Vi sono forme di appartenenza che sembrano sopravvivere al tempo, come reliquie di una società che amava il mistero più della chiarezza e il simbolo più della parola. Tra queste, la Massoneria continua a evocare un immaginario di riti, segni e fratellanze che mal si concilia con la trasparenza che il mondo contemporaneo pretende da chi esercita pubbliche funzioni. È come se due epoche si sfiorassero senza incontrarsi: quella della discrezione iniziatica e quella della luce amministrativa. Eppure la tensione fra il diritto all’appartenenza e il dovere di chiarezza non è una disputa d’archivio, ma una questione viva che tocca il nucleo della democrazia moderna: la fiducia tra cittadini e istituzioni.
Per comprendere i termini della questione occorre partire dalla libertà di associazione, scolpita nell’articolo 18 della Costituzione come espressione della libertas personae, diritto individuale e collettivo insieme, che consente a ciascun individuo di unirsi ad altri per fini leciti, nel rispetto della legalità repubblicana. Ma lo stesso articolo, nella sua seconda parte, vieta le associazioni segrete, segnando una linea di demarcazione netta fra la fisiologia del pluralismo associativo e la patologia dell’occultamento.
In questa prospettiva, la nozione di associazione segreta non può essere lasciata a una definizione meramente sociologica o intuitiva. Essa non coincide con l’idea di un’associazione semplicemente riservata o non pubblicamente esposta, ma presuppone — secondo la dottrina e la giurisprudenza costituzionale formatasi sull’art. 18, comma 2, Cost. — la compresenza di due elementi: da un lato, un’opacità strutturale, data dall’occultamento dell’organizzazione interna, della composizione e degli scopi mediante strumenti idonei a sottrarsi al controllo pubblico; dall’altro, l’attitudine a produrre interferenze occulte sul funzionamento di organi costituzionali o amministrativi. È proprio questa capacità di generare un rischio sistemico per l’equilibrio e la trasparenza dell’azione pubblica a rendere l’associazione segreta incompatibile con l’ordinamento democratico e a giustificare il divieto posto dalla Costituzione.
Quella norma, letta oggi, sembra ancora intrisa dello spirito costituente, che volle preservare il nuovo Stato democratico da ogni rigurgito di poteri paralleli, memore delle esperienze del ventennio e dei suoi apparati occulti. L’eco di quel divieto non si è spenta: anzi, riaffiora ogni volta che si parla di poteri invisibili, di fedeltà doppie, di legami che sfuggono al controllo pubblico e rischiano di insinuarsi tra le maglie delle istituzioni.
Se l’articolo 18 tracciava il confine teorico tra libertà e segretezza, il legislatore, nel 1982, tornò a misurarsi con questo tema con la legge n. 17, che sciolse la loggia P2 e vietò la ricostituzione di associazioni segrete che, «anche all’interno di altre associazioni palesi», perseguissero fini politici o interferissero con l’esercizio delle pubbliche funzioni. La ratio era chiara: assicurare che la fedeltà alla Repubblica non potesse essere offuscata da vincoli di fratellanza coperti da segreto. Non a caso la norma punisce non tanto l’appartenenza in sé, quanto l’occultamento e la struttura gerarchica che sfugge a ogni controllo. È un diritto che non si limita a disegnare confini, ma che chiede visibilità: la democrazia non teme l’organizzazione, ma teme l’invisibilità del potere. La vicenda della P2, che fu insieme politica, morale e istituzionale, lasciò una ferita nel tessuto repubblicano, rafforzando la consapevolezza che non è sufficiente la legittimità formale, ma serve una legittimazione sostanziale, alimentata dalla fiducia che i cittadini ripongono nella trasparenza di chi li governa e li giudica.
