Anche con poche parole scritte sul retro di una cartolina, Michel Foucalt scolpisce metafore potenti: «Ecco com’è la città in cui sono nato: santi decapitati, con il libro in mano, vegliano a che la giustizia sia giusta»[1]. Mettiamo pure da parte le scie di pensiero che quelle statue acefale impressero nella mente del futuro autore di Sorvegliare e punire e concentriamoci sul presente. Una giustizia davvero capace di tutelare la dignità e i diritti fondamentali delle persone con le quali ha a che fare – sia che siedano dalla parte della colpa sia che sposino la virtù: solo con questa parità di trattamento inizia a definirsi “giusta” – può essere garantita da autorità acriticamente chine sui libri dei codici, prive di testa e occhi per guardare la realtà?
È questo l’interrogativo che la metafora suscita e che si ripropone con forza ogni qual volta il “sistema giustizia” perde un po’ del suo sguardo autonomo, libero, indipendente. Capita, ad esempio, con la riforma dell’ordinamento giudiziario in discussione in questi giorni al Senato, che mira a far gravitare i magistrati nell’orbita della politica.
Oggi, tuttavia, un teso grido di allarme si deve levare per un’istituzione che abbiamo man mano conosciuto come un pezzo essenziale della democrazia di quest’epoca: il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.
Mettiamo in fila un po’ di fatti, a cominciare da un’intervista che ha il merito di allertare anche l’opinione pubblica[2]. Lo scorso 5 luglio, uno dei tre componenti del collegio del Garante, a una domanda che parte dall’impressione che dietro alcune decisioni dell’istituzione vi «siano motivi politici», per poi argomentare sul fatto che il Garante dovrebbe essere un’istituzione indipendente, risponde con una frase secca: «In tutta sincerità no». Non siamo nella testa del giornalista e dell’intervistato e non possiamo non porci domande: in fondo, l’informazione seria serve anche a partorire dubbi. A cosa si riferisce quel “no”? Alla circostanza che alcune scelte del Garante siano determinate da finalità politiche o al fatto che questa gestione dell’autorità di garanzia, in questo momento storico e politico, non sia munita del sufficiente grado di indipendenza dalla maggioranza di governo?
Conviene tralasciare le congetture. Più utile soffermarsi sul coraggio con cui la conversazione mette a nudo alcune questione spinose, la prima delle quali attiene all’inerzia mantenuta dal Garante sulla prima struttura extraterritoriale di trattenimento per stranieri costruita dall’Italia. Si tratta, come noto, del centro di Gjadër, nell’entroterra albanese, attivo da ottobre 2024 e nel quale, ad aprile 2025, sono stati (de)portati dall’Italia i primi quaranta migranti.
Sorprende che il Garante per la difesa dei diritti delle persone private della libertà personale non abbia espresso alcun parere sul trasferimento dei migranti, né abbia effettuato alcuna visita ispettiva in quei centri dove solo quell’autorità, in sintonia con la sua missione istituzionale, può entrare e posare lo sguardo. Eravamo abituati, fino a tutto il 2023, a un’istituzione in grado di monitorare con attenzione non solo i Centri per il Rimpatrio, ma anche le stesse operazioni di rimpatrio, seguendo le fasi di partenza in aeroporto e salendo a bordo dei voli charter noleggiati dal Ministero dell’Interno. Grazie a quel lavoro prezioso, posto in essere in ossequio alla Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite e alla Direttiva 115/CE/2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio, abbiamo imparato che un’operazione delicata come il rimpatrio non è disciplinata dalla legge, ma solo da circolari del Ministero dell’Interno e che ad essere messa a repentaglio, spesse volte, è anche la salute di persone affette da patologie importanti, esposte alla totale perdita di continuità terapeutica nei Paesi di destinazione. L’acquisizione di questi saperi è stata possibile perché il Garante, per come strutturato, è l’unica autorità nazionale che può seguire tutte le fasi del rimpatrio senza essere coinvolta politicamente nell’organizzazione dello stesso. Proprio ora che si sente il bisogno dell’azione conoscitiva offerta da quella mancanza di coinvolgimento, in relazione a centri extraterritoriali che rischiano di diventare più opachi di quelli nazionali, dal Garante arrivano solo angoscianti silenzi.
Altri motivi di preoccupazione, poi, si aggiungono.
Ai primi di giugno 2025, l’avvocato Michele Passione, che dal 2016 ha assistito il Garante quale parte civile nei più importanti procedimenti riguardanti episodi di maltrattamenti o torture da parte delle Forze di polizia nei luoghi di detenzione (Santa Maria Capua Vetere, San Gimignano, Firenze-Sollicciano, Verona e altri), ha rinunciato al proprio mandato, chiedendo anche la cancellazione dall’Elenco degli esperti e consulenti a titolo gratuito del Garante. Al gesto dell’avvocato Passione si sono aggiunti quelli, analoghi, di altri avvocati e collaboratori storici.
