Magistratura democratica
Diritti senza confini

L'identificazione delle vittime di tratta e i confini per il riconoscimento delle diverse forme di protezione. Note a margine dell’ordinanza della Corte di Cassazione n. 30402/21

di Francesca Nicodemi
avvocata esperta in materia di tratta di esseri umani, già Protection Associate UNHCR

La recente ordinanza della Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto per cui «ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 comma 6 D.Lgs. 286/98, l’esercizio della prostituzione, se sorretto da necessità economiche, integra una condizione soggettiva di vulnerabilità  anche ove non si possa attribuire alla richiedente la qualifica di vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale», con ciò confermando un orientamento volto a valorizzare la vulnerabilità emergente dall’esercizio della prostituzione, indipendentemente dall’identificazione della persona quale vittima di tratta. Resta aperta la questione relativa ai confini ravvisati dalla giurisprudenza per il riconoscimento della protezione internazionale.

1. Premessa

L’ordinanza in commento s’inserisce nel quadro delle decisioni che la Corte di Cassazione ha adottato nel corso degli ultimi anni con riferimento alle forme di protezione ed i relativi titoli di soggiorno da riconoscere alle giovani donne straniere, spesso di nazionalità nigeriana, destinate al mercato della prostituzione in Italia.

L’ordinanza muove da una pronuncia del Tribunale di Bari che aveva rigettato il ricorso di una donna proveniente dalla Nigeria, la quale, dapprima dinanzi la Commissione Territoriale e successivamente in sede giurisdizionale, aveva dichiarato di aver lasciato il paese con l’aiuto di un familiare a causa di una vicenda personale che l’aveva esposta ad un pericolo e, una volta giunta in Italia, di aver incontrato una donna che l’aveva indotta alla prostituzione, chiedendole peraltro, in cambio di ospitalità, somme eccessive per il pagamento del canone.

Il Tribunale di Bari aveva rigettato il ricorso ritenendo che, non potendo la ricorrente essere riconosciuta vittima di tratta - poiché non erano ravvisabili gli indicatori elaborati nelle Linee Guida sviluppate da UNHCR sull’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale[1] - non vi fossero i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione internazionale; aveva dunque valutato che non vi fosse alcuna effettiva lesione dei diritti fondamentali da cui potesse risultare comprovata una specifica situazione di vulnerabilità soggettiva tale da far ritenere sussistente il diritto alla protezione umanitaria.

La Corte di Cassazione, nell’esaminare i motivi di ricorso, a causa della formulazione del primo motivo di ricorso, ritenuto inammissibile, supera l’analisi della censura relativa al difetto di credibilità della ricorrente relativamente alle vicende narrate, valutando solo il secondo motivo di ricorso afferente la violazione dell’art. 5 co. 6 e art. 19 co. 2 D.Lgs. 286/98, ritenuto fondato.

Sotto quest’ultimo profilo, la Corte ha censurato la decisione del Tribunale in quanto quest’ultimo avrebbe omesso di esaminare l’aspetto della rilevanza dell’esercizio della prostituzione ai fini della protezione umanitaria, escludendo che ricorresse, a causa di una asserita «volontarietà» nell’esercizio della prostituzione, una vera e propria coercizione o almeno induzione ad opera della donna che aveva ospitato la ricorrente. Tale circostanza, invece, a parere della Corte di Cassazione avrebbe dovuto essere necessariamente valutata, imponendo di ravvisare un’evidente condizione di vulnerabilità soggettiva fondata sulla lesione effettiva dei diritti fondamentali.

La Suprema Corte, a sostegno delle proprie argomentazioni, richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 141/19, relativa alle fattispecie penali del reclutamento e favoreggiamento della prostituzione di cui all’art. 3 L. 75/58, che, in un’approfondita analisi del fenomeno della prostituzione c.d. volontaria, ha ritenuto di concludere per la sussistenza nell’esercizio della prostituzione, sempre e comunque, di una radicale ed ineliminabile lesione del diritto all’autodeterminazione nella sfera della libertà personale.

La Corte di Cassazione dunque poggia la propria decisione proprio su tale valutazione di «assenza di capacità di autodeterminarsi», arrivando a concludere per la sussistenza, in casi come quello affrontato nel giudizio di merito, di una condizione di vulnerabilità fondata sulla «grave deprivazione dei diritti della persona afferenti la sfera della dignità personale e dell’autodeterminazione nelle scelte che incidono in modo primario nello sviluppo della personalità individuale».

In tal senso la Corte richiama una precedente pronuncia, la n. 1104/20, in cui già si era sottolineata l’ininfluenza dell’impossibilità di qualificare una persona vittima di tratta in senso stretto ai fini della valutazione della condizione di vulnerabilità per il riconoscimento della protezione umanitaria.

La «necessità di prostituirsi» afferma la Corte «non può neanche astrattamente configurarsi come libera e volontaria», di conseguenza il Giudice ha il dovere di verificare la sussistenza della vulnerabilità.

La Corte conclude pertanto con l’affermazione del principio di diritto per cui «ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5 comma 6 D.Lgs. 286/98, l’esercizio della prostituzione, se sorretto da necessità economiche, integra una condizione soggettiva di vulnerabilità  anche ove non si possa attribuire alla richiedente la qualifica di vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale».

 

2. L’identificazione delle vittime di tratta in sede giurisdizionale. La rilevanza degli indicatori di tratta con particolare riferimento alle dichiarazioni generiche, poco chiare e/o credibili o contraddittorie 

La Corte di Cassazione, per un’assenza di censura specifica afferente il difetto di credibilità della ricorrente, è andata oltre rispetto a tale questione e dunque non si è addentrata nella valutazione relativa alla possibile identificazione della ricorrente quale vittima di tratta sulla base dei c.d. “indicatori di tratta”. Per tale motivo non è potuta poi entrare nel merito del possibile riconoscimento della protezione internazionale in favore della ricorrente.

