Magistratura democratica
Magistratura e società

Uno sguardo dall'esterno che resta impigliato *

di Luciana Breggia
già Presidente Sez. Specializzata Tribunale Firenze

Dentro lo zoo di Sollicciano la vita non è monotona, ogni giorno è diverso dall’altro e ci riserva delle sorprese, belle o brutte a seconda dello stato d’animo di coloro che vi abitano.
La recensione a "La portavoce. Racconti delle detenute di Sollicciano", a cura di Monica Sarsini (Contrabbandiera, 2022). 

L’inizio di questo libro contiene già le linee più intense che innervano il racconto di Cosetta, detenuta nel carcere di Sollicciano, e le storie delle compagne di cui si fa portavoce. 

Sollicciano è presentato come uno zoo e già questo indica la separazione dal resto del mondo e anche la potenziale riduzione ad uno stato animalesco ove si mostrano «zanne e bava alla bocca». Nello stesso tempo allude all’ estrema varietà di persone e situazioni. Luogo imprevedibile, dove le regole possono essere estromesse o diventare vessatorie e opache, è anche il luogo di «sorprese belle o brutte a seconda dello stato d’animo di coloro che vi abitano». E accanto a sopraffazioni e soprusi, alla paura di essere insultate, minacciate o anche picchiate da altre detenute nella doccia così, senza motivo, spuntano gesti di umanità dimenticati: la colletta delle detenute per una compagna che non ha familiari che possano inviarle denaro per una piccola spesa, come tabacco, francobolli, acqua, bibite, dolcetti, oppure la comprensione e la disponibilità di un’assistente che dispensa piccole preziose gentilezze. 

«Questo – annota Cosetta - dovrebbe essere il modo di affrontare la vita in carcere, aiutarsi, non picchiarsi, essere unite…se nessuno ci aiuta a rieducarci, facciamolo da sole, a piccoli passi, perché quando usciremo di qui dovremo essere migliori».

Una frase che colpisce chi legge il racconto della quotidianità della vita carceraria. Con maestria, con uno stile sobrio che lascia parlare le cose che accadono, i fatti che urlano di per sé, Cosetta ci conduce nei giorni senza tempo di Sollicciano, dando voce a se stessa e alle sue compagne. Ci insegna ad esempio il linguaggio del carcere: la concellina è la compagna di cella; il sopravvitto è quello che si può comprare due volte a settimana oltre ciò che "passa" il carcere; la spesina è la persona detenuta che ritira la lista della spesa delle compagne due giorni a settimana. E ancora, panneggiare vuol dire parlare con il proprio uomo dal terrazzino sventolando un panno: l’importante è che i due panni siano dello stesso colore e la sera è uno spettacolo, un ventaglio di cento colori. 

Cosetta ricorda e annota. La sua vita «sembra il vagone di un treno, in ogni scompartimento ci sono delle vite con delle sfaccettature e culture diverse». Per sentirsi al riparo da quella immensa solitudine ha «imparato ad ascoltare soprattutto quello che le…compagne detenute dopo aver scritto durante la settimana in cella leggono ad alta voce durante il corso di scrittura».

Così raccoglie le storie delle compagne del Laboratorio condotto da Monica Sarsini e storia dopo storia si delinea un mondo che in parte è altro e in parte no. Perché le emozioni, le passioni, le fragilità, gli istinti autodistruttivi, ma anche la solidarietà, l’affetto e tutti gli altri aspetti che emergono dal racconto sono, in fondo, quelli di tutti. Li conosciamo, ma non conosciamo il nuovo mondo in cui ora possono impastare l’esistenza delle persone: un mondo re-cluso, dunque chiuso, con il prefisso re- che indica ripetizione e aggiunge forza: chiuso e richiuso, continuamente, fino a farlo divenire inaccessibile.

Susanna, Valentina, Valeria e molte altre raccontano attraverso la voce narrante di Cosetta, e tramandano ricordi della vita di prima, episodi della vita in carcere, sogni, desideri, paure, nostalgie. Frammenti di vite spezzate, o ritratti più ampi, a volte a tinte forti, a volte quasi un chiaroscuro. 

Nel carcere, racconta Cosetta, si fa un uso capillare e sistematico di psicofarmaci per mantenere l’ordine e sedare i disagi nel modo più rapido e meccanico; disagi che, a dispetto delle pasticche, possono crescere e portare a gesti estremi di autolesionismo fino al suicidio. Chi rischia più di tutti sono le detenute trans. Se fuori sono emarginate, quando sono dentro tutto diventa più chiaro, più orribile, sono trattate come animali di uno zoo, «anzi peggio, come spazzatura di un mondo ipocrita e pieno di pregiudizi» che le trascina in quel buco da dove nasce la rabbia persino contro se stesse.

