stato, tanto nel diritto classico quanto, a maggior ragione, nel diritto degli Stati contemporanei)?

L’apostasia ha anche la caratteristica di poter essere considerata un reato solo se commessa da un musulmano: in altri termini, un editore inglese, o italiano o giapponese che non sia anche di religione musulmana non potrebbe aver commesso lo stesso reato che ha commesso Salman Rushdie ed essere ucciso per questo. Quindi delle due l’una: o stiamo parlando di apostasia e allora Khomeini nella fatwā ha dato per scontato che si capisse che il riferimento era ai soli editori musulmani (e i fatti hanno dimostrato che non si deve dare mai nulla per scontato perché traduttori ed editori feriti e uccisi non lo erano), o il reato per il quale ha ordinato la condanna a morte non è l’apostasia. 

Diciamo allora che si tratta di bestemmia (sabb). Dal punto di vista dell’applicazione della fatwā la bestemmia (sabb) ha il "vantaggio" di essere un reato punito con la condanna a morte (e senza che sia prevista la concessione del tempo del pentimento neanche dai sunniti) a prescindere dal fatto che a commetterlo sia stato un musulmano o un infedele. 

Il reato è disciplinato dagli articoli 262 e 263 del codice penale iraniano. Ai sensi del primo, costituisce sabb al-nabī (bestemmia del profeta) calunniare (qaẕf konad) o maledire (došnām dahad) il profeta dell’islam o uno dei grandi profeti di Dio; il fatto è punito con la pena di morte (eʿdām). La nota esplicativa precisa che anche la calunnia e la maledizione dei dodici imam sciiti e di Fatima[15] costituiscono sabb al- nabī. L’art. 263 afferma che se l'imputato di blasfemia (sabb) sostiene che le sue dichiarazioni sono state frutto di coercizione o errore, o sono state pronunciate in uno stato di confusione, o di rabbia o per un lapsus, o senza prestare attenzione al significato delle parole o citando parole altrui, egli non sarà colpevole di sabb al- nabī. La nota esplicativa precisa, però, che se il reato è stato commesso in stato di ubriachezza o rabbia o citando qualcuno, il reo sarà punito con un massimo di settantaquattro frustate. La norma dell’art. 262 c.p. non è chiarissima, la condotta di sabb è delineata solo da due verbi, ma il giudice può anche in questo caso fare riferimento al già citato art. 167 Cost. e quindi utilizzare dottrina e giurisprudenza consolidate al fine di individuare con chiarezza i contorni della fattispecie incriminante. 

Quanto all’elemento psicologico, l’art. 262 c.p. non richiede il dolo (nello stesso senso si orienta, ad esempio, la cosiddetta blasphemy law pakistana all’art. 295 C del codice penale) e quindi basta la bestemmia per se a giustificare la condanna a morte. 

 

5. Chi deve attuare la fatwā?

«Porto a conoscenza di ogni zelante (ġayūr) musulmano, ovunque nel mondo (sarāsar ǧahān) che sono condannati a morte […]». Lo zelante musulmano che perda la vita nell’eseguire la condanna a morte ordinata da Khomeini «sarà considerato un martire (šahid)», termine che rimanda a coloro che combattono la guerra santa. 

La domanda che ci si può porre qui è se Khomeini avesse l’autorità di indirizzarsi a ogni musulmano ovunque nel mondo. In altri termini: un’autorità sciita può emanare un ordine che giustifica una particolare condotta (in questo caso: uno o più omicidi) anche se commessa da un musulmano sunnita? Le comunità sunnite e sciita sono, dal punto di vista legale, autonome e indipendenti, assai difficilmente un musulmano sunnita nella vita ordinaria si fa influenzare dalla dottrina sciita e viceversa e del resto non poche sono state le voci nel mondo islamico che hanno contestato il modo di procedere di Khomeini e la sua pretesa di parlare a nome e per conto di tutti i musulmani. Gli autori delle aggressioni avvenute in Italia, Giappone, Norvegia non sono mai stati catturati e dunque non c’è modo di sapere se fossero sunniti o sciiti. L’attentatore del 12 agosto 2022 è un americano di origini libanesi che avrebbe simpatie per gli hezbollah sciiti; al momento in cui concludo queste riflessioni non è noto se intenda usare la fatwā di Khomeini come possibile spiegazione (certo non giustificazione, almeno nei tribunali statunitensi) del suo gesto.