Proprio in questa dialettica si inscrive la tensione permanente tra due principi di pari rango costituzionale: la libertà associativa e la fides publica, intesa come bene giuridico funzionale alla trasparenza e all’imparzialità dell’azione amministrativa e giudiziaria. Quest’ultima rappresenta un presidio essenziale, senza il quale il diritto si ridurrebbe a mera procedura e l’autorità perderebbe la sua aura di legittimità. In più occasioni la Corte costituzionale ha ricordato che il diritto di associarsi non è illimitato, ma deve essere bilanciato con le esigenze di corretto funzionamento delle istituzioni e con i doveri di chi esercita funzioni pubbliche (ubi officium, ibi onus).
Eppure, se si osserva il panorama attuale, si comprende come quel bilanciamento sia tornato ad essere materia viva e controversa. Negli ultimi anni, infatti, sono emersi casi – specie in alcune regioni del Mezzogiorno, come Calabria e Sicilia – in cui inchieste giudiziarie hanno rivelato la presenza di magistrati, avvocati e amministratori pubblici iscritti a logge massoniche non dichiarate, in un intreccio di appartenenze che ha suscitato interrogativi profondi sulla compatibilità fra fraternità iniziatica e servizio alla cosa pubblica. Queste vicende hanno dimostrato che il problema non risiede nell’appartenenza in sé, ma nella sua opacità, che finisce per generare asimmetrie relazionali difficilmente conciliabili con la fiducia istituzionale. In Sicilia, il dibattito approdò perfino all’Assemblea Regionale, con una proposta di legge che imponeva agli eletti di dichiarare eventuali appartenenze massoniche, richiamando il principio di trasparenza come forma di prevenzione etica più che di sanzione giuridica.
Ma se l’Italia vive questo nodo con un retaggio storico di diffidenza verso il segreto, altri ordinamenti ne offrono letture differenti. Nel Regno Unito, per esempio, la Massoneria è pienamente lecita e la stessa magistratura, in passato, ha chiesto ai propri membri di rendere pubblica l’appartenenza, senza che ciò fosse interpretato come indice di illiceità o deviazione. In Francia, invece, la discussione è periodicamente riaccesa dai rapporti fra politica e logge, soprattutto in relazione al principio di laicità e alla necessità che la sfera pubblica rimanga neutra rispetto a qualunque consorteria ideologica. In ambito europeo, dunque, si delineano due modelli: quello anglosassone, che tutela la libertà associativa attraverso la trasparenza, e quello continentale, che tende a porre limiti più severi per proteggere la neutralità delle istituzioni. L’Italia si colloca in una posizione intermedia, sospesa tra la memoria del sospetto e il bisogno di fiducia, in un equilibrio fragile che deve essere continuamente riaffermato.
Sul piano deontologico, il conflitto si fa concreto. Il magistrato che aderisca a una struttura associativa a carattere iniziatico, e che poi si trovi a giudicare una causa patrocinata da un “fratello” di loggia, si muove in un territorio minato. L’obbligo di astensione, previsto dall’articolo 51 del Codice di procedura civile e dall’articolo 36 del Codice di procedura penale, nasce per prevenire non solo il rischio di parzialità effettiva, ma anche il sospetto di essa. Secondo gli indirizzi consolidati del Consiglio Superiore della Magistratura, anche la mera immagine di incompatibilità è idonea a compromettere la credibilità dell’ordine giudiziario. E qui la questione non è più di diritto, ma di fiducia: l’imparzialità non è solo un comportamento, ma anche un dato percepito.
In questa prospettiva, la partecipazione a una consorteria riservata – quale la Massoneria – contrasta con il principio d’imparzialità e con la dignitas officii. Immaginiamo, per ipotesi, un giudice che debba pronunciarsi su una controversia civile in cui l’avvocato di una parte risulti affiliato alla medesima loggia. Anche se quel magistrato fosse interiormente integerrimo, e la decisione giuridicamente corretta, il sospetto che una fratellanza segreta possa aver influito su valutazioni o tempistiche è sufficiente a corrodere la fiducia dei cittadini. È un danno simbolico, ma irreparabile: la giustizia, per essere credibile, deve apparire limpida, e l’ombra è già colpa.