L’insicurezza e la mancanza di riservatezza dominano l’ambiente carcerario, come anche la alterazione e compressione dell’affettività. Una ragazza ha avuto un bambino in carcere: a tre anni è stato affidato a una famiglia e lei lo può vedere, certo, ma quando le negano un permesso premio per una visita si dispera e beve la varichina. Cosetta la vede passare davanti «trascinata in sedia a rotelle mentre un’infermiera la segue con il flacone della varichina in mano». Si deve lasciare tutto, non solo la propria libertà: figli, familiari, piccoli animali come la gattina Nikita che, chissà se mi riconoscerà , si dispera Alessia, ritornata in carcere per “un definitivo” dopo quattro anni di libertà. 

E’ necessario adattarsi, usare ogni cosa perché ogni cosa fa comodo, anche uno spazzolone lavato e disinfettato può essere usato per pulire le cozze per un cenone indimenticabile: in un mondo alla rovescia come il carcere si può anche sperimentare un Capodanno diverso, dove la battitura dei coperchi contro le sbarre e il blindo sembra un concerto di musica afro. Meglio della frenesia in giro per negozi, e dello stress per preparare i capodanni “di fuori”. 

Le agenti fanno scoppiare i mini-ciccioli e tirano frutta nelle celle, ricambiate. Almeno quel giorno, dice Cosetta, non esistevano sbirre e detenute, eravamo persone alla pari, senza pregiudizi, che insieme festeggiavano il nuovo anno. Come nel bellissimo film Ariaferma, di Leonardo Di Costanzo, c’è un momento sospeso, estraneo alla ordinarietà delle cose, dove si rivela un’umanità comune di guardie e carcerati.

Il motivo per cui si è in carcere, quasi sempre non lo scopriremo. Anche Cosetta parla del prima, di quando tutto è cominciato. Racconta una storia di maltrattamenti da parte di un marito-orco, di solitudine, la paura di perdere il figlio e il coraggio di reagire per non perderlo. Vorremmo saperne di più, ma né di altre, né di lei lo sapremo. E anche Cosetta non chiede più alle nuove venute quali reati abbiano commesso. Chi legge da fuori vorrebbe saperlo. Poi però si comprende presto che entrando in un ambiente così separato, quello che è avvenuto prima si sbiadisce, scolora oppure si rimuove, diviene insostenibile. Il carcere non è idoneo al ripensamento, perché obbliga a concentrare tutte le energie per apprendere come vivere e, anzi, sopravvivere in un altro universo dove è più facile sentirsi vittima che caricarsi del fardello di una colpa. 

Il Laboratorio di scrittura creativa a cui Cosetta partecipa, insieme ad altre compagne, è definito come uno dei momenti più importanti. Il Laboratorio, condotto da Monica, «che ha l’arte di farci sentire delle persone umane ed è una grande amica», le permette di scoprire il piacere di scrivere, ed anche la capacità di esternare «tutto il dolore represso dovuto al suo reato, a ritrovare la vera Cosetta». Del resto, la scrittura è una grande forma di terapia. Un grande linguista scomparso di recente, Luca Serianni, diceva che scriviamo per ragioni varie, una delle quali è parlare con noi stessi.

In un contesto molto diverso, ma caratterizzato dalla progressiva mancanza di libertà, una giovane ebrea olandese Etty Hillesum (scomparsa ad Auschwitz nel 1943) trova proprio nella scrittura di un Diario, tenuto dal 1941 al 1943, il modo per dipanare il gomitolo aggrovigliato che sentiva dentro, per fare chiarezza, cercare la ricomposizione di tanti frammenti e in quei tempi di persecuzione provare a resistere, che vuol dire esistere due volte. Scrivere può essere anche una possibilità per far venire alla luce quello che è avvolto nel buio: questo vuol dire ri-nascere, ri-generarsi. Come Svetlana, nel racconto di Cosetta, che all’improvviso ha un’illuminazione: «sentì che dentro di lei, a parte la sua dipendenza, c'era qualcosa di bello, di profondo, c'era educazione, gentilezza, rispetto e altri valori preziosi».

La scrittura però non è solo questo. Non è solo un modo per coltivare quel mondo interiore che può permettere un’evasione possibile, trovare uno spiraglio in spazi coatti, nominare e condividere le proprie emozioni.

E’ anche uno strumento di informazione, testimonianza e denuncia.

Etty scriverà che avrebbe voluto impugnare «la sottile penna stilografica come fosse un martello» per raccontare con parole che fossero come tante martellate, il destino degli ebrei e '«un pezzo di storia come è ora e non è mai stata in passato – non in questa forma totalitaria, organizzata per grandi masse, estesa all’Europa intera. Dovrà pur sopravvivere qualcuno che lo possa fare».

