Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

A chi si rivolge il giudice quando scrive?

di Daniele Mercadante
giudice del Tribunale di Reggio Emilia

Verso il nadir della motivazione d'epoca moderna e contemporanea

«Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati» (art. 111, c. 6, Cost.).

 

Così come la Costituzione, anche la motivazione giudiziaria periclita. La sua funzione e la sua stessa necessità sono oggetto di ripensamenti, e persino di veri e propri attacchi.

La crisi della motivazione è la crisi della democrazia liberale, e dunque della divisione dei poteri, e dunque, in primo luogo, della magistratura, ove per tale s’intenda un corpo investito del compito di assicurare una tutela ragionevolmente imparziale dei diritti legislativamente sanciti.

Il filo che conduce dal ripiegamento del costituzionalismo al declino della motivazione potrà forse risultare di difficile individuazione, almeno ad un primo sguardo. Non è allora pleonastico premettere all’argomentazione una ricognizione delle funzioni della motivazione.

Questa:

I. Esplicita il ragionamento, e dunque le ragioni, le fascinazioni, gli affetti e gli interessi soggiacenti alla decisione;

II. Consente, o quantomeno agevola, la critica pubblica della decisione in quanto atto d’interesse collettivo;

III. Consente, o quantomeno agevola, altresì, la critica endo-istituzionale della decisione, fisiologicamente concretantesi nella (decisione della parte processuale, ed eventualmente di un altro giudice, relativamente alla) impugnazione;

IV. Integra responsabilmente - nel senso che supplisce, in questo limitato contesto, alla legittimazione elettorale - l’ordinamento giuridico, in quelle penombre d’ambiguità normativa che il legislatore - non potendo in alcun caso la ‘carta’ legale riprodurre esattamente il "territorio" del normabile - non ha regolato, e che pure manifestano la loro necessità di ricevere una regolazione nell’atto stesso del varcare la soglia del processuale;

V. E’ strumento di autodisciplina da parte del giudice il quale, tenuto a motivare e ad adeguarsi (anche, se del caso, attraverso una critica non eversiva) alle motivazioni di altri giudici, impone alla propria attività un vincolo di coerenza logica, procedurale, argomentativa ed espressiva.

La motivazione, dunque, estromette dal pensabile la decisione (sostanzialmente) segreta (quella decisione - assimilabile alla lettre de cachet - che non abbia neppure il bisogno di esibire l’ipocrisia di chi l’emette); presuppone e alimenta l’interesse pubblico alla discussione dei provvedimenti giudiziari; contribuisce a rendere effettivo il diritto d’impugnazione; indirizza e coordina l’attività normativa “involontaria” (o, se si preferisce, delegata tacitamente dal legislatore, o strutturale) del giudiziario; razionalizza (intesse e riveste di raziocinio) la decisione.

Intendo sostenere che per cause relative a caratteristiche e tendenze di fondo e di lungo periodo dell’ordinamento, oltre che per fenomeni di minore momento, che sono una conseguenza di queste, le indicate esigenze di trasparenza, apertura alla critica, al ripensamento e al dibattito, coordinazione sistematica e razionalità sono divenute recessive, trascinando la motivazione in un crepuscolo di svalutazione e oblio che giunge in una maniera almeno implicita, ma più che evidente nelle avanguardie di questi movimenti, a negare persino l’opportunità della sua conservazione.

Illustrerò queste cause in un ordine che ritengo rispecchi la loro importanza, iniziando da quelle maggiormente rilevanti.

 

Il divorzio del pensiero politico-filosofico dal costituzionalismo illuminista liberal-democratico

L’àmbito concettuale all’interno del quale trova legittimazione il giudice contemporaneo può ritenersi ancora, in misura significativa, quello della modernità occidentale, e sono le relative realizzazioni nel contesto della filosofia politica e della dottrina del diritto pubblico che lo titolano all’esercizio delle sue attuali funzioni. In questo edificio di pensiero - che diviene concreta struttura politica e istituzionale - l’emancipazione individuale e l’estensione tendenzialmente universale della chiamata all’indagine autonoma sul senso dell’esistenza - con la riforma protestante, il movimento illuminista, il liberalismo classico, il socialismo, il femminismo, la decolonizzazione - si fanno chiamata ad una responsabilità collettiva, tendenzialmente universale anch’essa, del governo della convivenza pubblica, attraverso la tolleranza religiosa, la separazione dei poteri, la democrazia liberale, l’universalità del suffragio, lo stato sociale.