La fatwā, inoltre, invita coloro che hanno notizia di dove sia «l’autore del libro», ma che non hanno la forza di ucciderlo, ad avvisare altri affinché egli (Salman Rushdie) sia punito per le sue azioni. Cercare e punire Rushdie è un compito che impegna tutta la comunità sia pure in modo diverso secondo le capacità di ognuno, e che può essere ritenuto espressione di un principio cardine della religione islamica: agevolare il bene e impedire il male (al-amr bi-l maʿrūf wa-l-nahy ʿan al-munkar), dove il male è evidentemente l’offesa all’islam contenuta nel romanzo I versi satanici.

 

6. Condanna a morte senza processo

«Chiedo ai musulmani zelanti di trovarli [l’autore del libro e i nāšerin] e ucciderli rapidamente (sariaʿan) così che nessun altro osi offendere le cose sacre (moqaddasāt) dell’islam». Un organo di vertice della Repubblica iraniana ordina la morte di individui nemmeno correttamente identificati e senza formulare un preciso capo di accusa, senza processo, senza riconoscere il diritto di difesa. Che valore ha un ordine di questo tipo? 

In Iran, la fatwā può essere considerata come un ordine proveniente dal vertice politico e religioso dello Stato nella sua funzione di rahbarī (Guida suprema, la cui funzione è disciplinata dagli art. 107-112 Cost.). Chi le dia attuazione può far valere a propria discolpa l’art. 158 c.p. che giustifica la condotta commessa in esecuzione di un ordine legale. Nell’ipotesi che l’ordine non fosse ritenuto valido, cosa assai improbabile vista l’autorità da cui promana, l’imputato potrebbe giovarsi dell’art. 302 comma A c.p. in materia di omicidio, il quale stabilisce che - se la persona assassinata aveva a sua volta commesso un reato passibile di pena capitale (come, appunto, l’apostasia o la bestemmia) - al reo non è applicabile il taglione (qiṣāṣ) o il prezzo del sangue (diye), ma la sanzione taʿzir determinata dal quinto libro del codice penale[16].

Dato che Salman Rushdie si è ben guardato dal visitare l’Iran dopo il 14 febbraio 1989 e dato altresì che gli editori iraniani non hanno mai pubblicato il volume incriminato, il problema della validità della fatwā si pone essenzialmente rispetto al fatto commesso all’estero. Al di fuori del territorio iraniano, però, la fatwā di Khomeini non ha alcun valore, nel senso che in nessun modo si può giustificare davanti a un tribunale nazionale il fatto di aver tolto la vita a qualcuno perché si stava eseguendo un ordine emanato da un’autorità straniera. Il concetto di ordine legittimo implica innanzitutto che sia riconosciuta l’autorità da cui questo promana. Khomeini era certamente un’autorità, ma nel suo Paese. Si potrebbe obiettare che la fatwā, essendo stata emanata da un’autorità religiosa islamica, abbia natura confessionale ed extraterritoriale, diretta ai musulmani in quanto tali e ovunque si trovino (e questa è infatti l’impostazione concettuale seguita da Khomeini). La realtà, però, è che la natura extraterritoriale del diritto musulmano è venuta meno con la formazione degli Stati nazionali e la frammentazione della Umma islamica in una moltitudine di compagini statali, così come è venuta meno anche la figura che teoricamente avrebbe potuto vantare il diritto di rappresentare gli interessi di tutti i musulmani, cioè il califfo. In aggiunta, si ricordi che Khomeini era sì autorità religiosa, ma anche e soprattutto un’autorità politica iraniana, sicché ammettere l’efficacia automatica nel proprio ordinamento di un atto proveniente da un’autorità politica straniera significherebbe per lo Stato mettere gravemente in discussione il principio di sovranità. 

