Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

Le regole sulla cittadinanza o l’autoreferenzialità di un potere che non vuole invecchiare

di Daniela Consoli
avvocata del Foro di Firenze, socia ASGI

L’Italia disciplina attualmente l’acquisto della cittadinanza con regole sostanzialmente regressive rispetto a quelle vigenti all’inizio dello scorso secolo. La legge 91/92 ripete, infatti, la legge n. 555 del 1912, ed anzi, lega la questione dello status ai flussi migratori in entrata, restringendone l’accesso ai nuovi cittadini. Così se, nel corso degli anni, anche in attuazione di specifici obblighi comunitari, i residenti possono vantare o pretendere, la piena parità nell’ambito dei diritti civili e sociali, l’accesso ai diritti politici, decretato dall’acquisto della cittadinanza, rimane costretto in logiche già tracciate e non “aggiornate” agli avvenimenti che hanno connotato il XIX secolo. Un ritardo, o meglio un anacronismo, che esclude le tante generazioni di giovani che, in parte invertendo la linea di tendenza dei loro coetanei “italiani”, chiedono di partecipare al fine comune che, ieri come oggi, consiste nel buon governo della comunità.

1. La breve nota che segue riguarda il disegno di legge che modifica la legge sulla cittadinanza n. 91/92 consentendo ai minori nati in Italia, o entrati prima dei dodici anni, che abbiano frequentato un ciclo di studi quinquennale, di acquisire, iure proprio, la cittadinanza italiana.

La riforma, così come proposta, va incontro alle richieste dei giovani di cd. seconda generazione, italiani per formazione e cultura, privi dello stato di cittadinanza, e, colma, in parte, i danni di una legge, quale quella attualmente in vigore, frutto dell’assenza, ieri come oggi, di un approfondimento, da parte della politica, del senso e del valore da attribuirsi alla cittadinanza.

E, dunque, prima di dar conto, nello specifico, della modifica proposta, appare opportuno articolare un ragionamento ampio nel tentativo di depurare il tema da suggestioni che, alla prova dei fatti, presentano alcuna consistenza. 

 

2. La definizione di cittadinanza, e di cittadino, è soggetta a mutare nel tempo e nello spazio, e ha da sempre impegnato filosofi, sociologi, giuristi ecc. per la centralità che il tema ha rivestito e riveste nelle organizzazioni statali.

Prima della rivoluzione francese il criterio attributivo della cittadinanza era, generalmente, dato dal luogo di nascita dell’individuo, perché è nell’ambito territoriale che veniva definita la sudditanza dell’individuo al potere costituito. All’epoca la condizione, e l’identità delle persone, infatti, era piuttosto conseguente al censo di appartenenza che determinava classe e privilegi delle persone. 

In seguito, in Europa, e più in generale nei Paesi di diritto civile, il criterio di attribuzione dello status divenne lo ius sanguinis, mentre negli Stati di common law si continuò ad utilizzare il criterio dello ius soli, che, nel rinnovato contesto storico, valorizza la volontà dell’individuo di adesione ad un progetto comune. La cittadinanza come elemento d’inclusività e non di distinzione.

Nell’Europa del XVIII e XIX il criterio dello ius sanguinis diventa, tra l’altro, funzionale alla creazione, affatto veritiera, dei cd Stati Nazione, enti territoriali delimitati da confini entro i quali si suppone insistere una comunità di persone legate da una comune origine e, dunque, omogenea secondo una rappresentazione che induce senso di apparenza nelle popolazioni stanziate entro i confini territoriali che si andavano costituendo a seguito del crollo degli imperi e delle guerre fratricide.  

Tuttavia il concetto di Nazione, proprio perché strumento di realizzazione di determinate idee e/o interessi, è affatto univoco, delineandosi, di volta in volta, in ragione degli scopi perseguiti. Così ad esempio in epoca risorgimentale la Nazione non evoca quella che oggi consideriamo essere la definizione tradizionale, ovvero un insieme di persone accomunate da una stessa lingua e/o cultura, quanto piuttosto diverse comunità, parlanti diverse lingue, unite dall’intenzione di dar vita ad un percorso comune.