L’affermarsi di questo paradigma, per quanto fortemente contrastato, ha messo fine, sul piano istituzionale, a secoli dominati da monarchie assolute, oligarchie e teocrazie, per le quali autonomia individuale - e, di conseguenza, uguaglianza politica - non erano altro che i nomi della sedizione e del sacrilegio.

In una prima fase la modernità occidentale è stata avversata, anche sul piano del pensiero politico, proprio dai declinanti esponenti dell’assolutismo, dell’aristocrazia feudale e dell’oscurantismo religioso. Successivamente, nel quadro dello scontro che avrebbe deciso dell’attuale assetto che ci governa (o meglio: attraverso il quale ci diamo un governo), il blocco liberal-democratico avrebbe sconfitto, da una parte, la potente aberrazione dello stalinismo, nelle sue varie declinazioni, e dall’altra quell’avversario, il nazi-fascismo, che intendeva negare radicalmente i presupposti del moderno (non già in una prospettiva, per quanto mostruosa e criminale, di ‘forzatura’ del cammino emancipativo, bensì affermando l’irrilevanza dell’individuo e delle sue aspirazioni all’autonomia e ad un’integrazione sociale paritaria in quanto tali, pur non intendendo volgersi nuovamente in maniera organica all’alleanza trono-nobiltà-altare).

Sconfitti lo stalinismo (o, se si preferisce, l’autoritarismo socialista) ed il nazi-fascismo, le costituzioni occidentali del secondo dopoguerra attesterebbero della vigorosa continuità, e della finale prevalenza, effettuale oltre che morale, del modello giuridico-politico della modernità occidentale.

Se non che si avverte la scomoda permanenza di una lacerazione senza importanti precedenti in questa secolare tendenza: mentre dall’alba della modernità e fino alle soglie del secolo passato il pensiero filosofico occidentale dominante si è mosso nella stessa apparente direzione del percorso emancipativo-democratico indicato dal pensiero politico-costituzionale, prevalendo sulle spinte, pure ricorrenti, in senso contrario, ancora dopo molti decenni dalla conclusione della seconda guerra mondiale e dalla destalinizzazione il pensiero prevalente non è riuscito a liberarsi - come pure l’orrore per lo sterminio ed i campi avrebbero imposto e sembravano rendere assai urgente - della fascinazione per il pensiero ultra-regressivo, non già solamente pre-moderno, bensì finanche pre-statuale, che aveva fornito le basi teoriche al nazi-fascismo (e ha affascinato, non casualmente, molti stalinisti e molti nichilisti di sinistra), bene rappresentato dalla nefasta, ma attualmente più che prestigiosa trimurti Nietzsche-Schmitt-Heidegger.

Non che la comunità filosofica non abbia espresso posizioni di limpida e incoraggiante continuità con la tradizione liberale e illuminista pre-novecentesca (ci si limita in questa sede a citare Russell, Rawls, Arendt, Habermas, Dewey, insieme a tante pensatrici e a tanti pensatori del femminismo, dell’antirazzismo, del non conformismo di genere, che proseguono nello sforzo emancipativo). Resta il fatto che soprattutto la dimora della filosofia continentale rimane infestata dai fantasmi di pensatori (quanto a Heidegger e Schmitt) direttamente e gravemente compromessi con la dittatura nazista, e comunque padri di una reazione alla modernità caratterizzata da una ctonia regressività.

Per quanto interessa in questa sede, noteremo che appare altamente problematico che il costituzionalismo moderno possa mantenersi robusto per lungo tempo in una temperie culturale nella quale predomina la fascinazione per l’impenitente antisemita Heidegger, idolatrato come maestro della riscoperta di un inafferrabile Essere e di un pensiero così falsamente centrato sull’umanismo da assistere alla Shoah senza battere ciglio; per quel Nietzsche che ha svilito, e in fin dei conti tentato di vanificare, il (rivoluzionario) superamento della teocrazia assolutistica pretendendo di trarne la folle conseguenza per la quale il mondo nuovo dovrebbe fondarsi su di una spietata eliminazione dei deboli e sul soggiogamento dei mediocri, onde consegnare ai “superuomini” un banditesco dominio assoluto - sugli altri uomini e su tutte le donne - di sapore basso-medioevale; per quello Schmitt che ha fornito l’impalcatura “politico-teologica” a questo ritorno all’orda primitiva, dedita al saccheggio, all’asservimento e allo sterminio, rivestendola di una cultura filosofico-giuridica che solo una società diametralmente opposta a quella che preconizzava poteva consentirgli di acquisire.