 


 
[1] E. Tyan, s.v. «fatwā», in Encyclopédie de l’Is­lam 2, Vol. II, 1965, p. 866.

[2] Poiché il muftī di solito è un soggetto privato, cui ci si rivolge in virtù delle sue conoscenze della legge islamica, non valgono per lui alcune restrizioni previste invece per chi voglia assumere la veste di qāḍī, giudice competente ad applicare la šarīʿa. Infatti, mentre quest’ultimo doveva necessariamente essere di sesso maschile, nel caso del muftī la dottrina si apre alla possibilità che anche le donne possano svolgere questa funzione (così, ad esempio, il giurista shafiita al-Nawawī (m. 1278) ammetteva che oltre alle donne potessero essere muftī anche uno schiavo, o un cieco, o un muto, purché dotati di mente chiara e della capacità di rendere un parere giuridico).

[3] Nello sciismo l'autorità di emettere una fatwā è generalmente limitata al muǧtahid; quando questi sia anche un marǧaʿ-e taqlid (lett.: fonte di imitazione, massima qualifica conseguibile da un ayatollah) seguire il parere espresso nella fatwā è obbligatorio per coloro che l’abbiano sollecitata. H. Algar, Fatwa, in Encyclopedia Iranica, Vol. IX, Fasc. 4, pp. 428-436 https://www.iranicaonline.org/articles/fatwa

[4] S.A. Abu Sahlieh, Il diritto islamico. Fondamenti, fonti, istituzioni, Roma, Carocci, 2008, p. 238.

[5] La cosa non deve stupire. Per moltissimo tempo il giudice è stato un semplice delegato del califfo, scelto più per la fedeltà politica che per le competenze giuridiche; non sorprende quindi che fosse vivamente raccomandato che i giudici muqallid consultassero dei muǧtahid nei casi di particolare complessità, rispetto ai quali era difficile se non impossibile trovare una soluzione nella dottrina della scuola. Santillana illustra il rapporto tra i due soggetti scrivendo che «gli uni hanno per ufficio di dichiarar la Legge, sono interpreti tecnici, e questi sono i “muftī” (prudentes); altri l’applicano e la fanno osservare, le danno effetto obbligatorio nei casi particolari, e questi sono i “qāḍī” […] il “qāḍī”, come il “muftī”, è l’interprete della legge divina; però, a differenza del “muftī”, non ha il compito di dichiararla, ma di applicarne i precetti nelle materie temporali»; D. Santillana, Istituzioni di diritto musulmano malichita con riguardo anche al sistema sciafiita, Vol. II, Roma, Istituto per l’Oriente, 1938, p. 559.

[6] È un portale curato dalla Syracuse University; https://irandataportal.syr.edu/fatwa-against-salman-rushdie  

[7] Il libro uscì in inglese nel Regno Unito per la Viking di Londra nel 1988 con il titolo The Satanic Verses. Il volume fu immediatamente bandito in India, Pakistan, Bangladesh, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Qatar, Somalia, Sud Africa, Malesia e Indonesia e venne criticato per i suoi contenuti offensivi anche dall’Arcivescovo di Canterbury, dal Vaticano e dal rabbino capo della comunità askenazita israeliana. Cfr. M. M. Slaughter, The Salman Rushdie Affair: Apostasy, Honor, and Freedom of Speech, in Virginia Law Review, Vol. 79, No. 1 (1993), pp. 153-204, pp. 157-8. In Italia è stato pubblicato in I edizione nel 1994 con la traduzione di Ettore Capriolo per Arnoldo Mondadori Editore.

[8] P. Webster, B. Hoyle, R. Navai, Ayatollah revives the death fatwa on Salman Rushdie, in The Times, London 20 January 2005 (http://www.timesonline.co.uk/tol/news/uk/article414681.ece); Iran adamant over Rushdie fatwa, BBC News, 12 February 2005 (http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/4260599.stm); Ali Khamenei, messaggio Twitter 14 febbraio 2019, 10.33 A.M. «Imam Khomeini’s verdict regarding Salman Rushdie is based on divine verses and just like divine verses it is solid and irrevocable», https://twitter.com/khamenei_ir

[9] B. Lewis, Behind the Rushdie Affair, in The American Scholar, Vol. 60, No. 2 (Spring 1991), pp. 185-196.