La definizione era, però, obbligata perché riferita a un territorio, la penisola italica, che tra gli Stati europei risulta essere stato quello maggiormente invaso e colonizzato, con una popolazione frastagliata e multiforme per culture, lingue e tradizioni. L’esistenza di una Nazione, come propagandata dagli intellettuali dell’epoca, ha portato all’unificazione politica. Solo a distanza di un secolo dalla sua realizzazione le comunità della penisola si sono riconosciute, e non sempre, in elementi identitari quali la lingua e la cultura. 

 

3. La realizzata unificazione politica ha comportato l’estensione, su tutto il territorio, dello Statuto Albertino che assoggettava al sovrano tutti gli abitanti del Regno («i regnicoli»,art. 24) concedendo loro eguaglianza formale (nella declinazione del tempo considerato), ma, in linea con i tempi, il legislatore italiano già con l’emanazione del codice civile del 1865 adotta il diverso criterio dello ius sanguinis per regolare l’acquisto o la trasmissione della cittadinanza italiana. 

Nel 1912 viene varata la prima legge organica sulla cittadinanza, la n. 555, che, in continuità con il codice civile assume il criterio dello ius sanguinis per attribuire o trasmettere la cittadinanza. 

La legge prevede accanto al cd diritto di sangue l’acquisto dello status per naturalizzazione e a tal fine elenca all’art. 4, una pluralità di ipotesi, alle quali premette il procedimento di formalizzazione/concessione da parte delle Autorità: «la cittadinanza italiana, comprendente il godimento dei diritti politici, può essere concessa per decreto reale, previo parere favorevole del Consiglio di stato: 1) allo straniero che abbia prestato servizio per tre anni allo Stato italiano, anche all’estero; 2) allo straniero che risieda da almeno cinque anni nel Regno; 3) allo straniero che risieda da tre anni nel Regno ed abbia reso notevoli servigi all’Italia od abbia contratto matrimonio con cittadina italiana 4) dopo un anno di residenza a chi avrebbe potuto diventare cittadino italiano per beneficio di legge, se non avesse omesso di farne in tempo utile espressa dichiarazione».     

Al netto delle ipotesi che si riferiscono ad atti di concessione per benefici di legge, il Regno riconosce la cittadinanza per quanti, esclusi per nascita, la reclamino per avere prestato la propria attività lavorativa per lo Stato anche all’estero «per tre anni» o per essere residente in Italia per  cinque.

Riguardo ai minori di età si prevede l’acquisto della cittadinanza per nascita se il padre è cittadino, o la madre se il primo è ignoto o non ha la cittadinanza italiana o altra, o se non può trasmettere la sua al figlio, o ancora, se entrambi i genitori sono ignoti o privi di alcuna cittadinanza o con cittadinanza intrasmissibile al figlio. Il figlio di ignoti trovato nel Regno si presume nato in Italia. 

E ancora si prevede che acquistino la cittadinanza alla maggiore età coloro che nati in Italia o figli di genitori ivi residenti da 10 anni al tempo della nascita a) prestino servizio militare nel Regno o abbiano accettato un impegno nello Stato; 2) alla maggiore età risiedano nel Regno e entro un anno dichiarino di eleggere la cittadinanza italiana: 3) risiedano nel Regno da almeno dieci anni e entro un anno non dichiarino di volere conservare la cittadinanza straniera (art. 3). 

La legge del 1912 rimane in vigore sino al 1992, sebbene ridimensionata riguardo alla discriminazione tra genitori dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1983. 

Attraversa indenne quasi tutto il diciannovesimo secolo, indifferente ai radicali mutamenti, nella struttura politica (e anche territoriale) dello Stato e nel pensiero comune. Un lungo periodo, quello tra le due leggi, denso di avvenimenti e svolte epocali: due guerre mondiali, il passaggio dalla monarchia alla repubblica, dallo Stato liberale al ventennio fascista, alla nascita dello Stato democratico repubblicano e laico e della sua Costituzione, alle rivoluzioni nelle mentalità e nel costume, ai flussi migratori, al diverso modo di relazionarsi attraverso le nuove tecnologie, e, quanto di altro può aggiungersi al vasto elenco che riguarda tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica. 