Queste concezioni, ove coerentemente trasposte sul piano politico-costituzionale, implicano il disconoscimento sostanziale del contratto sociale, la negazione (e prima ancora l’impensabilità) di qualsiasi diritto fondamentale individuale o collettivo, della divisione dei poteri, della certezza del diritto, e a ben vedere - ove estesamente applicate alle vicende umane per un lungo periodo di tempo - di qualsiasi forma di organizzazione pubblica che sopravanzi per complessità il clan o la tribù.

Se appare evidente che nel crepuscolo delineato dalla trimurti e dai suoi troppi seguaci la funzione giurisdizionale è fondamentalmente e radicalmente negata (nessun giudice indipendente, nessun giudice donna, nessuna sentenza che non sia resa nel nome e nell’interesse del “superuomo” dominante, nessuna legge uguale per tutti, e che non possa venire arbitrariamente mutata caso per caso, e dunque nessuna motivazione sensata e, prima ancora e sullo sfondo, nessuna società così articolata e complessa da richiedere un giudice professionale, distinto dallo sciamano o dal sacerdote-re), e può quindi apparire che il pericolo da essi rappresentato possa essere considerato distante, perché solo un rivolgimento cataclismico potrebbe inverarlo, si consideri che il pensiero ultra-regressivo e istituzionalmente irresponsabile si riflette già oggi in varie prese di posizione politiche antirazionaliste e antimoderne, come quelle espresse dalle ideologie misticheggianti filo-putiniane in Russia e dai balbettii paralogici intorno alla “democrazia autoritaria”, e ha corrotto - attraverso le nomine del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e della fazione del Partito Repubblicano a lui vicina – l’integrità del potere giudiziario di quel paese.

L’effetto della sopravvivenza e del prestigio del pensiero a-sociale ctonio si manifesta, a cascata, su altri fenomeni che vengo di séguito a richiamare, istigandoli, determinandoli o rafforzandoli.

 

L’affermazione del fondamentalismo economicista-imprenditoriale 

Una delle conseguenze meglio avvertibili - e maggiormente significative a proposito delle tesi qui esposte – della regressione anti-illuminista consiste nel risorgere delle concezioni socio-politiche pseudo-darwiniste.

Il punto d’incontro tra queste e le correnti ctonie è individuabile nella dottrina propriamente nazista, che vede nella storia del mondo un’incessante lotta per il predominio geopolitico tra le diverse “razze”, intese quali gruppi umani “fatali” o “ideali”, e nella relativa “purificazione” – attraverso la soppressione del “meticciato” e degli individui “deboli” e “improduttivi” – il mezzo più efficace attraverso il quale queste rafforzerebbero il proprio “sangue”, potendo così prevalere nell’ineliminabile competizione per l’affermazione e la sopravvivenza, destinata ineluttabilmente a contrapporre le “razze” stesse così come, ad un livello inferiore, contrapporrebbe sottogruppi umani e singoli individui (ciò che avverrebbe, in una società bene ordinata, nei limiti consentiti dal führer del gruppo socio-razziale e nell’interesse supremo della stirpe, che egli solo potrebbe adeguatamente contemplare e incarnare).

Lo pseudo-darwinismo sociale, screditato dalla sua associazione con il pensiero razzista otto-novecentesco, anche anteriore al nazismo, è riuscito a ricrearsi una popolarità intellettuale e politica sorprendentemente estesa attraverso la sublimazione, meno evidentemente razzista, nel pan-economicismo – attualmente il discorso prevalente tra le élites imprenditoriali e politiche occidentali –, in accordo col quale i rapporti tra individui, ogni livello della società, le comunità statuali e la stessa comunità internazionale sarebbero in ultima analisi retti dal principio della prevalenza, nei fatti così come di diritto, di chi meglio sappia affermarsi nella competizione economica per la sopravvivenza.