[10] A parte Salman Rushdie, più volte sfuggito ad attentati sino all’agosto scorso, sono stati vittime di aggressione l’editore norvegese William Nygaard, e i traduttori italiano Ettore Capriolo e giapponese Hitoshi Igarashi, che ha perso la vita. Non sto sostenendo che questi fatti siano colpa dei traduttori della fatwā, anche perché non conoscendo gli autori materiali di nessuno di questi attentati non è dato nemmeno sapere se l’abbiano letta o ascoltata (e in quale lingua) o se abbiano agito spinti da un proprio personale convincimento. Certo è, però, che all’ambiguità contenutistica della versione originale non giova il tentativo di chiarirne il contenuto tramite interpolazioni.

[11] Il diritto penale islamico conosce la categoria dei reati ḥudūd (lett.: limiti), reati disciplinati dal Corano e relativi a condotte che violano i limiti posti da Dio alla libertà dell’uomo. La dottrina islamica è unanime nel considerare reati ḥudūd il furto (sariqa), il brigantaggio (ḥirāba), i rapporti sessuali illeciti (zināʾ), la calunnia di adulterio (qaḏf) e il consumo di bevande alcoliche (širb). Meno condivisa è la qualificazione come reati ḥudūd dell’apostasia (irtidād) e della ribellione (baġy), che si trovano talvolta inquadrati e regolati nella parte dei trattati giuridici che disciplina la gestione della cosa pubblica. Sul diritto penale dei Paesi islamici mi permetto di rinviare al mio L’islam, il reato, la pena. Dal fiqh alla codificazione del diritto penale, Roma, Istituto per l’Oriente, 2018.

[12] La traduzione italiana della costituzione iraniana qui citata è a cura di ALHODA International Publication & Distribution, con sede a Teheran, 2010.

[13] Cfr. A. Chase, Legal Guardians: Islamic Law, International Law, Human Rights Law, and the Salman Rushdie Affair, in American University International Law Review, vol. 11, n. 3, 1996, pp. 375-435, p. 398-9.

[14] Ḫalīl ibn Isḥāq, Il Muḫtaṣar o sommario del diritto malechita, traduzione italiana di D. Santillana, Vol. II (Diritto civile, penale e giudiziario), Milano, Hoepli, 1919, p. 704.

[15] L’islam sciita è noto come duodecimano o dei dodici imām, cioè i discendenti del profeta attraverso il matrimonio tra la figlia del profeta Fatima e il di lui cugino ʿAlī. Per una prima introduzione sullo sciismo, vd A. Vanzan, Gli sciiti. Storia, cultura e attualità dell’altro islam, Bologna, Il Mulino, 2008.

[16] Cioè la reclusione da 3 a 10 anni. Il diritto penale iraniano è il risultato della convivenza di due insiemi di norme: da un lato le regole islamiche in materia di reati di sangue e reati ḥudūd, contenute nei primi 4 libri del codice penale; dall’altro, la disciplina statale dei reati non coranici e le regole applicabili ai reati coranici quando questi manchino di qualche elemento necessario affinché la fattispecie possa considerarsi perfetta dal punto di vista sciaraitico e dare luogo alla relativa sanzione. Questi reati sono collettivamente noti come taʿzir (termine che rimanda al potere discrezionale del giudice) e sono disciplinati dal quinto libro del codice penale entrato in vigore nel 1996. 

03/11/2022
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Iran: una rivoluzione contro il governo di Dio?