Cosa disvelano queste rinunce? Le parole di Michele Passione, riportate dalla stampa[3], sono nette e taglienti: il motivo è costituito dall’impossibilità, con la presente gestione dell’autorità, di portare avanti in maniera efficace il proprio mandato, che a volte sembra addirittura essere ostacolato: mancate risposte, omessa interlocuzione, scarsa circolazione di saperi processuali, nomine intempestive e come tali inidonee ad assicurare la presenza della difesa tecnica in momenti centrali dei procedimenti (soprattutto incidenti probatori). Più al fondo, un’abdicazione dell’istituzione ad assolvere fino in fondo alla propria missione: niente più visite a sorpresa, in grado di prevenire l’attitudine del carcere e dei centri di detenzione a “farsi belli” quando vengono avvisati dell’approssimarsi di un’ispezione; monitoraggi sbilanciati sulle sole informazioni raccolte nei colloqui con esponenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria; niente più relazioni annuali al Parlamento.
Su quest’ultimo punto occorre soffermarsi. L’ultima relazione al Parlamento risale, ormai, a oltre due anni fa, giugno 2023, e a presentarla fu il collegio composto da Mauro Palma, Daniela De Robert, Emilia Rossi. Poi più nulla, anche qui solo silenzio, nonostante l’obbligo legislativo. Eppure, stiamo parlando di un documento strategico, fondamentale per rivelare l’attività effettivamente svolta dall’istituzione, per comprendere le reali dimensioni della ‘questione detentiva’ in tutti i suoi drammatici aspetti, per fornire alla politica e agli operatori le basi conoscitive per possibili linee di intervento. La relazione è la fotografia che solo un occhio vigile e indipendente può scattare. Se manca quell’occhio, si perde la conoscenza.
Sempre a proposito di ragioni di allarme, bisogna dire che i rischi per l’indipendenza dell’istituzione erano stati segnalati anche in occasione della nomina, a ottobre 2024, del presidente del collegio, Riccardo Tuttini Vita, scelto tra le fila di quella Amministrazione Penitenziaria sulla quale il Garante è chiamato a svolgere la sua funzione di controllo. A venire all’attenzione non era l’idoneità soggettiva della persona individuata, ma l’opportunità di una selezione che pareva porsi in contrasto con la stessa legge istitutiva, la quale precisa che i componenti del collegio del Garante devono essere scelti tra persone non dipendenti delle pubbliche amministrazioni (art. 7 dl 146 del 2013). Come hanno scritto alcune associazioni (Antigone e Magistratura democratica tra queste), il controllato non può essere chiamato a fare il controllore. Il problema delle garanzie correlate al meccanismo di nomina, in questo frangente storico, non sembra porsi soltanto in riferimento al Garante dei diritti delle persone private delle libertà personale. A dicembre 2024, i Presidenti di Camera e Senato hanno provveduto alla nomina dei componenti dell’Autorità garante dei diritti delle persone con disabilità, indicando quale presidente Maurizio Borgo, che, fino al momento della nomina, era stato capo di gabinetto del ministro per le disabilità.
Messe insieme le vicende che destano una certa apprensione per l’indipendenza del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, si auspica che l’attività dell’istituzione, nel suo futuro, sappia rassicurare sulla propria autonomia.
L’allarme che questa nota intende sollevare non riguarda le competenze e le conoscenze delle persone chiamate di volta in volta a ricoprire gli incarichi di presidente e componente del collegio, ma una tenuta sistematica generale dell’istituzione come tale. L’autonomia dalla politica, prerequisito di una reale indipendenza, è decisiva per quella tenuta. Parliamo di un’istituzione alla quale la legge affida il compito di vigilare sulla custodia delle persone private della libertà personale, sia che la privazione sia disposta con provvedimenti dell’autorità giudiziaria o amministrativa sia che si tratti di privazione di fatto, attuata in qualunque luogo. La medesima legge individua nel Garante anche il Meccanismo nazionale di prevenzione della tortura (National Preventive Mechanism) nell’ambito del Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
In un lessico più comprensibile di quello della legge, possiamo dire che il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è quell’organismo creato per stare, letteralmente, “nel mezzo” tra il più terribile potere dello Stato, quello di punire e rinchiudere, e i corpi delle persone ristrette. Un’autorità chiamata, per missione, a mettersi di traverso ogni volta che il potere statale trasmodi in arbitrio, trattamento inumano, tortura. Un’autorità scudo: fondamentale che sia autonoma e indipendente da tutti i settori del potere statale.