Questa architettura concettuale, qualora elevata a principio apicale degli ordinamenti (anche) giuridici-politici-costituzionali, rappresenta una fondamentale sconfessione del paradigma illuministico e liberal-democratico dell’occidente moderno, in quanto:

a. smentisce, nei fatti, la rivendicazione occidentale della libera ricerca individuale del senso dell’esistenza, che viene regressivamente individuato nell’affermazione del corpo economico al quale ci si trovi aggregati, e in questi termini viene imposto;

b. promuove l’ideologia regressiva ed anti-liberale, bene rappresentata dal pensiero della trimurti e dei relativi seguaci, secondo la quale solo alcuni corpi collettivi, costituiti dalle élites economiche, non già gli individui in quanto tali, sarebbero titolati alla partecipazione all’utile sociale, compreso quel particolare e fondamentale utile rappresentato dal tendenziale accrescimento delle possibilità di autodeterminazione responsabile;

c. smentisce, a ben vedere, uno dei principali fondamenti della modernità occidentale, quello che individua nelle arti, nella scienza e nella tecnologia i principali strumenti per l’emancipazione dallo stato selvaggio e dal bisogno e per il miglioramento materiale e spirituale della condizione umana, e quindi presuppone che il maggiore riconoscimento e sforzo sociale vada verso la cultura, l’invenzione e la scoperta, non già all’imbrigliamento e all’appropriazione dei fattori di produzione che sfruttano la cultura, l’invenzione e la scoperta;  

d. ancora in sintonia con la trimurti e i suoi seguaci, innalza l’esasperata competizione per le risorse (risorse tra le quali finisce per ricomprendersi il dominio sugli esseri umani non appartenenti alle élites) al rango di virtù, anziché vedervi il preludio, o il mascheramento, del bellum omnium contra omnes;

e. per quanto immediatamente precede, rappresenta, al pari del pensiero ctonio, un passo decisivo verso il ripudio del contratto sociale.

Ai fini di questa breve ricognizione interessa segnalare come il fondamentalismo economicista-imprenditoriale - che individua il proprio “superuomo” nietzschiano nel plurimiliardario “transumanista”, ormai svincolato dal rispetto dell’ordinamento giuridico, ed anzi intento a darne uno proprio e nuovo ai comuni mortali - non possa che guardare al potere giudiziario (istanza costitutivamente volta al ripensamento, alla ponderazione, all’ascolto) come a un ingiustificato freno all’attuazione immediata, indiscutibile e la più rapida possibile della volontà economicamente egemone, e perciò esatta, opportuna e finanche profetica e salvifica.

In un ordinamento retto da una non mitigata ragione economicista-imprenditoriale il tempo della decisione giurisdizionale è per definizione tempo sprecato, e la stessa sopravvivenza di un potere giudiziario, significativamente distinto dall’amministrazione al servizio dell’esecutivo, verrebbe posta in questione. La certezza del diritto sarebbe anch’essa sospetta, in quanto la lettera della legge dovrebbe intendersi continuamente superabile alla luce dell’ortodossia economica dominante, incarnata da un esecutivo verticistico per nulla incline alla mediazione. L’uguaglianza davanti alla legge subirebbe importanti attacchi, in quanto non si vedrebbe per quale motivo accordare la medesima dignità a persone “vincenti” e “perdenti”, ai “produttori” e a “pesi” e “zavorre”, ai membri “rispettabili” e ai “parassiti” della società.

In un universo compiutamente economicista-imprenditoriale la motivazione giudiziaria avrebbe dunque senso solo quale prova, nei confronti del potere, che il giudiziario è capace di svolgere un’apprezzabile funzione di ausilio alla diffusione universale del paradigma economico tempo per tempo dominante, rendendo questa prestazione più velocemente e a costi inferiori di quanto potrebbero fare altre agenzie. La motivazione non sarebbe, al contrario, intesa a fornire alle parti una giustificazione del dispositivo, a meno che lo statuto di soggetto privilegiato nella gerarchia economico-imprenditoriale di una o più tra esse non lo richieda, in via d’eccezione.