Il vero discrimine, tuttavia, non consiste in un divieto normativo di appartenenza – che l’ordinamento non prevede in via astratta – ma negli effetti che tale appartenenza produce sul piano dell’apparenza di imparzialità. L’etica giudiziaria, come interpretata dal CSM, non vieta la partecipazione del magistrato a determinate associazioni, ma impone che nessun vincolo riservato possa risultare idoneo, anche solo potenzialmente, a compromettere la fiducia nella terzietà del giudice. In questo senso, l’affiliazione a una struttura iniziatica, basata su vincoli identitari e rituali sottratti alla verifica sociale, pur astrattamente lecita, può tradursi in una condizione oggettivamente incompatibile con l’esercizio della funzione, proprio perché genera una zona d’ombra che contrasta con il principio costituzionale di imparzialità. Non a caso, anche la giurisprudenza disciplinare – in applicazione dell’art. 3 del D.Lgs. 109/2006 – qualifica come rilevanti, ai fini dell’indipendenza, quei legami associativi che possono incidere sull’apparenza di imparzialità.
La questione non si esaurisce però con i magistrati.
Un profilo spesso trascurato riguarda infatti gli avvocati. Pur non essendo titolari di una funzione pubblica in senso stretto, essi svolgono un ruolo necessario e costituzionalmente rilevante per l’amministrazione della giustizia (art. 24 Cost.). La loro posizione, pur privata, si colloca in un’area di prossimità funzionale all’esercizio della giurisdizione, e ciò rende rilevante il tema della trasparenza anche per la professione forense.
La loro eventuale appartenenza a consorterie iniziatiche può determinare, in concreto, situazioni di asimmetria relazionale in udienza, specie quando il difensore si trovi davanti un magistrato appartenente alla medesima loggia. Sebbene l’avvocato non sia soggetto agli obblighi di imparzialità propri del giudice, il rischio di una “vicinanza occulta” può alterare la percezione di parità delle parti e minare la fiducia nella funzione difensiva, che si fonda sulla terzietà del foro rispetto ai poteri pubblici. Non è un caso che in alcune indagini territoriali siano emerse reti di relazione opache tra professionisti e magistrati, percepite come idonee – anche solo potenzialmente – a incidere sulla linearità del processo decisionale.
Peraltro, lo stesso ragionamento può estendersi al terreno politico e amministrativo, dove l’esercizio della discrezionalità decisionale rende ancora più delicato il rapporto fra appartenenza e imparzialità. Il sindaco che affidi un appalto, l’assessore che nomini un dirigente o il funzionario che assegni un contributo pubblico operano spesso in ambiti in cui la scelta non è meramente tecnica, ma fiduciaria. In tali contesti, la trasparenza diventa presidio sostanziale della democrazia: non basta che la decisione sia conforme alla legge, occorre che appaia scevra da ogni possibile vincolo occulto o da reti relazionali non dichiarate. Anche qui, come per il magistrato, non è in discussione la correttezza soggettiva, ma la credibilità percepita dell’atto. La discrezionalità amministrativa, se esercitata in condizioni di opacità, si trasforma in potere personale e mina la legittimazione dell’autorità pubblica. È per questo che il legislatore, con il D.Lgs. n. 33 del 2013 e il D.Lgs. n. 39 del 2013, ha imposto regole sempre più rigorose in materia di conflitti d’interesse e obblighi di dichiarazione, nella consapevolezza che la fiducia pubblica si alimenta solo nella visibilità delle scelte. L’amministratore, come il giudice, non deve soltanto essere imparziale, ma anche mostrarsi tale, perché nella Repubblica della trasparenza la discrezionalità non è privilegio, ma misura della responsabilità.