Eppure tale questione è divenuta piuttosto centrale nelle pronunce dei giudici di merito relative al riconoscimento della protezione internazionale alle vittime di tratta ed in generale alle giovani donne coinvolte nello sfruttamento sessuale. La Giurisprudenza ha fornito, nel corso del tempo, particolare rilevanza agli elementi sintomatici della tratta di esseri umani e tra questi, in particolare, a quelli che afferiscono la ritrosia nell’esplicitare la propria condizione di vittima, che riguardano, dunque, i limiti alla c.d. “auto-identificazione” del richiedente/ricorrente quale vittima di tratta.

Sebbene dunque l’ordinanza in commento non si addentri in tale questione, il caso della ricorrente sembra piuttosto emblematico da questo punto di vista, sotto il profilo della necessità per il giudice di esplorare maggiormente il vissuto delle giovani donne, prevalentemente provenienti dalla Nigeria, destinate al mercato del sesso.

Nel corso degli ultimi anni si è assistito ad una sempre maggiore attenzione, da parte dei giudici di merito agli indicatori di tratta sviluppati dalle Linee Guida su L’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral, elaborate da UNHCR e Commissione Nazionale[2], e tra questi alle dichiarazioni spesso parziali, e a volte contraddittorie della persona, al punto da ritenere talvolta che, sebbene la ricorrente, come spesso succede, non dichiari espressamente di essere stata coinvolta in una situazione di tratta, si possa giungere a tale conclusione o almeno a tale “presunzione”, arrivando a riconoscere una forma di protezione, internazionale o complementare.

Effettivamente le Linee Guida rivolte alle Commissioni Territoriali hanno individuato nell’aspetto delle dichiarazioni poco chiare e/o credibili, con particolare riferimento ad alcuni passaggi della propria vicenda migratoria, un elemento rilevante nel complesso degli indicatori di tratta. Tale indicazione presuppone la consapevolezza del carattere estremamente sommerso del fenomeno e degli ostacoli che spesso si frappongono alla sua emersione, ostacoli dovuti alla scarsa propensione delle vittime di tali vicende ad aprirsi totalmente, in particolare per quel che riguarda le giovani donne nigeriane condotte in Europa con il proposito di essere sfruttate nella prostituzione,  per il timore di possibili ritorsioni nei confronti propri o della famiglia, il pudore, la scarsa consapevolezza della propria condizione, il forte legame, quasi di riconoscenza e comunque collegato al rito magico, che le lega alle c.d. Madame[3].

La prima edizione delle Linee Guida conteneva un set di indicatori specifico sulle giovani donne della Nigeria vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale e dunque in tal senso si riferiva con maggior precisione all’indicatore relativo ad una «storia poco chiara e/o credibile» rispetto ad alcuni elementi, quali in particolare le tappe del viaggio, il passaggio da persona a persona lungo il tragitto, la liberazione da una situazione di sfruttamento in transito.

Nella nuova edizione[4], in cui sono stati aggiornati e integrati gli indicatori di tratta – aggiungendo peraltro quelli specifici relativi alla tratta a scopo di sfruttamento nel lavoro e riferendosi in linea generale alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale considerando persone di qualsiasi genere e nazionalità – si prevede quale indicatore afferente questo aspetto un «racconto contraddittorio o relativo a fatti che ricorrono frequentemente nelle domande di protezione internazionale a causa della riluttanza/paura a raccontare la propria storia nella sua interezza», nonché un «racconto di fatti che, in modo frammentato, costituiscono elementi della tratta degli esseri umani (il reclutamento, le violenze subite, la vendita)».

L’elaborazione di questi indicatori parte dalla consapevolezza, acquisita nel tempo grazie anche al notevole lavoro svolto dai progetti che realizzano il programma di assistenza per le vittime di tratta ex art. 18 D.Lgs. 286/98, che, con particolare riferimento ad alcune situazioni personali, è necessario andare oltre il riferito e saper cogliere il complesso degli elementi che emergono anche ove la persona neghi di essere vittima di tratta o comunque ove renda dichiarazioni che omettono anche solo una parte della vicenda che l'ha coinvolta. Con riferimento alle giovani donne nigeriane, in particolare, risulta frequente l'omissione o comunque la vaghezza relativa alla condizione di sfruttamento in Italia, per evidenti motivi legati al timore di ritorsione da parte di persone che si trovano sullo stesso territorio.

Tali dichiarazioni generiche e talvolta poco credibili permangono anche in fase giurisdizionale, con la conseguenza che il giudice può trovarsi di fronte alla necessità di valutare l’esigenza di protezione internazionale sulla base di un quadro istruttorio parziale, almeno per quel che riguarda l’esplicitazione da parte del ricorrente del timore di persecuzione a causa della propria condizione di vittima di tratta o sfruttamento.

Ebbene, su questo aspetto si è soffermata spesso la giurisprudenza di merito, analizzando i confini tra quello che è l’ambito dei poteri-doveri istruttori previsti dall’art. 3 del D.Lgs. 251/07 e dall'art. 8 D.Lgs. 25/08 e l’analisi dei fatti allegati dal ricorrente alla base della domanda di protezione internazionale.