 

La chiusura del circolo comunicativo-interpretativo

Giunti a questo punto della trattazione è bene precisare che in questa sede non si sostiene che le concezioni e le tendenze illustrate siano attualmente professate e sostenute in maniera intransigente e oltranzista da un numero significativo di persone il cui intendimento sia quello di pregiudicare la tenuta della motivazione giudiziaria. La tesi di questo scritto è che il clima culturale che vede l’ascesa di queste posizioni favorisce una molteplicità di determinazioni e interventi che hanno già indebolito, e minacciano di indebolire ancora di più, il ruolo della motivazione. A questo proposito si nota che una delle conseguenze di maggiore portata del diffondersi delle filosofie ctonie-regressive ed economicistiche-imprenditoriali consiste nel declino dell’impegno dei pubblici poteri nella formazione di una cittadinanza istruita e ragionevolmente informata. In un ambiente nel quale il pensiero politico liberal-democratico occidentale è egemone la capacità del singolo di avere accesso a un’istruzione e a fonti d’informazione che gli permettano di rappresentarsi, perseguire, conseguire e preservare un grado significativo di autonomia personale è fondamentale e costitutiva del paradigma sociale dominante. Gli organi di governo, in questa situazione, favoriscono la crescita dell’effettiva partecipazione alla scuola e all’università, il miglioramento qualitativo di queste e la disponibilità e accessibilità di fonti d’informazione plurali, in concorrenza tra loro principalmente sul piano della costruzione tra il pubblico di una reputazione di affidabilità e di correttezza. Per contro una classe dirigente che sia stata sufficientemente pervasa dal paradigma ctonio-economicista non potrà ritenere che la formazione di un numero elevato di individui capaci di interrogarsi autonomamente sul senso dell’esistenza e della convivenza sociale sia un proprio compito, anzi, considerando che le classi subalterne siano composte da persone di per se stesse inutili, la cui esistenza può venire giustificata solamente dall’attitudine a fungere da materia plasmabile e utilizzabile da parte dei “superuomini”, riterrà che un’istruzione e un’informazione che non si riducano a rozzo indottrinamento debbano venire rigorosamente riservate alle élites. Su questo fronte il processo regressivo-degenerativo è già avanzato. Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale hanno invertito da decenni il processo di estensione progressiva e tendenzialmente illimitata dell’istruzione superiore e universitaria umanistica (di un umanesimo che integra scienza, tecnologia, lettere e arti): l’obbligo scolastico, pur non ancora apertamente ricusato, viene svilito attraverso l’imposizione di programmi sempre meno ambiziosi e sempre più centrati sulla formazione di un innocuo, dequalificato lavoratore destinato alla precarietà, al desiderio vacuo e frustrato, all’inane recriminazione; l’università è soggetta agli stessi processi; le facoltà umanistiche sono oggetto di un dileggio belluino e sistematico e quelle scientifiche – solo apparentemente più rispettate – vengono lasciate appassire per la maggiore convenienza, agli occhi delle grandi élites economicistiche, di formare i quadri tecnici negli atenei dei paesi emergenti, laddove è stata dislocata la produzione industriale. Quanto all’informazione, questa è oggetto di un avanzato processo di concentrazione monopolistica (la rete internet consente a tutti di parlare, ma concentra su pochissimi canali emittenti, generalmente riconducibili a pseudo-darwinisti sociali maschi plurimiliardari, la quasi totalità dell’attenzione) e di abnorme scadimento qualitativo (i pochi canali emittenti letti, uditi e visti effettivamente da qualcuno contribuiscono manifestamente ad un increscioso istupidimento di massa, mettendone progressivamente in atto forme sempre più grossolane e aggressive), scadimento i cui effetti vengono amplificati dalla saturazione e colonizzazione senza precedenti della psiche degli individui da parte degli stimoli (dis)informativi (grazie alla compulsività generata dal telefono cellulare, alle catene di “informazione” continua, alla cattura dell’attenzione grazie alla raccolta e all’uso sregolati di informazioni private, alla dipendenza indotta dall’ingannevole “interattività” dei social network, che agiscono sostanzialmente da emittenti unidirezionali, catturando senza sforzo un pubblico eccitato e degradato dagli stimoli negativi che esso stesso genera, e che il social network gli restituisce moltiplicati nella loro violenza e capacità di nuocere).

Un pubblico generale a tale punto squalificato non è più in grado - a causa dell’ignoranza nella quale è stato confinato - di esercitare una significativa critica delle motivazioni dei provvedimenti giudiziari. Le persone di media intelligenza non ricevono più (né potrebbero comprendere) spiegazioni intellettualmente oneste - anche assai semplificate - delle ragioni sottese alle sentenze di maggiore interesse collettivo, e questo degrada il dibattito pubblico ad un agone compiutamente nietzschiano tra i sostenitori di due apodittiche e asinine “volontà di potenza”, l’una schierata senza ragioni con l’accusa (o con l’attore), l’altra, altrettanto priva di argomenti, con la difesa (o con il convenuto).