 

4. Tuttavia e ciò nonostante la legge sulla cittadinanza italiana rimane sostanzialmente invariata e in vigore sino a quando, agli inizi degli anni novanta, un parlamento italiano, fortemente preoccupato dalle inchieste giudiziarie in corso cd tangentopoli, approva senza discussione, quasi all’unanimità, dopo quasi un secolo, la cd. nuova legge sulla cittadinanza. Si tratta di una legge, redatta in modo sbrigativo, che ben rappresenta e condensa in sé i timori del legislatore storico per il presente e il futuro, priva di visione e prospettiva.

Il testo, velocemente approvato, è sostanzialmente un testo di ricognizione dell’esistente «un testo modesto» «redatto veramente male», come ebbe a presentarlo l’allora Presidente della Commissione della Camera dei deputati, il socialista Silvano Labriola. 

Ad aggravare la qualità della legge n. 91 del 5 febbraio 1992 è l’idea che parlare di cittadinanza implichi necessariamente parlare di immigrazione, così, nel descritto caotico contesto, il provvedimento lega il suo destino, indissolubilmente, all’altrettanto, poco o affatto approfondito, tema della migrazione. La cd. Legge Martelli n. 39/90 precede di soli due anni quella sulla cittadinanza, e affronta in modo emergenziale e, altrettanto superficialmente, una situazione che già da tempo interessava l’Italia, introducendo nell’ordinamento giuridico italiano istituti che hanno comportato quella involuzione di pensiero che si è tradotta nella acquiescenza ad un trattamento giuridico differenziato per quanti risiedono in Italia privi dello status di cittadino. E’, infatti, ormai, un dato da lungo tempo acquisito che i cittadini non comunitari siano soggetti all’osservanza di un diritto speciale, anche se stanziali sul territorio, dismettendo la condizione di migrante ben oltre il momento dell'arrivo . Migranti quasi per natura! 

 

5. Un testo, la legge 91/92, venuto alla luce allo scopo, da un lato di aggravare per i cittadini non comunitari le barriere temporali per aspirare, attraverso la cd naturalizzazione, alla benevola ammissione da parte delle Autorità, alla partecipazione politica, e dall’altro di “conquistare” i discendenti degli emigranti conferendo loro il crisma della italianità, data dalla continuità del legame di sangue con l’avo, che vale lo status di cittadino. L’iter inclusivo dei discendenti dei cittadini italiani sarà completato, con legge n. 459/2001, con il riconoscimento del diritto di voto alle elezioni politiche. In questa prospettiva la cd italianità, elevata a requisito attributivo della cittadinanza, rimane un concetto generico e, dunque, privo di significato, senso e/o perimetro. Basti riflettere sul fatto che l’italianità connota i discendenti, anche da più generazioni, degli emigranti altrove cittadini e residenti che, a loro volta, si riconoscono come appartenenti alla comunità in cui attualmente vivono, che, eppure, attraverso il riconoscimento della cittadinanza hanno l’esercizio dei diritti politici. 

Nel dibattito pubblico/politico italiano che ha condotto alla legge 91/92 è del tutto assente il tema centrale per ogni organizzazione statale e non, dato dal rapporto che deve sussistere tra governanti e governati, così come su quale sia la definizione di cittadino accolta dal legislatore per rispondere alla domanda di chi sia e di chi dovrebbe essere considerato tale. Neanche dopo oltre 40 anni dal rivoluzionario cambiamento di regime dalla forma monarchica, fascista e confessionale ad una  repubblicana, democratica e laica, il legislatore italiano del 1992 ha approfondito il tema della cittadinanza considerandolo, per un verso, assorbito dal tema della condizione giuridica del migrante e, per altro verso, influenzato da considerazioni metagiuridiche prive di contenuto sostanziale che rimandano alla supposta necessità di difendere l’italianità contro coloro, che pur facendo parte della comunità italiana, non ne sarebbero portatori. 

In tal modo sono rimasti esclusi dall’accesso alla cittadinanza coloro che hanno scelto di vivere in Italia e qui operano, tanto che, dopo quarant’anni di pratica democratica repubblicana, l’Italia si presenta con le regole più restrittive tra gli Stati europei. La legge, 91/92 infatti, raddoppia, per l’aspirante cittadino per naturalizzazione, il periodo di interrotta permanenza in Italia, che da cinque viene elevato a dieci anni (art. 9) ed abolisce l’ipotesi di un più breve periodo giustificato dall’avere svolto attività lavorativa in favore di enti pubblici. 