I regimi che pretendono di legittimarsi e di governare in nome di un Dio sono i più oppressivi di tutti perché aspirano a disciplinare ogni aspetto della vita, penetrando la politica, il diritto, il costume, la dimensione privata. 
Perciò la rivolta contro l’oppressione può assumere come sua prima forma la rivendicazione di libertà elementari negate nella sfera individuale e sociale – la scelta dell’abbigliamento, il ballo, il canto, l’affettività, la vita di relazione – scontrandosi frontalmente con steccati e divieti come l’apartheid femminile e con le enormi diseguaglianze attuate e perpetuate in nome della religione. 
E’ quanto sta oggi accadendo in Iran, attraversato da un potente moto di ribellione popolare al totalitarismo teocratico dominante nel Paese. 
Un movimento di giovani - spontaneo e diffuso e perciò difficile da decapitare con gli arresti, in larga misura non violento ma radicale perché mira al cuore della Repubblica islamica - sta dando vita ad una protesta rivoluzionaria. Lo fa sotto lo sguardo disattento e distratto dell’Occidente liberale e democratico e nel silenzio delle destre mentre in Italia la stordita e frammentata congerie di forze che sta all’opposizione o tace - con la sola eccezione dei radicali- o si esprime con voce flebile, mostrandosi incapace di incisiva solidarietà e di effettivo sostegno alla lotta di emancipazione e di liberazione in corso in Iran. 

La piena libertà per le diverse fedi e sensibilità religiose garantita negli Stati democratici di diritto deve accompagnarsi, in Europa e nel mondo, al radicale contrasto di ogni forma di fanatismo, di intolleranza, di terrorismo e di repressione posti in essere invocando pretestuosamente la religione islamica o qualsiasi altra fede o guerra santa. Quando gli studenti iraniani gridano contro i guardiani della rivoluzione: «voi siete il nostro Isis» colgono il nesso che corre tra la violenza terrorista in Europa e in Oriente e l’oppressione interna esercitata da un regime teocratico. 

31/10/2022
Le rivendicazioni delle donne e le proteste in Iran: le radici femminili della rivolta

Quando Anna Karenina entra in scena, nel romanzo, «dei piccoli anelli di riccioli neri le scappavano fuori sulla nuca e sulle tempie». Analogo gesto, un capello fuori posto, pochi giorni fa in Iran è costato la vita alla ventiduenne Masha Amini, arrestata e uccisa dalla “polizia morale” perché indossava il velo in maniera inappropriata. È stata la scintilla perché in Iran – protagoniste le donne sotto lo slogan “Woman Life Freedom” – divampasse una protesta che non accenna a smettere e che sta ponendo le basi di una rivolta per ottenere un Iran democratico.
Per raccontare i fatti, inquadrarli nella storia iraniana e nelle complesse tematiche del femminismo islamico, dell’esegesi patriarcale del Corano e dei movimenti di rivolta iraniani, descrivere l’obbrobrio della “polizia morale”, Questione Giustizia ha atteso di poter dare la parola alle donne iraniane. 

05/10/2022
La “kafalah” negoziale e l’uso interculturale del diritto. Nota a Cass. 11.11.2020, n. 25310

Con la sentenza in rassegna la Suprema Corte cassa la decisione dei Giudici di merito che – accogliendo la domanda di ricongiungimento familiare formulata da un cittadino pakistano nei confronti del fratello minore, a lui affidato dalla madre sulla base di una convenzione privata – hanno omesso il riferimento all’istituto della kafalah.

18/12/2020
La Cassazione e il ripudio (ṭalāq) palestinese. Considerazioni a partire dal diritto islamico

Il ripudio presenta profili che sfidano l’ordinamento italiano quando si tratta di riconoscerne gli effetti giuridici nell’ordinamento italiano a causa del potere unilaterale del marito nella gestione della vita famigliare e nello scioglimento del matrimonio. Il conflitto con il principio costituzionale di uguaglianza.

04/12/2020
Ripudi islamici, divorzi privati e ordine pubblico: quale efficacia

La rilevanza degli atti esteri di scioglimento del matrimonio è oggetto di rinnovata attenzione giurisprudenziale con particolare riguardo agli stranieri residenti in Italia. Diverse sono le declinazioni di ordine pubblico con riferimento alle garanzie sostanziali e processuali implicate

04/12/2020