Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Porte girevoli tra magistratura e politica. Testimonianza e riflessioni

di Gianfranco Amendola
già magistrato e parlamentare europeo

Nell’articolo di Gianfranco Amendola - magistrato che ha fatto la storia della tutela dell’ambiente nel nostro Paese e parlamentare europeo dal 1989 al 1994 – si intrecciano la testimonianza della sua personale esperienza in politica e riflessioni generali sul tema della peculiare “politicità” della funzione giudiziaria nell’ambito dei confini invalicabili fissati dalla legge.

1. Leggendo i giornali, sembra che oggi il vero problema della giustizia sia costituito da “porte girevoli” con cui i magistrati fanno su e giù con la politica. Tutti sappiamo che non è vero e che, peraltro, la questione riguarda pochissimi magistrati. Ma, in ogni caso, avendo utilizzato queste porte girevoli (sono stato parlamentare europeo per i Verdi dal 1989 al 1994), mi permetto di intervenire sull’argomento. So bene che non c’è niente di più noioso di un magistrato anziano che ricorda i “vecchi tempi” con nostalgia e compiacimento, perdendosi in particolari “personali” che nulla hanno a che vedere con il problema generale di cui scrive. E, quindi, farò il possibile per evitare questo pericolo, limitandomi (o, almeno, ci proverò) ad alcune sintetiche osservazioni che, -se pure nascono dalla mia esperienza personale e, ovviamente, devono essere rapportate all’epoca cui mi riferisco (in trenta anni, molto è cambiato sia nel mondo dei magistrati sia in quello della politica) -, tuttavia, a mio sommesso avviso, possono essere utili per una riflessione circa la situazione attuale.

 

2. Vorrei, quindi, iniziare dal vero problema di fondo, quello della politicizzazione del magistrato. E’ una questione antica che addirittura è uno dei motivi che ha portato alla nascita di MD. Quando, a 25 anni, sono entrato in magistratura (era il 1967), c’erano due associazioni di magistrati, in quanto, oltre l’ANM, esisteva (e contava molto, pur se numericamente inferiore) anche l’UMI (Unione magistrati italiani) formata da magistrati “conservatori” (quasi tutti magistrati di Cassazione e capi degli uffici) che sventolavano la bandiera della apoliticità. Una delle prime battaglie dei magistrati “progressisti” di allora -e, in primo luogo della nascente MD- fu proprio quella di alzare il velo su questa presunta “apoliticità”, dimostrando che, in realtà, era vero il contrario in quanto essa si risolveva in una omogeneità con il potere dominante di stampo destro-centrista, che, paradossalmente, bollava di “politicizzazione” tutto il nuovo ed il “diverso” nel campo della magistratura.

Parallelamente, anche sulla base del realismo scandinavo e anglosassone, si prendeva coscienza che, in realtà, il magistrato svolge sempre un ruolo “politico”, in quanto è utopistico ritenere possibile «da un lato di liberare la scienza del diritto da ogni ideologia morale o politica e dall'altro di liberarla da ogni traccia di sociologia, cioè da considerazioni che si riferiscono all'effettivo corso degli eventi»[1]. In altri termini, al di là di ogni dichiarazione di principio puramente formale, deve considerarsi che il giudice è, in primo luogo, un essere umano, il quale, pur se fortemente attaccato all'obbedienza del diritto («coscienza giuridica formale»), in ogni decisione trasfonde la sua intera personalità, la sua cultura, i suoi valori, in modo da operare non solo in modo «corretto» ma anche in modo «giusto»[2] o «socialmente desiderabile». Ovviamente, tale attività può esplicarsi in un ambito maggiore o minore a seconda della personalità del giudice e del suo grado di preparazione, della formulazione della norma (più o meno “elastica”) e dell’intensità del disaccordo eventuale tra la coscienza giuridica formale e quella sostanziale. Purché sia chiaro che tale “libertà di manovra” non va confusa con il concetto di arbitrio in quanto deve sempre restare entro i confini posti dalla legge alla luce dei valori vigenti in quella società e in quel momento storico. E questo, piaccia o non piaccia, è un ruolo “politico” nel senso migliore del termine, ed inevitabile anche quando il giudice non vuole prenderne coscienza e preferisce, in perfetta buona fede, definirsi “apolitico”.

MD nacque proprio per rivendicare questo ruolo “politico” della magistratura, rifiutando di restare avulsa dalla società civile e dai tanti fermenti “progressisti” che sempre più la pervadevano: ad esempio apportando il proprio contributo professionale alla tante assemblee di lavoratori che dibattevano della salute in fabbrica e degli infortuni sul lavoro.

L’importante, ovviamente, è non confondere questa politicizzazione “naturale” del magistrato con la strumentalizzazione della funzione attraverso il perseguimento di fini di parte o con l’asservimento ad un partito politico. Ma questa non è politicizzazione, è materia da codice penale.