La naturalizzazione, dopo 10 anni di permanenza continuativa sul territorio, si acquista solo attraverso un atto “concessorio” della pubblica amministrazione, assunto, ai fini della sua giustiziabilità, nella “obsoleta” e mai del tutto chiarita categoria dell’interesse legittimo (o meglio, forse in una categoria che appare addirittura sott’ordinata rispetto allo stesso interesse legittimo).

La legge 91/92, dunque, restringe il perimetro di inclusione delle soggettività che fanno parte della comunità, e adotta un criterio, per la naturalizzazione, restrittivo rispetto alla legge del 1912 che non era stata modificata neanche durante il fascismo.

Le limitazioni nell’acquisto della cittadinanza per gli adulti inevitabilmente si riflettono sulla condizione giuridica dei figli minori. L’attuale legge disciplina la loro condizione riportando pedissequamente le norme della legge 555 e dunque si prevede la trasmissione della cittadinanza dai genitori o il suo acquisto dalla nascita se i genitori sono ignoti o apolidi, o se stranieri, in base alla legge di quel paese non può acquistarla. E’ cittadino per nascita il figlio di ignoti e lo diviene il figlio riconosciuto o nei confronti dei quali è decretato l’obbligo di mantenimento da genitori italiani se minore e se il riconoscimento è da maggiorenne entro l’anno dalla dichiarazione. 

Ma è evidente che se il genitore non è più messo in condizione di acquistare la cittadinanza in un lasso di tempo ragionevole rispetto al suo ingresso, non può farne partecipe il figlio minore, che, nella gran parte dei casi, resterà escluso dall’accesso allo status.  

Tanto è vero che l’attuale legge prevede che il maggiorenne, che non ha avuto accesso alla cittadinanza alla minore età, possa acquistarla se nato in Italia e ivi residente interrottamente sino alla maggiore età. Il che rimanda all’idea di un genitore, o di chi ne fa le veci, regolarmente residente in Italia da 18 anni eppure privo dello status di cittadino.

 

6. La barriera temporale, le difficoltà nell’avviare la pratica di “concessione”, i tempi di attesa della risposta (dapprima due anni, passati a quattro, e oggi a tre aumentabili a quattro) la carente “giustiziabilità” dell’eventuale diniego, i tempi di attesa e i costi di un ricorso (ancora oggi la giurisprudenza inquadra la domanda tra gli interessi legittimi affidando la giurisdizione - da limitarsi alla correttezza formale della procedura - vedi per tutte sezioni Unite Cassazione n. 29297/21 - al Tribunale Amministrativo di Roma che oberato dal contenzioso in materia ha tempi di fissazione di udienza particolarmente lunghi), sono tutti elementi che hanno profondamente inciso sull’attuale condizione delle cd. seconde generazioni.

Diversamente, il legislatore, da ultimo, ad esempio, è intervenuto per agevolare, modificando la completezza territoriale per i soli procedimenti aventi ad oggetto l’acquisto della cittadinanza iure sanguinis, il ricorrente che, anche se residente all’estero, potrà incardinare la causa nel luogo di residenza dell’avo (c. 36 art. 1 legge 206/21 entrato in vigore dal 22 giugno) 

Le restrizioni imposte nell’acquisto della cittadinanza per gli adulti/genitori non comunitari, come detto, si riflettono sulla condizione dei giovani che vivono in Italia.

Si tratta di una moltitudine di minori, poco meno di un milione, nati in Italia o arrivati da piccoli che formano le classi delle scuole materne, delle elementari e degli istituti superiori, che crescono, oltre che in famiglia, con i compagni e gli amici, con i maestri e professori, e, più in generale, nella rete di relazioni affettive e sociali che, ciascuno per la propria parte, contribuirà a farlo diventare adulto.

Minori che, in Italia, rimangono “stranieri”, e quel che è peggio che si percepiscono e vengono percepiti come stranieri, perché il progetto di vita dei loro genitori non è stato portato a compimento. 

 

7. Neanche il trentennio trascorso dall’approvazione della “nuova legge sulla cittadinanza”, pur denso di avvenimenti, ha indotto il legislatore a un cambio di regime. 