In tale quadro, la gestione dei conflitti d’interesse deve essere guidata dal principio di proporzionalità: non ogni legame richiede misure drastiche, ma soltanto quelli che, effettivamente, possono minare l’imparzialità. Accanto a ciò, si colloca la categoria dell’incompatibilità “potenziale”, come definita dalla dottrina, secondo cui il semplice accumulo di poteri o appartenenze contestuali può generare un rischio percepito di conflitto, sufficiente a compromettere la fiducia pubblica. È questo insieme di regole e cautele che consente di tradurre in pratica il principio secondo cui la discrezionalità amministrativa, pur necessaria, deve sempre apparire libera da influenze occulte e visibile nella sua correttezza, garantendo così non solo l’effettiva imparzialità, ma anche la percezione di trasparenza indispensabile alla legittimazione delle istituzioni.
Qualcuno potrebbe però obiettare che anche l’iscrizione ad altre associazioni – come Rotary, Lions o altre organizzazioni filantropiche di servizio alla comunità – crei legami personali. Ma il parallelismo è solo apparente. In quelle realtà, l’appartenenza è pubblica, gli scopi dichiarati, la struttura trasparente. Non vi è vincolo iniziatico né giuramento di segretezza. La differenza, più che giuridica, è assiologica: la prima esprime una forma di socialitas civile, la seconda una fratellanza rituale che pretende riservatezza e fedeltà esoterica. È qui che si coglie la distanza tra la civitas e il tempio, tra l’agorà e la loggia, tra la Repubblica come spazio di confronto e la confraternita come luogo di riconoscimento. Il problema, dunque, non è l’appartenenza, ma la sua opacità.
Non è però un caso che il legislatore, con un realismo giuridico che spesso precede la teoria, abbia previsto l’obbligo di astensione anche nei casi di semplice commensalità abituale, riconoscendo che perfino il condividere con regolarità una mensa può generare un dubbio di imparzialità. Se il diritto considera rilevante un rapporto tanto ordinario, quanto più lo sarà un vincolo iniziatico che si fonda su giuramenti e su un senso di appartenenza spirituale e simbolica. La differenza non è solo di grado, ma di natura: la commensalità si dissolve nella vita civile, la fratellanza massonica tende invece a permanere come legame identitario e a rivendicare una propria area di riservatezza rispetto al giudizio pubblico.
Sul piano normativo, l’esigenza di trasparenza si è rafforzata con il decreto legislativo n. 33 del 2013, che ha introdotto il principio della ratio reddenda – o, come si dice oggi, della accountability – quale regola generale dell’amministrazione aperta. Il pubblico funzionario non solo deve essere imparziale, ma deve poter dimostrare di esserlo: un’etica della visibilità che integra e supera la tradizionale dimensione della opacità burocratica. Nella prospettiva contemporanea, la trasparenza non è più un adempimento, ma un valore strutturale dell’azione pubblica, un criterio di legittimazione che opera prima ancora della decisione amministrativa.
Si può distinguere, a questo proposito, tra tre livelli di trasparenza: quella istituzionale, garantita dalle dichiarazioni obbligatorie; quella sociale, che consente la conoscibilità pubblica dei dati e delle relazioni; quella etica, che affonda le radici nella disclosure volontaria e nella responsabilità personale, ossia nella scelta di rendere visibili i propri legami anche quando non è imposto dalla legge.
Da qui discende anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato che, in più occasioni, ha legittimato l’obbligo per determinate categorie di rendere dichiarazioni sull’appartenenza a logge o confraternite, in nome della prevenzione dei conflitti d’interesse e della salvaguardia dell’imparzialità amministrativa. Si tratta di una visione che sposta l’asse dal controllo alla fiducia, perché ciò che è dichiarato può essere giudicato, ma ciò che è occulto genera diffidenza.