In taluni casi si è ritenuto che, a fronte della sussistenza di molteplici indicatori di tratta, nonostante la parzialità delle dichiarazioni o addirittura la mancata allegazione da parte del/della ricorrente della vicenda di tratta, sia possibile addivenire alla determinazione della protezione internazionale; in altri casi invece si è ritenuto che il Giudice non possa andare oltre quella che è la causa petendi, stante comunque la necessità di attenersi alle dichiarazioni del ricorrente[5]

Talune pronunce hanno fornito particolare attenzione agli indicatori di tratta forniti dalle Linee Guida quali elementi che possono “supportare” l’istruttoria, pur ritenendo opportuno se non necessario che, grazie anche alla procedura di referral agli enti anti-tratta, da attuarsi anche nel corso del giudizio e all’audizione della persona in udienza, emerga esplicito il timore di persecuzione connesso ai fatti riferiti e dunque il bisogno di protezione.

Le pronunce della Corte di Cassazione sul punto sembrano, ad oggi, andare nella direzione di una valutazione degli indicatori quali elementi sicuramente sufficienti per giungere all’accertamento della vulnerabilità, condizione necessaria per il riconoscimento della protezione umanitaria ma al contempo non consentono di ritenere delineato un orientamento relativamente ai presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

Se infatti con l’ordinanza n. 32083/21 la Corte ha sostenuto che il dovere di cooperazione istruttoria del giudice, una volta assolto da parte del richiedente il proprio onere di allegazione, sussiste sempre, anche in presenza di una narrazione di fatti attinenti la vicenda personale inattendibile e comunque non credibile, con una successiva pronuncia, con l’ordinanza n. 1750/21, la stessa Corte, pur valorizzando gli indicatori di tratta di cui alle Linee Guida UNHCR ed in particolare, tra gli altri, le dichiarazioni generiche e non credibili, ha ritenuto che il mancato riconoscimento di essere assoggettata alla tratta o comunque ad una situazione di sfruttamento potesse consentire al giudice “solamente” di accertare la condizione di vulnerabilità della persona ricorrente con conseguente riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari. 

In tale ordinanza la Corte ha basato le proprie argomentazioni su di una lettura sistematica delle principali disposizioni di carattere nazionale e internazionale, tra cui in particolare il Protocollo sul trafficking in persons addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Crimine Organizzato transnazionale del 2000 e l’art. 4 della CEDU ed è arrivata ad enunciare il principio interpretativo per cui «ove nella vicenda dedotta dal richiedente asilo sia ritenuto oggettivamente ravvisabile, sulla scorta degli indici individuati dalle Linee Guida UNHCR, il forte e attuale rischio, in caso di rimpatrio forzato, di esposizione allo sfruttamento sessuale o lavorativo nell’ambito del circuito della tratta di esseri umani, sì da ritenere sussistenti i presupposti per la segnalazione dei delitti ex artt. 600 e 601 c.p. e per la segnalazione ai sensi dell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 25/08, ricorre una condizione di vulnerabilità personale valorizzabile ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria anche ove tale condizione non sia esplicitamente riconosciuta».

La Corte dunque non si è espressa rispetto agli elementi mancanti per il riconoscimento di una protezione internazionale, sebbene implicitamente sembri individuare il limite della mancata allegazione della vicenda di tratta da parte della persona ricorrente.

L’ultima ordinanza n. 30402/21, oggetto del presente commento, sembra seguire il solco del precedente sopra citato, andando oltre rispetto alla possibilità di ravvisare una condizione di vulnerabilità anche ove non si possa arrivare a presumere la sussistenza di una vicenda di tratta strictu sensu, ma ci si debba fermare all’accertamento dello svolgimento della prostituzione in mancanza di una vera e propria coercizione. «Tale condizione di vulnerabilità» osserva la Corte «non può ritenersi in alcun modo esclusa dalla mancanza di una coercizione diretta che prenda le forme della tratta». E dunque, ritenendo che la necessità di prostituirsi per ragioni connesse al soddisfacimento delle esigenze di vita primarie, non possa configurarsi come libera e volontaria, la Corte arriva a concludere per la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del tutto analoga a quella vissuta dalle donne vittime della fattispecie penale di cui all’art. 601 c.p. 

Il principio di diritto enunciato pare dunque importante nella misura in cui riconosce il diritto alla protezione umanitaria ex art. 5 co. 6 D.Lgs. 286/98 ad una compagine ancor più larga di persone vulnerabili ossia a tutti coloro che esercitino la prostituzione per necessità economiche.

La lettura della pronuncia in esame apre ad alcune importanti questioni, in particolare quella che afferisce il confine tra la tratta di esseri umani e l’esercizio della prostituzione “per necessità”, su cui s’innesta il tema del consenso e, in secondo luogo quella relativa alla forma di protezione da riconoscere in tali casi ed il confine individuabile tra la possibilità di riconoscere la protezione internazionale e una forma di protezione nazionale.  

 

3. La vulnerabilità connessa all’esercizio della prostituzione ed il tema del consenso

La Suprema Corte contesta la conclusione del Tribunale ove riconosce nell’attività prostitutiva riferita dalla ricorrente una “volontarietà” della scelta, elemento che lo porta ad escludere la condizione di vulnerabilità.

Nel contestare detta ricostruzione, la Corte di Cassazione entra in un terreno particolarmente delicato, quello della libertà di autodeterminazione nell’offrire prestazioni sessuali e richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 141/19 avente ad oggetto la questione della legittimità costituzionale dell’art. 3 co. 1 n. 4) prima parte ed 8) della L. 75/58.

Non volendo entrare nel merito della posizione della Corte Costituzionale sulle fattispecie penali su cui è stata chiamata a pronunciarsi[6], per quanto qui di interesse emerge il rilievo attribuito dalla Corte di Cassazione – fondandosi effettivamente sulla posizione della Consulta che afferma che la vendita del sesso presuppone sempre o comunque nella maggior parte dei casi l'assenza di libertà di autodeterminazione - agli elementi caratterizzanti la condizione personale della ricorrente che conducono all’accertamento di un’evidente vulnerabilità, con conseguente diritto alla protezione umanitaria.