In Italia, abbiamo assistito al definitivo disfacimento dei partiti politici tradizionali, e l’attuarsi di un diverso sistema politico e di relazioni, alla realizzazione di una, non ancora ma più compiuta integrazione europea, al declino della situazione demografica, all’acquisto della cittadinanza europea, all’affermarsi di nuovi lavori con le irreversibili modifiche delle relazioni sociali, e, più in generale, agli effetti della globalizzazione, al ritorno dei sovranismi, ad un rinnovata sensibilità sui temi ambientali, all’incombenza dei cambiamenti climatici.

 Tuttavia, ancora una volta il dibattito pubblico è rimasto avulso da ogni seria considerazione sul concetto di cittadinanza e sul ruolo delle cittadine e dei cittadini nell’organizzazione statale. Tutto questo è assente nel dibattito sulla cittadinanza, e anzi la legge 91/92, inasprita rispetto alla precedente, trova conferma e adesione nell’interpretazione giurisprudenziale, dove si è fatta spazio l’idea che la cittadinanza possa e debba essere concessa dalla pubblica amministrazione (e quindi dall’emanazione del potere esecutivo) su base altamente discrezionale, ovvero valutando , in capo al richiedente, oltre che la sussistenza dei requisiti legali tipizzati, la condotta e lo stile di vita dell’aspirante cittadino, ben oltre il rispetto dei doveri costituzionali (per tutte Consiglio di Stato n. 4151/2021). Molte sono le decisioni che parlano di osmosi culturale senza spiegarne il significato e senza esplicitare cosa si richieda all’aspirante cittadino oltre al rispetto e all’adempimento dei doveri scolpiti nella costituzione e nelle leggi.

 

8. Ancora oggi sembra non esservi consapevolezza del fatto che la definizione di cittadino deve (o dovrebbe) essere conseguente al tipo di regime e di organizzazione politico sociale di riferimento e, che, sebbene i criteri legali per determinare l’attribuzione dello status siano ancora oggi esplicazione della sovranità dello Stato, per uno stato di diritto è d’obbligo valutare la loro ragionevolezza, adeguatezza, e se, rispettosi della Costituzione e delle norme comuni europee.

Sembra inoltre tralasciarsi l’importanza che riveste il fatto che la cittadinanza europea si acquisti per derivazione dall’acquisizione della cittadinanza di uno Stato membro, e il fatto che questo meccanismo comporti dei limiti nell’esplicazione, in materia, delle singole sovranità nazionali, obbligate a misurarsi con l’osservanza delle norme del trattato sul funzionamento dell’Unione (per tutte vedi decisione Micheletti causa 369/90; Kaur causa 192/99, Rottmann causa 135/08). 

In tal senso, il legislatore italiano, appare sordo alle indicazioni contenute nella Comunicazione che, già nel 2003, la Commissione Europea ha rivolto «Al Consiglio, al Parlamento Europeo, al Comitato Economico e Sociale Europeo e al Comitato delle Regioni» agli Stati membri per sensibilizzarli a consentire l’acquisto della cittadinanza per naturalizzazione con procedura «rapida, certa e non discrezionale. Gli Stati» afferma la Commissione «hanno facoltà di richiedere un periodo minimo di soggiorno, la conoscenza della lingua e di tenere nel debito conto la fedina penale. In qualsiasi caso, i criteri di naturalizzazione devono essere chiari, precisi e obiettivi e si deve limitare il potere discrezionale amministrativo, assoggettandolo al controllo giudiziario».

Nonostante i rilievi sin qui formulati e la centralità dell’argomento - per i minori che vivono in Italia, per le nuove e vecchie generazioni di “migranti”, e per gli stessi “italiani” che con questi ultimi condividono la comunità - il legislatore offre alcuna risposta sul senso e la portata della partecipazione dei residenti all’organizzazione sociale ed economica del Paese, né si sofferma a capire se si risolva in una criticità la loro esclusione dalla vita politica del Paese, che pure subiscono perché non investiti della possibilità di decidere e scegliere da chi farsi rappresentare; né ci si sofferma sulla legittimità o meno di enucleare dall’ambito dei diritti umani i diritti politici limitandone l’esercizio.