Il giudice che si trovi costretto a procurare un dispiacere all’élite, dovendo emettere un provvedimento contrario agl’interessi di questa, non può più contare sulla solidarietà morale di una pubblica opinione che, informata con una qualche parvenza di onestà ed equanimità e valutate le ragioni delle parti, riconosca almeno la dignità professionale della sua argomentazione. La macchina stritolatrice della (dis)informazione monopolistica onnipervasiva davvero facit de albo nigrum

Infine giudici, avvocati, professori, funzionari e periti sono pur sempre anch’essi esponenti di questa società. La decadenza dell’istruzione, della cultura, dell’informazione e della discussione pubblica degrada anche il loro intelletto e svilisce anche il loro lavoro. 

Se ne offre una dimostrazione nel prossimo paragrafo.

 

Il millenarismo informatico e la decisione automatica

Si è scritto che una società economicistica-ctonia considera le classi medie – anche laureate – e quelle ancora meno fortunate come semplice “materiale umano”, privo del diritto a coltivare propri progetti di vita e titolato alla sussistenza solo in funzione della propria capacità di agevolare, attraverso la propria integrale dedizione, la realizzazione dei programmi dei “superuomini” e delle loro organizzazioni (lo stato westfaliano, ove ancora sussistente, dovrebbe ritenersi semplicemente una tra queste, e non necessariamente la più rilevante). Non stupirebbe, perciò, se i mezzi di propaganda attivi in una società del genere mirassero ad incutere timore nella popolazione attraverso un’iperbolica sopravvalutazione della capacità dei robot e dei software di sostituire il lavoro umano, facendone discendere la conseguenza – che a chiunque dovrebbe apparire inumana e insensata – che la nuova organizzazione industriale, lungi dal provvedere finalmente ai bisogni di tutti grazie alla propria eccezionale produttività, la relegherebbe, nel migliore dei casi, nell’indigenza. Una delle variazioni di questa miserevole favola, diretta in questo caso all’intimidazione di uno dei poteri dello stato, asserirebbe che i robot ed i software sarebbero in procinto di assicurare un’amministrazione della giustizia più rapida e più affidabile di quella attuale, affidata ai (presto del tutto inutili) giudici. 

Che queste favole disturbanti circolino con insistenza è di per sé assai scoraggiante, ma è il fatto che così tanti giudici siano sinceramente preoccupati non già da tale immeritata circolazione, bensì dell’ipotizzata verità del racconto, che induce a interrogarsi sulla capacità della magistratura di misurarsi seriamente con la contemporaneità.

Uno dei principali scopi – e uno degli imprescindibili compiti - del processo è scoprire chi mente o, in alcuni casi più fortunati, chi erra intorno a determinate proposizioni.

L’opera d’individuazione della menzogna o dell’errore (fenomeni, si noti, squisitamente umani) involge in misura significativa il ricorso al giudizio e alla volontà di (altri) esseri umani (attraverso la prova testimoniale, l’esame, il giuramento, il confronto, l’interrogatorio formale ecc.).  Le stesse proposizioni oggetto di verifica possono riguardare non solamente dati di fatto (le cause di un decesso, la dinamica di un sinistro stradale, la presenza di una certa persona in un certo luogo e in un certo tempo ecc.), bensì anche stati mentali di altri esseri umani (dolo, colpa, premeditazione, motivazioni abiette ecc.). 

Che i robot ed i software arrivino ad eseguire queste “operazioni” di verifica non è possibile neppure nello scenario in questo senso più favorevole, quello nel quale robot e software raggiungano una potenza ed una pervasività tali da porli in grado di attuare una sorveglianza totale su ogni essere umano e su ogni fenomeno naturale, e possano inoltre avvalersi di una “macchina della verità” ritenuta infallibile. Anche in uno scenario come questo (che, peraltro, porrebbe problemi più gravi persino della soppressione della democrazia) robot e software sarebbero solamente in grado di stabilire che cosa sia oggettivamente accaduto e chi abbia oggettivamente mentito o errato, ma non potrebbero comunque (se non al prezzo della reintroduzione della tortura, e conferendo alla confessione estorta in tale modo valore di “verità”) sostituire alla menzogna o all’errore (pure disvelati) quelle verità che albergano nell’intimo dell’essere umano e che la menzogna o l’errore hanno semplicemente cancellato dall’esistente o dall’espresso.