Proprio in questo solco, negli ultimi anni, si è riacceso il dibattito intorno a una prassi peculiare: la presunta consegna, da parte delle logge massoniche, di elenchi nominativi degli affiliati alle Prefetture o al Ministero dell’Interno. La notizia, più volte rilanciata da organi di stampa e oggetto di accese controversie, si fonda su richieste di trasparenza provenienti talvolta da Commissioni parlamentari d’inchiesta – come quella Antimafia – che, nell’intento di prevenire infiltrazioni occulte nella vita pubblica, hanno domandato agli ordini massonici l’elenco dei propri iscritti. Alcune obbedienze, come la Gran Loggia Regolare d’Italia, hanno dichiarato di trasmettere periodicamente tali elenchi alle autorità ministeriali, mentre altre hanno contestato la legittimità di simili richieste, invocando la tutela della privacy e la libertà associativa garantita dall’articolo 18 della Costituzione. Il quadro che ne emerge è disomogeneo, a tratti incerto, oscillante tra la volontà di trasparenza e il timore di stigmatizzazione. Ed è proprio questa ambiguità che merita una riflessione più ampia.
Il dibattito rivela una contraddizione strutturale: la richiesta di trasmettere elenchi alle autorità pubbliche rimane, in fondo, una forma di “trasparenza verticale”, che non giunge al cittadino e non realizza quella fiducia diffusa che il sistema democratico richiede. È una trasparenza “di palazzo”, più vicina alla logica del controllo che a quella della accountability pubblica.
In un’epoca caratterizzata dall’accesso civico generalizzato e dal Freedom of Information Act, il FOIA non è solo uno strumento procedurale: esso incarna un principio di accountability democratica, che sposta il baricentro della trasparenza dall’autorità al cittadino. L’accesso civico permette infatti non solo di conoscere i dati, ma di valutare l’operato della pubblica amministrazione, esercitando una forma di controllo partecipativo e prevenendo conflitti d’interesse e discrezionalità opaca. In questo senso, la trasparenza non è mera pubblicazione di informazioni, ma attivazione di fiducia diffusa: ciò che è reso conoscibile può essere scrutinato e giudicato, mentre ciò che rimane occulto genera inevitabilmente sospetto e sfiducia. In tale contesto, l'idea dell’elenco riservato consegnato a un’autorità appare una forma di trasparenza asimmetrica che tutela la conoscenza istituzionale ma non realizza quella fiducia diffusa che costituisce la vera essenza della fides publica.
Se la democrazia richiede forme elevate di conoscibilità, allora la riservatezza amministrata non basta. Si rischia, paradossalmente, di trasformare il controllo in segreto di Stato, replicando proprio quella cultura dell’occultamento che si vorrebbe superare. Al tempo stesso, non si può ignorare il diritto alla riservatezza dei singoli affiliati, che restano cittadini titolari di diritti di libertà e protezione dei dati personali. Va anche sottolineato il diritto alla reputazione delle associazioni stesse: la divulgazione indiscriminata di elenchi potrebbe ledere l’immagine e la dignità di un gruppo costituzionalmente legittimo, come evidenziato dalle linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) e dalla normativa europea sul trattamento dei dati personali. È opportuno ricordare che il GDPR non riconosce un “diritto all’anonimato” in senso tecnico, ma tutela la protezione dell’identità e dei dati personali attraverso i principi di minimizzazione, pertinenza e necessità, che impongono di bilanciare trasparenza e riservatezza in modo proporzionato.
In questa tensione fra diritti fondamentali e tutela dell’interesse pubblico si inserisce una riflessione più ampia sulla postura etica delle istituzioni. La trasparenza non è un dovere “poliziesco”, ma un principio di civiltà giuridica: è la forma contemporanea della fides publica. Lo Stato costituzionale non pretende di conoscere ogni relazione privata, ma pretende che nessun potere si sottragga alla visibilità democratica, specie quando incrocia l’esercizio di funzioni pubbliche. Il punto critico non è l’esistenza della Massoneria, ma la sua persistenza in forme rituali e simboliche che — con ironia — appaiono oggi più affini ai “grembiulini” di un’altra epoca che alla cultura moderna dell’amministrazione aperta.
