Magistratura democratica
Magistratura e società

Recensione a "La malapena. Sulla crisi della giustizia al tempo dei centri di trattenimento degli stranieri"

di Paola Perrone
già presidente di Sezione della Corte d’appello di Torino

La recensione al volume di Maurizio Veglio, edito da SEB27 (2020)

Parlare di stranieri e migranti, in tempo di pandemia, pare un fuori di luogo; le notizie di arrivi di barconi, di naufragi e di internamento in campi di accoglienza sono state relegate in fondo ai tg nazionali, come si conviene ad argomenti accessori e meno pressanti, sicuramente meno delle notizie sul Covid. 

Leggere un libro come questo di Maurizio Veglio, avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione, ha il pregio di riportarci invece alla centralità di questa materia  per la stessa democrazia del Paese e per lo stato di diritto. Lo ha colto molto bene Emma Bonino che nella sua prefazione ricorda come lo stato di legalità di un Paese si saggia col rispetto rigoroso dei diritti umani e civili delle persone, rispetto qui negato perché  gli immigrati sono ridotti a carne da macello.  

La malapena  si pone in maniera molto laica nei confronti del problema, premettendo subito che non intende offrire risposte semplici alle molte domande complesse che la materia offre E’ un atteggiamento antideologico che porta a costruire la narrazione su due piani: da un lato, lo stato della normativa di settore, sia sul piano sostanziale che in quello ordinamentale; dall’altro, le condizioni di vita dei migranti trattenuti nei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio, ex CIE), circostanze ricostruite attraverso le dirette testimonianze di alcuni protagonisti e la stessa esperienza professionale dell’Autore. 

Trovarsi da stranieri in Italia senza documenti è la condizione che fa scattare facoltativamente il provvedimento con cui la Polizia dispone il trattenimento dell’immigrato in un campo; il trattenimento è ritenuto indispensabile per identificare il Paese d’origine dello straniero e, dunque, procedere al suo rimpatrio

Il provvedimento va convalidato da parte di un Giudice di pace. E già qui, in concreto, nascono i problemi. La discrezionalità della Polizia rende possibili gli abusi: come testimoniato nel libro dal caso di uno straniero proveniente da Paese in stato di guerra, verso cui il rimpatrio è in ogni caso vietato, trattenuto solo «per fargli fare 3 mesi dentro» (durata massima all’epoca della detenzione amministrativa), frase pronunciata a mezza bocca da un ispettore di polizia.  

I Giudici di pace appaiono per lo più accondiscendenti alle richieste della Polizia, se è vero, come il libro attesta, che le convalide e le proroghe della detenzione sono più del 90% delle richieste e sono motivate con formulette tautologiche, palesemente illegittime. 

Ma ciò che colpisce di più nel libro sono le condizioni materiali di internamento nel campo ove tutto manca, dai vestiti, ai servizi sanitari, ai luoghi di socialità; dove tutto è sospeso, nulla si sa dei tempi di permanenza (oggi massimo 6 mesi), non vi sono canali di comunicazione fra internati e autorità (bisogna gridare a squarciagola per intercettare qualche agente di passaggio al fine di presentare una richiesta). 

Persino rispetto alla detenzione penale quella amministrativa presenta vistose differenze deteriori: nessuna attività viene assicurata ai trattenuti (socialità, attività fisica, attività culturale e di lavoro), che non possono far altro che attendere, in condizioni di vita miserrime e senza alcuna notizia del proprio futuro. Ed è proprio con riferimento al confronto con la pena del carcere che il libro si intitola Malapena.

Si è creato così un mondo separato in cui è sospesa qualunque garanzia e nel quale persone che non hanno compiuto alcun reato si ritrovano per 6 mesi a vivere restrizioni inaudite e con una fame di ascolto che sistematicamente viene ignorata: persino nei procedimenti di convalida e proroga della detenzione, la cui udienza dura mediamente 5 minuti, la stessa presenza per l’audizione del trattenuto è facoltativa e per lo più rifiutata con motivazioni generiche dal Giudice di pace. La disperazione che nasce da questo vuoto si esprime con sistematici atti di autolesionismo o danneggiamento di suppellettili.    

Veglio non contesta la necessità in alcuni casi dei trattenimenti sul territorio nazionale del migrante di cui deve disporsi l’espulsione; contesta che ciò debba sempre avvenire attraverso la detenzione amministrativa, proponendo misure alternative come la consegna del passaporto se esistente, l’obbligo di residenza in un determinato comune, la presentazione periodica presso uffici di polizia. E fa notare che oggettivamente il sistema dei centri appare oltre che disumano anche inefficace: solo il 50% dei trattenuti viene infatti rimpatriato, mentre il 50% viene rimesso in libertà dopo un periodo di inutile e terribile sofferenza. Gli investimenti che oggi finanziano il sistema dei centri dovrebbero in altri termini essere finalizzati ad un governo del fenomeno più umano ed anche efficace.

Il libro contiene una denuncia fortissima. Non offre soluzioni radicali che permettano di abolire i centri. Ma certo offre materiali di riflessione. Soprattutto costituisce una bussola di orientamento per qualunque ricerca di soluzione: comunque sia, le persone vanno trattate rispettando la loro dignità, attrezzando i campi per una vita decorosa e diminuendo per quanto possibile il tempo di trattenimento. Non farlo è non soltanto umiliante per noi stessi; è anche controproducente perché nutre una rabbia sorda che può soltanto creare odio.   

06/03/2021
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