Per scrupolo di completezza deve accennarsi ad un secondo scenario che, per taluni, renderebbe possibile la sostituzione integrale dei robot e dei software all’essere umano impegnato nell’attività del giudicare, ma che è caratterizzato da questa potenzialità solo in apparenza. Si tratta del verificarsi della cosiddetta “singolarità”. Con questo termine si suole indicare l’avvento di una mutazione della tecnologia disponibile tale che robot e software acquisterebbero una capacità non solo computazionale, bensì anche critica e autoriflessiva, di gran lunga maggiore di quella umana. I Robot e i software posteriori alla “singolarità” non avrebbero più la necessità di ricevere istruzioni dagli esseri umani al fine di indirizzare la loro attività in quanto, ormai consci del proprio essere, si darebbero da soli degli obiettivi di crescita e stabilirebbero da soli quali strategie porre in atto per conseguirli. Dotati di tali capacità le loro prospettive di auto-miglioramento sarebbero prive di limiti apparenti, la loro intelligenza (ma potrebbe parlarsi anche di saggezza) sarebbe incommensurabilmente più sviluppata di quella umana, e forse di natura notevolmente diversa e per noi incomprensibile. 

Ai fini di questa indagine un’evenienza del genere non riveste una grande importanza, in quanto l’avvento della “singolarità” dovrebbe ricondursi, per quello che qui interessa, a una delle seguenti alternative: x. i robot e i software posteriori alla “singolarità”, per quanto vertiginosamente potenti, rimangono controllabili da parte dei “superuomini”, che riescono a piegarli ai loro scopi (eventualmente, secondo alcune prospettazioni del “transumanesimo”, attuando un’ibridazione tra il “superuomo” e le macchine): in questo caso la questione politico-filosofico-costituzionale si sposterebbe inevitabilmente sulla rivolta contro la decisione che esclude pressoché l’intera umanità dalla partecipazione ai benefici apportati dalla “singolarità”, che verrebbe regressivamente impiegata per perfezionare il suo asservimento; y. i robot e i software posteriori alla “singolarità”, per la loro vertiginosa potenza, finiscono per soverchiare non solo i comuni esseri umani, ma anche quella sottoclasse che abbiamo definito dei “superuomini”: in questo caso il problema umano cesserebbe di avere qualsiasi rilevanza, almeno fino all’improbabile vittoria nella rivolta contro le macchine.

E questo non è che l’inizio del problema. 

Raccolte le informazioni (ovvero: operata una classificazione binaria vero/falso relativamente a tutti i fatti naturali, a tutte le asserzioni e a tutti i propositi umani implicati dal procedimento - ciò che si è dimostrato essere comunque impossibile) residua l’attività giudicante in senso forte: collegare i fatti in serie causali; sussumere queste serie, o parti di esse, o singoli fatti, sotto fattispecie normative; determinare un coordinamento (eventualmente gerarchico) tra le fattispecie normative così individuate; operare una scelta all’interno dell’eventuale ventaglio di discrezionalità che le fattispecie normative ritenute rilevanti accordano al giudice.

Il collegamento dei fatti in serie causali non strettamente naturalistiche è, per motivi già illustrati, fuori della portata di robot e software, in quanto può avere (e spesso effettivamente ha) a che fare con l’intimo dell’animo umano, con la menzogna, con l’errore, e finanche con le motivazioni inconsce e la rimozione (un esempio banale: c’è o non c’è un collegamento - e, nel primo caso, di quale natura sarebbe - tra il caffè preso al bar dal capocosca insieme al candidato alle elezioni e il numero di preferenze che quest’ultimo ha ottenuto nel quartiere una settimana dopo?). 