La centralità dell’elemento della vulnerabilità per il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari prima è stata ribadita in molte sentenze della Corte di Cassazione, che ne hanno analizzato il contenuto, concetto plastico e di difficile definizione univoca perché riconducibile ad una vasta gamma di diritti fondamentali che in tali casi possono essere compressi o addirittura annullati[7].

Sul punto la Corte di Cassazione nella recente ordinanza n. 15961/2021, ha affermato che «Ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, costituente il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa, dev'essere apprezzato dal giudice di merito (…) anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima».

Ebbene, con riferimento al caso di specie, la Corte ritiene che, a fronte dell’onere del giudice di merito di verificare, in casi come quello in esame, la sussistenza della condizione di vulnerabilità, tale elemento non può ritenersi escluso dalla «mancanza di una coercizione diretta che prenda le forme della tratta».  

Resta da capire se, in presenza di dichiarazioni quali quelle rese dalla ricorrente e dal complesso delle informazioni oggi a disposizione sul fenomeno della tratta delle donne provenienti dalla Nigeria, nel caso di specie fosse da ritenersi esclusa una forma di coercizione a fronte dell’asserito “consenso” della persona allo svolgimento di prestazioni sessuali a pagamento. La giovane donna aveva infatti dichiarato di essere stata ospitata da una persona che l’aveva avviata alla prostituzione rappresentandole tale attività come l’unica possibile in quel frangente chiedendole peraltro ingenti somme di denaro per l’ospitalità.

Ebbene non può non saltare all’occhio come la valutazione del giudice di primo grado sia stata a dir poco deficitaria nella valutazione della fattispecie nel suo insieme.

Se effettivamente non può arrivarsi a ritenere che al giudice della protezione internazionale spetti di qualificare la fattispecie penale sotto il profilo dell’analisi degli elementi oggettivi e soggettivi della condotta criminosa, la valutazione della condizione personale del ricorrente, necessaria per accertare il bisogno di una forma di protezione, non può esimersi dal considerare tutti gli elementi utili alla luce delle norme di riferimento e delle informazioni a disposizione sulle modalità di espletamento del trafficking in persons, in particolare in paesi fortemente esposti al fenomeno.

Sotto questo profilo merita ricordare che le principali disposizioni internazionali ed europee in materia di tratta di esseri umani considerano l’elemento del consenso allo sfruttamento irrilevante in presenza di uno dei mezzi coercitivi adottati dall’autore del reato per porre in essere la condotta criminosa[8].

Nel caso di specie dunque non era da escludere, a parere di chi scrive, la fattispecie di cui all’art. 601 c.p., sussistendo la condotta – in questo caso l’ospitalità – il mezzo coercitivo - quale l’approfittamento della posizione di vulnerabilità o di necessità - e lo scopo dello sfruttamento - insito, nel caso di specie come in tutti quelli che riguardano le giovani donne nigeriane coinvolte nella prostituzione, nella richiesta di somme di denaro sproporzionate e fittiziamente imputate alle spese per l’ospitalità.

Sotto il profilo dei mezzi coercitivi utilizzati, l’approfittamento della posizione di vulnerabilità o di necessità ricorre con particolare frequenza nel contesto della tratta delle giovani donne nigeriane, dove effettivamente la vulnerabilità della donna migrante, è in re ipsa, stante il contesto di provenienza, la condizione di irregolarità, l'esposizione ad abusi e violenze lungo il viaggio e a destinazione[9].

La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto la situazione di necessità di cui all’art. 601 c.p. coincidente con la «posizione di vulnerabilità» di cui alla direttiva comunitaria 2021/29/UE e al D.Lgs. 24/14 ritenendo che «deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale della persona offesa, idonea a condizionarne la volontà personale e che non consente altra scelta effettiva di vita, se non cedendo all’abuso di cui è vittima»[10].

Deve inoltre ricordarsi che l’art. 2 della direttiva 2011/36 al par. 2 definisce la posizione di vulnerabilità come la “situazione in cui la persona non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”.

Il fenomeno della tratta a scopo di sfruttamento sessuale si caratterizza dunque, nella connotazione attribuita tanto dalle disposizioni internazionali quanto dalla giurisprudenza interpretativa delle norme nazionali, per un’attenuazione del consenso della parte offesa giustificata dalla ridotta capacità della stessa di compiere una libera scelta.

Sul tema del consenso, merita di essere ricordata la sentenza della Grande Chambre della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 25 giugno 2020 sul caso S.M. c. Croazia[11] che, confermando la violazione dell’obbligo di cui all’art. 4 della Convenzione, ha colto ancora una volta l’occasione per fornire un’interpretazione della definizione di schiavitù, servitù e lavoro forzato o obbligatorio contenuta nella norma, volta a chiarire l’ambito di operatività della stessa in relazione alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento della prostituzione[12].

In tale sentenza, tra l’altro, la Corte ha compiuto un’importante precisazione relativa alla possibilità di applicare l’art. 4 alla tratta con fini di sfruttamento della prostituzione verificatasi non solo in ambito transnazionale ma anche internamente al territorio dello Stato. Ed in effetti, nel caso di specie, ove si volesse ritenere attendibile il racconto della giovane donna relativamente all’assenza di una rete criminale che l’abbia condotta in Italia al fine di sottoporla a sfruttamento, si potrebbe ravvisare per i motivi sopra detti una fattispecie di tratta c.d. interna. 

Se dunque nel caso di specie si arriva comunque ad accertare una forma di vulnerabilità che giustifica la protezione, sebbene in una forma non riconducibile a quella internazionale, non può condividersi, a parere di chi scrive, l’inquadramento che è stato fatto dal giudice di merito della fattispecie in esame.