Credo che questo aspetto riguardi anche la “scrittura dal carcere” che Cosetta e le sue compagne, di cui lei si fa portavoce, ci consegnano, che ha il valore oggettivo di una denuncia che non si può ignorare. La denuncia della dignità calpestata, che «diventa soltanto una parola vaga, senza senso, sperduta in mezzo a quelle mille espresse da giudici, magistrati e avvocati».

Molti di noi non sanno o non vogliono sapere.

Conoscere, invece, è fondamentale se si vuole cambiare qualcosa e proprio Cosetta ci attesta che la scrittura, come anche le iniziative di contatto con l’esterno (preparare gli Aperitivi Galeotti per invitati esterni, la scuola, i corsi, il lavoro, l’asino-terapia) sono mezzi potenti di riconoscimento e aprono alla possibilità di dare una svolta alla propria vita. Sono purtroppo episodici e casuali, ma quella è la via perché l’intero sistema si strutturi in modo da non sommare male al male, ma offrire davvero una possibilità di riflessione, di crescita, se non di riparazione delle ferite altrui e delle proprie.

Lasciamo Cosetta fuori dal carcere, inserita in una casa-famiglia. Una nuova fase ancora molto dura, in cui deve affrontare il terrore per quel mondo esterno divenuto così separato e sconosciuto dopo l’esperienza carceraria. Eppure, non è questa l’ultima immagine del libro.

L’ultima voce è quella di Giovanna che racconta come ha trasformato il dolore in un combustibile ed è ormai consapevole che tutto quello che le accade è frutto di quello che ha coltivato, buono o cattivo che sia. Giovanna ha imparato a perdonare e amare il prossimo perché ha imparato a perdonare e amare se stessa. «A volte - scrive - i luoghi più̀ brutti portano consapevolezza...» Un sentimento simile, lo aveva espresso più volte anche Cosetta: »Una volta scrissi, non ricordo esattamente le parole, che il carcere lo facciamo noi detenuti e vi assicuro che si può̀ fare e essere di tutto qui».

Dunque, l’ultima parola che la portavoce ci lascia riecheggia quella di Etty Hillesum: non possiamo che cominciare da noi stessi, è almeno un buon punto di partenza.

Certamente, spetta a noi fare altrettanto, con le nostre personali prigioni. Tuttavia, questo non ci basta.

Etty Hillesum, nel suo Diario, più volte ha lanciato  un appello a coloro che sarebbero venuti dopo, - a noi dunque - per continuare l’opera di costruzione di un nuovo umanesimo, iniziata in luoghi e tempi disumani.

Cosetta non è così esplicita e diretta. Eppure, dopo la lettura di questi scritti dal carcere non si è più quelli di prima. In qualche modo queste parole ci interpellano, generano un impegno per rispondere alle voci di Cosetta e delle sue compagne.

Sono voci che, in primo luogo, vanno diffuse e portate fuori dai cancelli del carcere. Ognuno poi, nel suo piccolo, può trovare altri modi perché siano feconde. Personalmente sono stata attratta da questa lettura anche per la mia esperienza nelle scuole, dove lettura ed elaborazione creativa dei testi in ogni forma espressiva, mi hanno fatto conoscere le grandi potenzialità della scuola e di insegnanti straordinarie e straordinari. E allora credo che uno dei modi per rispondere sia proprio lo sguardo educante, quello che porta oltre (ex-ducere) e che non può basarsi se non sulla fiducia rispetto ai cambiamenti che in ogni persona determinano il passare del tempo e il percorso di riflessione e di lavoro su se stessa. Lo sguardo educativo apre. In contrasto con le logiche e le pratiche di un ambiente chiuso.

Le esperienze in tal senso non mancano, ma sono troppo episodiche e rare. Portare la scuola in carcere, creare anzi un’osmosi più stabile e strutturata tra scuola e carcere può servire affinché la prima sia luogo di apertura verso il mondo in tutte le sue realtà e il secondo non sia più quella macchia nell'anima che nulla può cancellare.

[*]

Il libro La Portavoce. Racconti delle detenute del carcere di Sollicciano, è parte della collana L’evasione possibile che pubblica scritti dal carcere, frutto non solo di laboratori di scrittura, ma anche autonomi. La collana è parte del Progetto Storie Liberate: raccontarsi dal carcere come azione di promozione sociale a cura del Centro sociale evangelico di Firenze con il sostegno dei Fondi Otto per Mille della Chiesa valdese. Il Progetto mira a valorizzare la scrittura con varie finalità ritenendolo un mezzo per far conoscere all’esterno la realtà carceraria, una realtà complessa e invisibile

28/01/2023
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