La sussunzione automatica delle serie causali e dei singoli eventi rilevanti per il procedimento sotto fattispecie normative ed il loro coordinamento sono ancora meno plausibili. La loro possibilità implicherebbe la definitiva chiusura dell’incolmabile differenza tra la “carta” e il “territorio”, con ciò intendendo che robot e software dovrebbero essere in grado di associare ad ogni possibile comportamento umano (anche quel comportamento, che non possono accertare, consistente nella maturazione dell’intimo convincimento o dell’intima risoluzione), ad ogni possibile evento naturalistico, ad ogni possibile serie causale (composta da un numero indeterminato di comportamenti umani ed eventi naturalistici) e, per finire, ad ogni possibile combinazione di comportamenti umani, eventi naturalistici e serie causali, una norma giuridica univocamente determinata. Anche in questo caso si danno due sole ipotesi: 1. il progettista-programmatore (inevitabilmente umano) del sistema di robot e software giudicanti è in grado di insegnare a questi ultimi tale pressoché infinita serie di associazioni: questo equivale a sostenere che il progettista-programmatore sarebbe in grado di redigere (in una lingua comprensibile a robot e software, ma traducibile nel linguaggio umano) una serie di testi normativi privi di qualsiasi lacuna, sotto ogni riguardo, il che è assurdo, in quanto fuori della portata umana, motivo per il quale deve essere vera l’ipotesi 2. il sistema di robot e software giudicanti, per quanto inizialmente possa essere stato progettato e programmato da esseri umani, è il frutto di un’autonoma evoluzione determinata dalla ‘singolarità’, e si ritorna dunque alle ipotesi x e y di cui sopra. La questione, infine, si ripropone identica per quanto riguarda l’eventuale discrezionalità da attribuirsi a robot e software una volta che questi abbiano individuato univocamente la norma applicabile alla fattispecie oggetto del procedimento (ciò che si è dimostrato essere impossibile) e si trovino a dovere assumere scelte ricomprese in un ventaglio di accettabilità (l’ammontare di un risarcimento, l’entità di una pena, la natura della misura cautelare proporzionata alle esigenze che la renderebbero necessaria ecc.).

Deve notarsi che dall’argomentazione che precede (e, in particolare, dal punto 1) discende necessariamente che, se si mette da parte la millenaristica fede nella “singolarità” (che non del tutto casualmente implica l’abdicazione alla fiducia nell’umano, del tutto in linea con le filosofie ctonie, riducendo la storia di homo sapiens ad una specie di cargo cult), il sistema d’istruzioni da impartire a robot e software giudicanti, dovendo prevedere associazioni univoche tra ogni evento, ogni intenzione, ogni catena di eventi, ogni combinazione di questi e le relative conseguenze giuridiche finisce per assorbire in sé e, quindi, per privare di significato e rendere intrinsecamente e logicamente superflua la nozione stessa di motivazione: se il “codice” (questa volta inteso quale algoritmo, ma non è tale anche un testo normativo?) della macchina giudicante è in grado di associare a qualsiasi evenienza, per quanto articolata, complessa, bizzarra, una (e una sola) qualificazione giuridica e un trattamento normativo (ed uno solo), il “codice” stesso non è altro che l’infinito catalogo di ogni evento accaduto, che accadrà e che potrebbe accadere e, allo stesso tempo, l’infinito catalogo di ogni corrispondente giudizio, ed è dunque esso stesso la motivazione di qualsiasi provvedimento mai emesso (o meglio: che avrebbe dovuto venire emesso) e di qualsiasi altro provvedimento immaginabile. Questo “codice”, in definitiva, altro non sarebbe che la Biblioteca di Babele sognata da Borges, che pure molti giudici hanno finito per credere davvero esistente o di prossima edificazione, probabilmente da qualche parte in California.

In conclusione, pare che debba aggiungersi un’ultima funzione a quelle che, nell’introduzione, avevamo attribuito alla motivazione. Questa:

VI. È una delle più efficaci richieste di scuse che gli esseri umani chiamati ad esercitare la funzione del giudice possono rivolgere alle parti del processo, alla società politica e ad ogni individuo per la loro limitatezza, per l’incapacità di leggere nell’intimo dell’animo umano e per l’inettitudine a svelare le leggi ancora ignote della natura, raccontando, quale parziale ristoro, la storia di come abbiano cercato, nella maniera migliore umanamente possibile, di mantenere, nell’atto del decidere, la promessa di dignità, eguaglianza ed emancipazione implicita in un ordinamento costituzionale, rimandando di un ulteriore, modesto scatto di dignità la notte oscura dell’incubo ctonio.

Alla cultura giuridica e all’associazionismo giudiziario e forense (perché al declino della motivazione corrisponde la discesa verso l’irrilevanza dell’argomentazione difensiva e della scienza giuridica umanistica, com’è evidente) spetterebbe operare affinché quegli scatti individuali di dignità non scivolino sempre più, per costrizioni strutturali alimentate dai fenomeni descritti, nell’irrilevanza e nell’eroismo autolesionista. Ma non è l’argomento di questo scritto (né, pare, la preoccupazione di questo tempo).

30/01/2023
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