Il tema del consenso della vittima allo sfruttamento è strettamente collegato, in una logica di proporzionalità inversa, all’approfittamento della posizione di vulnerabilità da parte dell’autore del reato ed è questa la prospettiva da cui è necessario leggere il fenomeno. Maggiore è il potere esercitato dai trafficanti in virtù dell’assenza di alternative e dunque di potere contrattuale della vittima del reato, minore è il grado di capacità di quest’ultima di esprimere una libera scelta in ordine ad una situazione di sfruttamento[13].

Se a questa lettura si somma la conoscenza del fenomeno migratorio delle donne sole e la prospettiva di genere[14], non può non riconoscersi come l’attribuzione di un carattere volontario delle condotte descritte in situazioni come nel caso di specie rischi di essere fuorviante se non pericoloso nell’ottica della necessaria protezione da riconoscere alle persone che ne sono coinvolte.

Sotto il profilo dell’onere del giudice di attribuire una qualificazione corretta alle fattispecie quali quella in esame, deve ricordarsi che le fonti sovranazionali impongono alle autorità statali un vero e proprio obbligo di identificare le vittime di tratta: in particolare l’art. 10 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani prevede che gli Stati si assicurino che le autorità competenti dispongano di «personale formato e qualificato per la prevenzione e la lotta alla tratta nell’identificazione delle vittime»[15]. Ebbene, sebbene il Piano Nazionale di azione contro la tratta non individui la magistratura civile tra i soggetti specializzati a cui è affidato il mandato dell’identificazione “formale” delle vittime di tratta[16], è oramai evidente che anche i soggetti non specializzati e dunque coinvolti nella c.d. identificazione “preliminare”, debbano dotarsi di una formazione qualificata al fine di saper leggere i primi elementi sintomatici del fenomeno, inquadrarlo nel modo più opportuno e adottare le misure di protezione rispondenti alle necessità della presunta vittima.

 

4. Il confine tra il riconoscimento della protezione internazionale e le protezioni complementari nel caso di vittime di tratta identificate o presunte

Se dunque sembra sempre più consolidato l’orientamento della Corte di Cassazione volto alla valorizzazione dell’elemento della vulnerabilità per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria – ed in prospettiva eventualmente, con le relative distinzioni, alla protezione speciale – in favore delle giovani donne che si presumono essere vittime di tratta, resta aperta la questione relativa al confine oltre il quale sia possibile innalzare la protezione, in particolare accertando il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.

Com’è noto, la giurisprudenza oramai è piuttosto pacifica nell’includere nello status di rifugiato le vittime di tratta, ove ricorrano tutti i presupposti previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951[17]. 

Se tuttavia la forma massima di protezione è senza dubbio riconosciuta ove vi sia una chiara identificazione della persona quale vittima di tratta ed in particolare dove vi sia la c.d. “auto-identificazione”[18], ossia nei casi in cui la persona ricorrente dichiari espressamente la propria condizione e dunque espliciti il fondato timore di persecuzione, maggiormente problematico è il caso in cui non vi sia una chiara allegazione della vicenda di tratta o questa sia parziale ma emergano degli indicatori o comunque elementi da cui è possibile ritenere possibile che la persona sia una vittima di tratta o sia a rischio di divenirlo.

Si tratta di una linea di confine di difficile demarcazione proprio per le caratteristiche connaturate al fenomeno della tratta, non soltanto con riferimento all’esperienza passata della persona che ne è stata vittima, ma anche in un’ottica di valutazione prognostica relativamente al timore di persecuzione a cui è esposta la persona stessa in virtù di circostanze oggettive[19], talvolta peraltro scarsamente percepite dalla vittima stessa ma al contempo oggetto di riscontri grazie alle informazioni sui paesi di origine (COI) ed ai numerosi documenti sul tema e sull’esposizione ai rischi – in particolare il rischio di re-trafficking – a cui sono esposte le persone che ne sono vittime. 

Nell’ordinanza n. 1750/21 della seconda sezione della Corte di Cassazione si legge un passaggio molto importante: «il mancato riconoscimento di essere vittima di tratta, a fronte della ricorrenza di numerosi indici di tratta e sfruttamento sessuale o lavorativo, non esprime un fatto decisivo e prevalente sugli indici ravvisati, potendo essere compatibile, come evidenziato dalle stesse Linee Guida utilizzate per valutare tali dichiarazioni, con la sussistenza degli altri indici ed essere sintomo del timore di ritorsioni ovvero di una non piena consapevolezza della propria situazione personale». La Corte contesta al Giudice di merito di aver ritenuto “imprescindibile” l’esplicita ammissione da parte della richiedente asilo di essere vittima di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, con ciò dunque ritenendo possibile una valutazione che vada oltre il timore di persecuzione espresso. 

Sulla base di tali considerazioni sembrerebbe a chi scrive legittimo e non contrario al principio dispositivo il riconoscimento della protezione internazionale per il rischio di persecuzione legato all’esperienza di tratta emersa seppur non dichiarata o dichiarata parzialmente. E ciò in quanto l’onere di allegazione gravante sulla parte può ritenersi ottemperato ogni qualvolta, come è nella maggior parte dei casi, la persona porti nel proprio racconto elementi che contribuiscono alla ricostruzione del vissuto o comunque chiaramente sintomatici del fenomeno tratta (il rito magico, le modalità di reclutamento, lo svolgimento e l’organizzazione del viaggio). L’elemento oggettivo del timore è chiaramente enucleabile dalle informazioni che oramai sono abbondantemente disponibili sul fenomeno e sulle condizioni esistenti a riguardo nel paese di origine del richiedente.