 

3. E’ in questo contesto, quindi, che va esaminata la problematica connessa con la candidatura di un magistrato in una formazione politica. Candidatura che non può certamente essere vietata, costituendo un diritto fondamentale del cittadino ma che, altrettanto certamente, può legittimamente essere soggetta a limiti per evitare che l’esercizio delle funzioni giudiziarie possa essere o apparire strumentalizzato a fini di parte, soprattutto nel momento dell’eventuale rientro in magistratura per insuccesso della candidatura ovvero dopo aver espletato un mandato parlamentare, quando non è opportuno che le funzioni giudiziarie vengano esercitate nel collegio in cui si è stati candidati o eletti. Così come oggi prevede la legge.

Francamente, non mi sembra che si tratti di “porte girevoli” o di una normativa particolarmente permissiva. Né, altrettanto francamente, mi sembra che un magistrato che rientra dopo un mandato parlamentare espletato in rappresentanza del proprio paese ad uno dei massimi livelli debba essere considerato un appestato non più degno di fare il magistrato.

 

4. E allora diciamola tutta. Oggi è convinzione comune che la politica è sempre una cosa sporca che sporca anche chi ne fa parte, specie se non viene dal mondo della politica ma da un mondo diverso come quello della magistratura. A mio sommesso avviso, si tratta di generalizzazione inaccettabile. Innanzi tutto, infatti, “entrare in politica” significa, per un magistrato, andare a svolgere funzioni istituzionali diverse, nelle quali, di regola, la sua esperienza professionale può essere utile e portare a risultati positivi. Se mi si consente una nota personale, al Parlamento europeo la mia esperienza di magistrato con specializzazione nel diritto ambientale mi ha permesso, nella commissione ambiente (dove sono stato vicepresidente), di ottenere importanti risultati nella elaborazione della normativa comunitaria, ad esempio nel settore dell’inquinamento acustico, dei rifiuti, e della tutela degli animali. Parallelamente ha comportato un notevole arricchimento della mia cultura giuridica (conoscevo ben poco della normativa comunitaria) e mi ha “aperto” ad un mondo e ad altre culture che hanno certamente migliorato la qualità (non solo “tecnica”) del mio lavoro quando sono rientrato in magistratura.

Certo, tutto dipende da come lo si fa. Ma, a mio avviso, il magistrato che entra nel mondo della politica per portare, da una diversa prospettiva, il suo contributo nelle istituzioni e agisce in buona fede diventa una risorsa non un problema.

Il problema, in realtà, non si pone per il lavoro istituzionale ma per il contatto con “la politica” e cioè con un mondo totalmente diverso, come valori, da quello di un magistrato. Ma anche in questo caso non si può generalizzare. Di certo, la qualità complessiva della classe politica italiana non è entusiasmante; e, peraltro, negli ultimi anni è molto peggiorata. Ma non si può fare di tutta erba un fascio e, peraltro, il magistrato in politica si trova in una posizione particolare perché, avendo una sua professionalità ed un suo “mestiere”, è certamente molto più libero di chi, invece, dipende totalmente dalla politica e dalle scadenze elettorali.

 

5. Se mi si consente un’altra nota personale, alla fine del mio mandato ho rifiutato la ricandidatura e sono tornato in magistratura perché, pur soddisfatto del mio lavoro di parlamentare europeo, non lo ero altrettanto della deriva che aveva imboccato il movimento che mi aveva eletto, dopo il massiccio ingresso di reduci da altre formazioni minoritarie, rispetto ai valori originari. Ma ho potuto fare questa mia scelta in tutta tranquillità in quanto sapevo che avevo sempre il mio lavoro e che avrei ripreso a svolgerlo come prima, senza alcun condizionamento dovuto alla mia esperienza “politica”. Il che è avvenuto senza che vi fosse alcun problema: dal 1994 al 2015 (quando sono andato in pensione) nessuno mi ha mai contestato o ricusato per la mia esperienza politica “di parte”. Eppure ho continuato ad occuparmi di ambiente e a “fare politica” come avevo sempre fatto. E, francamente, non credo di avere demeritato.

Ecco perché ritengo un errore “chiudere le porte girevoli”, impedendo per sempre, in modo generalizzato, ad un magistrato di tornare al suo lavoro dopo un’esperienza politica.

Non giova alla politica e non giova alla magistratura.


 
[1] ROSS, Diritto e giustizia, Torino 1965, pag. 4. Cfr. anche HART, Contributi all’analisi del diritto, Milano 1964, pag. 129 e segg.; OLIVECRONA, Il diritto come fatto, Milano 1967, pag. 107 e segg.

[2] Il termine viene usato evidentemente solo con riferimento all'atteggiamento soggettivo del giudice. Sul significato di «giustizia », cfr. in particolare PERELMAN, La giustizia, Torino 1959.

14/03/2022
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