Il vero discrimine è dunque la sovrapposizione fra appartenenza riservata e potere istituzionale, che rischia di generare spazi grigi in cui la legalità formale non coincide più con la legittimità sostanziale. Quando un magistrato, un amministratore o un ufficiale pubblico assumono decisioni che richiedono non solo legalità, ma anche apparenza di imparzialità, qualsiasi vincolo fiduciario di natura iniziatica — impenetrabile ai terzi e sottratto alla verifica sociale — diventa oggettivamente incompatibile con l’esercizio della funzione.
Da questa premessa discende una considerazione che reputo inevitabile: per i magistrati, l’appartenenza a consorterie iniziatiche non dovrebbe solo imporre obblighi di astensione più ampi, ma configurare una vera e propria incompatibilità assoluta. È una conclusione che affonda nel principio di indipendenza interna ed esterna della giurisdizione, e che trova eco nella giurisprudenza del CSM: la sola possibilità che un rapporto occulto influenzi, anche indirettamente, il giudizio, è sufficiente a compromettere la fiducia del cittadino nella giustizia. Il modo in cui un giudice appare è parte integrante del suo ruolo: come ammonisce, inter alia, la giurisprudenza europea, la giustizia deve non solo essere imparziale, ma anche apparire tale.
Il problema, naturalmente, non riguarda solo la magistratura. In qualunque settore delle pubbliche funzioni — dalla politica locale alla dirigenza amministrativa — l’appartenenza massonica non dichiarata può determinare zone d’ombra difficili da accettare in un ordinamento che ha elevato la trasparenza a principio generale. L’amministrazione moderna vive di accountability diffusa: l’atto pubblico non è solo espressione del potere, ma è esposto allo sguardo critico della collettività. Per questa ragione, la riservatezza iniziatica si inserisce in un paradigma che non è più quello della burocrazia chiusa, bensì della governance aperta.
È in questo scenario che va interpretato anche il dibattito contemporaneo su possibili obblighi di dichiarazione pubblica per gli affiliati che rivestano cariche istituzionali. Non si tratta di un’operazione punitiva o discriminatoria: la disclosure non è un marchio, ma uno strumento di prevenzione etica, una forma di lealtà repubblicana. Rende visibile ciò che potrebbe incidere sulla fiducia collettiva e restituisce al cittadino la possibilità di valutare. Non elimina il diritto di associarsi, ma impedisce che tale diritto diventi uno schermo per poteri paralleli.
La tensione fra libertà associativa e trasparenza istituzionale, dunque, non può essere risolta con un approccio binario. Essa richiede un equilibrio dinamico, fondato sul principio di proporzionalità e sulla ricostruzione di un’etica pubblica che non demonizza le appartenenze, ma le colloca entro un quadro di visibilità e responsabilità. La Costituzione non vieta la Massoneria; vieta il segreto che diventa strumento di potere. Ed è proprio qui che si colloca il discrimine: non il rito, ma l’opacità; non la confraternita, ma la sua eventuale capacità di interferire — o apparire in grado di interferire — con il corretto funzionamento delle istituzioni.
In definitiva, ciò che emerge è che la questione non è solo giuridica, ma culturale. La Repubblica chiede ai suoi servitori non solo osservanza della legge, ma un surplus etico che permetta alla comunità di riconoscere nel potere pubblico un potere affidabile. La trasparenza non è una virtù accessoria: è la condizione stessa della democrazia. E in questa prospettiva, qualunque appartenenza che si sottragga alla conoscibilità sociale diventa, più che incompatibile, anacronistica.
È forse questo il nodo più profondo: non la rilevanza giuridica della Massoneria, ma la sua difficoltà a conciliarsi con il paradigma contemporaneo della pubblicità amministrativa. Le logge possono continuare a esistere, come previsto dall’articolo 18, ma non possono pretendere che i custodi della cosa pubblica abitino contemporaneamente due mondi: quello della Repubblica aperta e quello della riservatezza iniziatica. La democrazia vive di luce: l’ombra, anche quando non è colpa, è già sospetto. E il sospetto è il nemico più sottile della fiducia istituzionale.