Resta inteso che ciascuna situazione individuale è differente e che comunque l’analisi della Commissione Territoriale e del giudice della sezione specializzata dovrà essere condotta caso per caso. 

Dove poi gli elementi a disposizione dell’autorità amministrativa o del magistrato non siano sufficienti per il riconoscimento di una forma di protezione internazionale, si apre un’altra questione afferente le forme di protezione nazionali accordabili in tali fattispecie: nel caso in cui non si possa riconoscere la protezione internazionale, infatti, dovrebbe valutarsi l’applicabilità dell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 25/08, strumento di tutela specifico per le persone vittime dei delitti di cui all’art. 600 e 601 c.p.

Tale norma, introdotta dall’art. 10 co. 3 del D.Lgs. 24/14 – in attuazione della direttiva sulla tratta 2011/36/UE - è volta proprio a creare quel rinvio tra il sistema della protezione internazionale e quello della protezione delle vittime di tratta e grave sfruttamento di cui all’art. 18 D.Lgs. 286/98, che si è reso necessario proprio in virtù della duplice protezione a cui possono accedere le persone vittime di tali fattispecie di reato. 

Sebbene la formulazione della norma sia di non chiara interpretazione, riferendosi genericamente ad un rinvio da parte della Commissione Territoriale al questore «per le valutazione di competenza», è pacifico che, nell’ambito delle attività di spettanza del questore, vi sia quella di valutare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno, nello specifico quello per casi speciali disciplinato dall’art. 18 D.Lgs. 286/98. 

Un’interpretazione di questo tipo - che peraltro pare rispondente ad una lettura sistematica della norma, collocata nell’art. 32 del decreto D.Lgs. 25/08, che elenca le diverse possibili decisioni della Commissione e dunque i diversi titoli di soggiorno che possono essere riconosciuti al richiedente - è stata effettivamente adottata dalle stesse Linee Guida della Commissione Nazionale e UNHCR[20] che hanno chiarito che la trasmissione degli atti da parte della Commissione Territoriale al questore è finalizzata a consentire a quest’ultimo di valutare la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 18 D. Lgs. 286/98. 

Tale norma sembra rispondere ai principi introdotti nelle disposizioni sovranazionali in materia di tratta tra cui la direttiva 2011/36/UE che impone agli Stati di disporre di strumenti di tutela in una fase particolarmente precoce rispetto al formale accertamento di una situazione di tratta, chiedendo, all’art. 11 par. 2, che si fornisca assistenza e sostegno non appena le autorità competenti abbiano «un ragionevole motivo di ritenere che» la persona sia una vittima di tratta. 

Conseguentemente lo stesso meccanismo della protezione sociale, nato intorno all’art. 18 DLgs. 286/98, è stato costruito mediante la predisposizione di una serie di misure di tutela in successione, che partono da una fase particolarmente precoce e antecedente alla formale identificazione della vittima, dunque delle misure transitorie (quelle di cui all’art. 13 della L. 228/03) da riconoscersi in fase di «identificazione preliminare» e delle misure definitive, volte alla prosecuzione dell’assistenza e accompagnamento all’integrazione sociale (art. 18 comma 3bis D.Lgs. 286/98 così come modificato dal D.Lgs. 24/14). 

Ebbene, la formulazione contenuta nell’art. 32 comma 3bis D.Lgs. 286/98, nella parte in cui ricalca l’art. 11 par. 2 della Direttiva 2011/36/UE e dunque fa riferimento ai «ragionevoli motivi per ritenere che la persona sia vittima di tratta» permette di ritenere la norma applicabile nel caso di una “presunzione” di tratta e dunque in situazioni in cui gli elementi per una sicura qualificazione del richiedente come vittima di tratta appaiano insufficienti.

Sebbene l’ambito applicativo di tale norma risulti ad oggi ancora piuttosto limitato, tanto nella fase amministrativa quanto in sede giurisdizionale, si registrano pronunce interessanti sul tema che, effettivamente, hanno ritenuto di invocare l’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98 in situazioni in cui, stante la mancata allegazione della tratta, si poneva un problema di chiara identificazione[21].

La stessa ordinanza della Corte di Cassazione n. 1750/21, qui più volte richiamata, nell’enunciazione del principio di diritto, ha espressamente fatto riferimento alle situazioni in cui emergano gli indicatori delle Linee Guida UNHCR tali da ritenere «sussistenti i presupposti per la segnalazione ai sensi dell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98», non andando tuttavia oltre, verso il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno ex art. 18 o comunque verso l’opportunità di una valutazione da parte del Questore del diritto al rilascio dello specifico permesso di soggiorno.

La differenza non pare di poco conto essendo la norma contenuta nell’art. 18 lo strumento dedicato alla specifica protezione delle vittime di tali reati in virtù della previsione di un programma di assistenza e integrazione sociale di cui le vittime stesse possono beneficiare.

La norma contenuta nell’art. 32 co. 3bis D.Lgs. 286/98, ove correttamente utilizzata, potrebbe peraltro costituire strumento di tutela per tutte quelle fattispecie in cui, pur sussistendo tutti gli elementi per la riconducibilità della fattispecie ai delitti di cui agli artt. 600 e 601 del codice penale, non sia possibile addivenire al riconoscimento dello status di rifugiato per la mancanza di alcuni degli elementi della Convenzione di Ginevra.

Si pensi, per esempio, alle situazioni di richiedenti asilo vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo o anche di riduzione in schiavitù sempre in ambito lavorativo, qualora da tali situazioni non scaturiscano rischi in caso di rientro nel paese di origine. Sotto tale profilo l’applicazione della norma, unitamente ad un’auspicabile maggiore sensibilizzazione verso tali forme di tratta di tutti i soggetti interessati, ivi compresa la magistratura, potrebbe condurre ad un innalzamento del livello di protezione in favore di una sempre più ampia compagine di persone.