Un ripensamento complessivo della legge, mal fatta, richiede chiarezza di idee a partire dalla definizione stessa di cittadinanza, anche alla luce del testo costituzionale e del diritto unionale, in modo tale che si possano ristabilire i limiti in capo al legislatore nel disciplinare la materia; limiti che sono connaturali al regime di riferimento, che, se vuol dirsi democratico, comportano la ricerca di un giusto (legittimo) equilibrio “governanti e governati”, tenendo presente che sono i primi a dover trovare nei secondi la stessa “licenza” di esistere. 

 

9. Così anche il modesto tentativo di introdurre, nella legge 91/92, che rimarrebbe invariata, una disposizione che “ratifichi” l’italianità dei minori nati o arrivati in Italia prima dei 12 anni, è oggetto di accesa discussione. 

In Parlamento si tenta di calendarizzare la discussione sul testo di legge licenziato dalla Commissione affari costituzionali della Camera dei deputati, che va sotto il nome di ius scholae, che aggiunge all’art. 4 della legge 91/92 i commi 2 bis e ter del seguente tenore «2-bis. Il minore straniero nato in Italia o che vi ha fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età che risieda legalmente in Italia e che, ai sensi della normativa vigente, abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale, acquista la cittadinanza italiana. Nel caso in cui la frequenza riguardi la scuola primaria, è altresì necessaria la conclusione positiva del corso medesimo. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'istruzione, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano ai sensi dell’art. 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997 n. 281,sono definiti i requisiti essenziali che i percorsi di istruzione e formazione professionale devono possedere ai fini dell'idoneità a costituire titolo per l'acquisto della cittadinanza. La cittadinanza si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell'interessato, da un genitore legalmente residente in Italia o da chi esercita la responsabilità genitoriale, all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età, l'interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza».

Se approvata la modifica introdurrebbe la possibilità per i minori nati in Italia e che vi hanno fatto ingresso entro i dodici anni di sentirsi ed essere riconosciuti cittadini italiani, con la possibilità, entro il termine di due anni dalla maggiore età, di scegliere se rinunciare alla cittadinanza italiana se titolari di altra.

La riforma si completa con l’aggiunta dell’art. 23 bis che prescrive all’Ufficiale dello Stato civile di informare della possibilità tutti i minori residenti, con sospensione dei termini di decadenza per la dichiarazione di acquisto, in caso di inadempimento. Nulla dice la riforma sulla possibilità di riconoscere uguale diritto alla cittadinanza a coloro che abbiano maturato i requisiti richiesti alla data di entrata in vigore della legge.

I giovani della cd seconda generazione rivendicano da tempo l’acquisizione dello status come misura di parità con i loro coetanei, ma soprattutto e, paradossalmente vista la rappresentazione apolitica dei giovani, chiedono la piena apparenza alla comunità. Del resto, studiano o dovrebbero studiare che la Carta Costituzionale, che orienta o dovrebbe orientare i comportamenti della popolazione italiana e, prima ancora, del legislatore ordinario, e che tra i principi fondamentali, all’art. 2, enuncia solennemente che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili solidarietà politica, economica e sociale».

Come negare, per un verso, che il precetto includa tra gli obblighi dello Stato quello di adottare tutte le misure idonee per far crescere i minori in modo che possano sviluppare appieno la propria personalità, individualmente e nell’ambito delle formazioni sociali ove si realizza, e per altro verso, come pretendere di educare le nuove generazioni all’adempimento dei doveri di solidarietà economica e sociale, escludendo dal novero quelli politici; doveri che il costituente, al contrario ed a ben vedere, tra i tre, enuncia, per primi, per l’evidenza che attraverso l’assolvimento dei primi si dà contenuto e consistenza ai secondi e terzi?

Le ragioni che militano in favore della parità di trattamento per i minori stabiliti in Italia sin dalla nascita o in età preadolescenziale sono molteplici e potrebbero essere elencate con dovizia di argomenti spaziando da ragioni di ordine psicologiche, sociologiche, filosofiche, oltre che giuridiche, senza riuscire, tuttavia, ad interloquire con le ragioni o meglio con le radici che motiva il rifiuto all’approvazione. 

Escluso che vi sia chi ritenga che possa riconnettersi al legame di sangue una valenza politica o che davvero attraverso il sangue trasmigri il senso di italianità.