La decisiva importanza di questa istituzione abbiamo imparato a comprenderla strada facendo, a partire dalla sua costituzione. È attraverso le sue relazioni, i suoi rapporti, il suo occhio esteso anche fuori dai confini dal carcere che abbiamo compreso come la perdita della libertà personale, in questi tempi, non sia fenomeno limitato ai luoghi istituzionali (carcere, REMS, CPR e così via), ma coinvolgente tante persone vulnerabili in tanti luoghi diversi, dai c.d. black sites alle Residenze Sanitarie Assistenziali, per finire alle comunità terapeutiche. Come ripete spesso una teologa, Simona Segoloni Ruta, a proposito della clausura femminile, la privazione della libertà non è questione di dove sei ristretto, ma di quello che puoi fare. Sono concetti con i quali il Garante ci ha fatto entrare in confidenza, occupandosi, ad esempio, della detenzione delle tante “fragilità recluse” nei luoghi di cura.
Quanto significativo sia stato l’apporto di questa autorità, nella precedente gestione, è disvelato da fondamentali pronunce della Corte costituzionale. La sentenza 76 del 2025, nel prevedere l’obbligo del giudice tutelare di audire la persona interessata prima di convalidare il trattamento sanitario obbligatorio in degenza ospedaliera, sottolinea «le sollecitazioni espresse in più occasioni dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, volte all’adozione di maggiori cautele nell’applicazione dei trattamenti sanitari coattivi, affinché siano disposti in via residuale e nei soli casi effettivamente previsti dalla legge». Guarda caso, a essere messa esplicitamente in rilievo è proprio la Relazione al Parlamento 2023.
La recentissima sentenza 96 del 2025, pur nell’ambito di una pronuncia di inammissibilità, ritiene che sussista un vulnus di costituzionalità con riferimento alla mancata disciplina per legge dei “casi” e dei “modi” in cui uno straniero può essere trattenuto. Per l’ennesima volta, con questa decisione, si evidenzia che una delle poche tutele degli stranieri ristretti è affidata ai reclami all’autorità Garante dei diritti delle persone private della libertà personale (non soltanto quella nazionale). L’indipendenza del Garante, dunque, ha anche favorito il lavoro dei giudici e delle Corti, fornendo loro quella ‘camera con vista’ sulla carne delle persone, sulla realtà dei fenomeni da decidere. In sostanza, si potrebbe dire che ha reso il diritto migliore.
Non si può dimenticare, poi, che viviamo una contingenza storica in cui le aggressioni alla libertà personale, al diritto a non subire tortura e trattamenti inumani e/o degradanti, persino all’habeas corpus, stanno diventando la cartina di tornasole dei mutamenti della democrazia. Dall’America di Alligator Alcatraz e delle deportazioni attuate con forza nelle strade delle città spira un vento feroce, che alle nostre latitudini trova vele spiegate nelle voci miranti a modificare o abrogare il reato di tortura per concedere mano (più) libera alle forze di Polizia, nonché nelle leggi volte a incrementare i reati e gli anni di detenzione.
Abbiamo, dunque, un essenziale bisogno che il Garante nazionale per i diritti delle persone private delle libertà torni a far sentire la pressione deterrente del suo sguardo libero, a far udire la sua voce indipendente. È bene che la politica e la società civile si facciano carico di questo bisogno, se necessario anche tornando a lavorare sulla legge istitutiva, al fine di rendere più solidi i baluardi dell’autonomia. L’indipendenza del Garante è un punto nevralgico della democrazia di quest’epoca, non possiamo permettere che venga messa in discussione, né che si assottigli nel silenzio generale.
Testa e sguardo dell’istituzione devono rimanere liberi. Di tutto abbiamo necessità, in questa democrazia, tranne che di santi decapitati.
[1] D. Eribon, Michel Foucalt. Il filosofo del secolo. Una biografia, trad. it. Milano, 2021, p. 13.
[2] Mario Serio: “La sentenza della Consulta sui trattenimenti lascia l’amaro in bocca”, Il Manifesto, 5 luglio 2025.
[3] Carceri: si dimette l’avvocato del Garante: “C’è il rischio che le vittime di tortura restino senza giustizia”, ilfattoquotidiano.it, 12 giugno 2025; Il legale del Garante dei detenuti: “Mi sono dimesso e vi spiego perché”, Vita.it; Rivolta nell’ufficio del Garante: “Per i detenuti non fa un bel nulla”, L’Unità, 26 giugno 2025; “Impossibile difendere i detenuti”. Se ne va l’avvocato Passione, Il Manifesto, 14 giugno 2025.