 
[1] Le Linee Guida rivolte alle Commissioni Territoriali su L’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral, realizzate nell’ambito del progetto svolto da UNHCR e Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo denominato Meccanismi di coordinamento per le vittime di tratta, sono state pubblicate per la prima volta nel 2017.  L’edizione aggiornata è stata pubblicata nel dicembre 2020 ed è reperibile sul sito di UNHCR all’indirizzo https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2021/01/Linee-Guida-per-le-Commissioni-Territoriali_identificazione-vittime-di-tratta.pdf  

[2] L’edizione aggiornata delle Linee Guida contiene quattro set di indicatori di tratta che emergono frequentemente nella procedura di riconoscimento della protezione internazionale: quelli generali, quelli specifici riconducibili alle vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, quelli relativi alle situazioni afferenti la tratta a scopo di sfruttamento lavorativo ed infine gli indicatori specifici per i casi dei minori (capitolo 4, pagg. 50 e ss).

[3] Molti sono i rapporti che descrivono le modalità coercitive utilizzate dalle reti criminali in danno delle giovani donne nigeriane. Tra i più recenti: U.S. Department of State, Trafficking in persons report, 2020, https://www.state.gov/reports/2020-trafficking-in-persons-report/nigeria/; UK Home Office, Country Policy and Information Note Nigeria: Trafficking of women, July 2019, https://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/821554/Nigeria_-_Trafficking_-_CPIN_-_v5.0__July_2019_.pdf; EASO, Informazioni sui Paesi di Origine, la Nigeria, la tratta di donne ai fini sessuali, 2015; Human Rights Watch, «You pray for death», Agosto 2019, https://www.ecoi.net/en/file/local/2015409/nigeria0819.pdf; ActionAid, Mondi connessi. La migrazione femminile dalla Nigeria all’Italia e la sorte delle donne rimpatriate, 2018.

[4] Per un’analisi delle maggiori novità introdotte nella versione aggiornata delle Linee Guida si veda M. Giammarinaro, F. Nicodemi, L’edizione aggiornata delle Linee Guida sull’identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral. Un passo avanti nell’adozione di strumenti di coordinamento tra i sistemi della protezione internazionale e della protezione delle vittime di tratta e di meccanismi standardizzati di referral. Le possibili ulteriori prospettive, in questa rivista (https://www.questionegiustizia.it/articolo/l-edizione-aggiornata-delle-linee-guida-su-l-identificazione-delle-vittime-di-tratta-tra-i-richiedenti-protezione-internazionale-e-procedure-di-referral).

[5] Tra le pronunce che hanno riconosciuto il diritto alla protezione internazionale nonostante le dichiarazioni della ricorrente fossero parziali o addirittura tali da non riconoscere esplicitamente la vicenda di tratta, si vedano: Tribunale di Venezia 1/04/21; Tribunale di Bologna 31/05/21, 3.12.20 e 27/10/20; Tribunale di Milano 16.01.20; Tribunale di Bologna 29.07.19; Tribunale di Bologna 16.07.19; Tribunale di Trento 17.01.19, Tribunale di Messina 23.02.18 e 14.07.17 Tribunale di Salerno 2.02.17.  Su questo tema si veda un interessante contributo fornito da L. Minniti, in occasione del Seminario della SSM il 30.01.19 La tutela delle vittime di tratta davanti al Giudice della protezione internazionale. Le peculiarità, le possibilità, le necessità, gli obblighi pubblicato in questa rivista (https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-tutela-processuale-delle-donne-vittime-di-tratta_12-02-2019.php).

[6]   La Corte Costituzionale ha colto l'occasione per fare il punto sulla validità dell'approccio adottato dalla Legge Merlin in materia di prostituzione entrando nel merito della delicata distinzione tra la prostituzione libera e quella forzata. Per commenti alla sentenza si vedano G. M. Locati, Libere di prostituirsi? Commento alla sentenza n. 141/2019 della Corte Costituzionale, 2019, in questa rivista (https://www.questionegiustizia.it/articolo/libere-di-prostituirsi-commento-alla-sentenza-n-1412019-della-corte-costituzionale_25-06-2019.php) e P. Scarlatti, La sentenza n. 141 del 2019 della Corte Costituzionale tra discrezionalità del legislatore e tutela dei diritti fondamentali delle persone vulnerabili, in Dirittifondamentali.it, Fascicolo 1/2020 (http://dirittifondamentali.it/wp-content/uploads/2020/01/Scarlatti-La-sentenza-n.-141-del-2019-della-Corte-costituzionale-tra-discrezionalit%C3%A0-del-legislatore-e-tutela-dei-diritti-fondamentali-delle-persone-vulnerabili.pdf). 

[7] Si veda sul punto il commento del Consigliere di Cassazione A. Di Florio alla sentenza SSUU Cassazione civile 24413/21 Protezione Umanitaria e protezione speciale. La vulnerabilità dopo Cass. SU n. 24413/21 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/protezione-umanitaria-e-protezione-speciale).

[8] L’art. 3 del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini, stabilisce che «Il consenso di una vittima della tratta di persone allo sfruttamento di cui alla lettera a) del presente articolo è irrilevante nei casi in cui qualsivoglia dei mezzi usati di cui alla lettera a) è stato utilizzato». Analoga previsione è contenuta nell’art. 4 lett. b) della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta di esseri umani del 16.05.05 e nell’art. 2 par. 4 della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime.

[9] Per un'interessante riflessione sulla questione di genere nella lettura della vulnerabilità si veda E. Rigo, La vulnerabilità nella pratica del diritto di asilo: una categoria di genere?, in Etica & Politica XXI, 3, 2019  (http://www2.units.it/etica/2019_3/RIGO.pdf).