E infatti, anche a volere ammettere come probante il riferimento al senso di italianità per l’attribuzione della cittadinanza, è necessario riflettere sul fatto che è più probabile che coloro che vivono in Italia e che qui seguono una pluralità di modelli educativi siano portatori di tale requisito/appartenenza. In particolare, è innegabile che l’offerta formativa scolastica educhi a ciò che sembra richiedere il legislatore al cittadino.  E’ la scuola che trasmette da una generazione all’altra i valori di riferimento della comunità o se si vuole della italianità, ed è ancora la scuola, attraverso il libero insegnamento dei docenti, ad essere considerata officina di cultura. Dalla scuola, Stato e comunità, pretendono la formazione dei nuovi cittadini per il progresso della società del domani, ed è compito della Repubblica fare in modo che i minori non subiscano discriminazione alcuna in ragione dell’origine nazionale, negandogli quel senso di apparenza alla comunità d’elezione.

Sono proprio coloro che pongono l’accento sul concetto di patria e di difesa della nazione che sembrano negare alla scuola il ruolo di trasmissione dei valori che “incarnano” l’identità nazionale da, necessariamente, ricondurre ai quelli costituzionali.

Si dimentica, come visto, che è stato proprio il lavoro delle prime maestre e maestri, nel periodo di postunificazione, che ha costruito, per l’Italia, il senso di appartenenza delle diverse comunità abitanti la penisola, così come si dimentica che è alla televisione e alla radio che si deve il conseguimento di una identità linguistica, in una popolazione, quella italiana, che al primo censimento era analfabeta per il 78%.

Dunque, coloro che ritengono che la cittadinanza sia uno status conseguente alla conclusione di un percorso formativo funzionale all’apprendimento di conoscenze identificative della comunità, non possono negare alla scuola il ruolo che le è proprio e che ha già attuato.

Tuttavia in luogo di un doveroso e costruttivo dibattito, assistiamo ancora una volta a uno scontro, e anzi ad una chiamata alle armi tra opposte fazioni, entrambe, sembra, armate più che di argomenti, di suggestioni. Così in luogo di un allineamento complessivo del tema sulla cittadinanza ai valori e principi costituzionali e unionali - unico profilo che fa propendere per non arrendersi a una semplice modifica della legge - ci si scontra/confronta emotivamente sul diritto del fanciullo nato in Italia, o ivi giunto prima dei 12 anni a divenire ed essere considerato cittadino italiano ed europeo. L’ostracismo all’introduzione dell’istituto è di tale portata che agli (anch’essi) “indifesi” cittadini italiani vien fatto pensare di partecipare a una battaglia per preservare un loro diritto che potrebbe essere leso: quell’italianità che mentre i minori di origine stranieri già hanno acquisito per essersi qui formati, potrebbe risultare carente nei minori italiani che, avendone la possibilità, prediligono formarsi all’estero e, comunque, contare su una formazione cosmopolita, dimostrando nei fatti, che, il richiamo all’italianità, indistinta e non declinata, è un concetto privo di contenuto, e si risolve in un mero alibi per perpetuare un sistema.

 

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16/06/2023
L’eccedenza del diritto di asilo costituzionale: il diritto di migrare in nome del «pieno sviluppo della persona»

Sommario. 1. Necropolitica e guerra ai migranti; 2. Le potenzialità del diritto di asilo: argomenti contro la distinzione fra migranti economici e richiedenti asilo; 2.1. Il dato testuale: l’art. 10, c. 3, Cost.: libertà democratiche ed effettività; 2.2. Il principio di non-refoulement e il divieto di trattamenti inumani o degradanti; 2.3. Diritti universali, uguaglianza e solidarietà: il «pieno sviluppo della persona umana» nella comunità mondiale di «pace e giustizia»; 3. Diritto di migrare, emancipazione e trasformazione

11/05/2023
L’influenza del diritto europeo ed internazionale sui diritti fondamentali dei migranti: a proposito del d.l. 1/2023

Il diritto europeo ed il diritto internazionale assumono ruoli determinanti nella tutela dei diritti fondamentali. La sua applicazione ai diritti dei migranti, tuttavia, viene declinata costantemente in modo restrittivo: il recentissimo DL 2 gennaio 2023 n. 1 ed i successivi provvedimenti applicativi contengono, infatti, alcune misure che si pongono in contrasto, anche secondo un’interpretazione letterale, con la normativa contenuta nelle convenzioni sul “soccorso in mare” e nel codice della navigazione.

06/02/2023