[10] Da ultimo Cass. Pen. Sez. I sent. 19.01.21 n. 19737 e 28.05.19 n. 49148.

[11] Il caso SM c. Croazia era stato esaminato dalla prima sezione della Corte di Strasburgo, che aveva riconosciuto, con la sentenza del 19 Luglio 2018, la violazione dell’art. 4 nel caso di una giovane donna di nazionalità croata, costretta a prostituirsi da un ex poliziotto suo connazionale che l’aveva contattata tramite un social network. La questione è approdata poi alla Grande Chambre su istanza del governo croato ed è stata definita con la sentenza del 25 giugno 2020 (https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22001-203503%22]}).

[12] La CEDU ha affermato che anche la tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4 della Convenzione già con precedenti sentenze, in particolare, Rantsev c. Cipro e Russia, 7 gennaio 2010;  L.E. c. Grecia 21.01.2016; T. I. e altri c. Grecia, 18 luglio 2019). Nel caso Siliadin c. Francia, (26 luglio 2005) la Corte ha fornito particolare attenzione al tema della coercizione e dunque all'assenza di una libera autodeterminazione a fronte della minaccia percepita dalla vittima di essere allontanata perché irregolare. Analoga argomentazione è contenuta nella sentenza del caso Chowdury e altri c. Grecia, (30 giugno 2017) in cui si è precisato che la validità del consenso, in situazioni quale quella del caso in esame, deve essere valutata alla luce di tutte le circostanze del caso e che il consenso preventivo della vittima non è sufficiente per escludere la qualificazione del lavoro come lavoro forzato.

[13] Sul punto si veda il contributo offerto nell’ambito dell’intervento reso per OSCE a novembre 2021 di M. G. Giammarinaro, The victim’s consent in international law and case law (https://giammarinaro.net/en/the-victims-consent-in-international-law-and-case-law/).

[14] Sul diritto al riconoscimento della protezione internazionale alle donne vittime di violenza di genere si veda il commento ad alcune ordinanze della Corte di Cassazione di D. Genovese, Violenza di genere e protezione internazionale. Note a margine di un recente orientamento della Corte di Cassazione, in questa rivista, 2018 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/violenza-di-genere-e-protezione-internazionale-not_05-02-2018.php).

[15] L’art. 10 della Convenzione di Varsavia prevede inoltre che gli Stati adottino misure legislative e non, volte ad identificare le vittime in collaborazione, se del caso, con le altre parti e con le organizzazioni che svolgono ruolo di supporto. Anche la direttiva europea 2011/36/UE contiene un riferimento a tale obbligo: l’art. 11 par. 4 prevede che gli Stati adottino misure necessarie per predisporre «adeguati meccanismi di rapida identificazione».

[16] Gli allegati 1 (Meccanismo Nazionale di Referral) e 2 (Linee Guida per la definizione di un meccanismo di rapida identificazione delle vittime di tratta e grave sfruttamento) al Piano Nazionale di azione contro la tratta e il grave sfruttamento, nel definire e delineare il processo di identificazione delle vittime di tratta, distinguendo le due fasi – quella dell’identificazione preliminare e dell’identificazione formale - attribuiscono il compito dell’identificazione formale alle forze dell’Ordine, alle organizzazioni specializzate, e dunque quelle che realizzano il programma unico ai sensi dell’art. 18 TUI, ai servizi sociali e ai funzionari del Pubblico Ministero (http://www.pariopportunita.gov.it/materiale/piano-dazione-contro-la-tratta-e-il-grave-sfruttamento/).

[17] La magistratura di merito ha spesso fondato le proprie decisioni in materia sull’interpretazione fornita dalle Linee Guida di UNHCR n. 7 del 2006 relative all’applicazione dell’art. 1 A (2) della Convenzione del 1951, che hanno chiarito gli elementi che devono sussistere per il riconoscimento dello status di rifugiato alle vittime di tratta (https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/linee_guida_protezione_int.pdf). Per un’analisi della normativa e della  giurisprudenza in materia si rinvia a F. Nicodemi, Le vittime della tratta di persone nel contesto della procedura di riconoscimento della protezione internazionale. Quali misure per un efficace coordinamento tra i sistemi di protezione e di assistenza?, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, Fascicolo n. 1 2017; F. Nicodemi, Il sistema anti-tratta italiano compie vent'anni. L'evoluzione della normativa e delle misure di assistenza e protezione delle vittime di tratta alla luce delle trasformazioni del fenomeno. Le interconnessioni con il sistema della protezione internazionale, in Ius Migranti. Trent'anni di politiche e legislazione sull'immigrazione in Italia, Franco Angeli Editore, 2020 ( http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/553).

[18] Per il concetto di “auto-identificazione” delle vittime di tratta si vedano le Linee Guida UNHCR e Commissione Nazionale sull’identificazione delle vittime di tratta, pag. 44.

[19] Sulla componente oggettiva del timore si vedano I paragrafi 42 e 43 del manuale UNHCR Handbook on procedures and Criteria for Determining Refugee Status and Guidelines on International Protection under 1951 Convention and 1967 Protocol relating to the status of refugees, 2019 (https://www.refworld.org/docid/5cb474b27.html).

[20] Si veda il paragrafo 7.2, pag. 96 dell’edizione aggiornata delle Linee Guida (https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2021/01/Linee-Guida-per-le-Commissioni-Territoriali_identificazione-vittime-di-tratta.pdf).

[21] Si vedano, in particolare i provvedimenti del Tribunale di Firenze, 4.04.19, 14.09.18 e 14.12.2017; Tribunale di Palermo 25.07.18. 

24/12/2021
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