Magistratura democratica
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Etica, deontologia e funzioni giudiziarie: tra efficienza, percezione ed effettività *

di Aniello Nappi
già consigliere della Corte di cassazione

Sommario: 1. Il giudice - 2. Il pubblico ministero - 3. L’organizzazione del lavoro: carriera e carrierismo

1. Il giudice

Credo che un approccio razionale o quantomeno ragionevole al problema dell’etica del giudice possa utilmente muovere da una affermazione di intuitiva evidenza. 

Puoi risultare un ottimo ingegnere o un ottimo medico anche se infrangi abitualmente l’etica professionale. Ma non è certamente un buon giudice quello che viola le regole della deontologia professionale.

La dimensione etica risulta dunque intrinseca alla professionalità del giudice, perché attiene oggettivamente alla professione non alla persona di colui che la esercita. Mi propongo di provare a chiarire perché e in quale senso, sulla base della mia esperienza che è l’unico mio titolo di legittimazione a parlare di etica.

Sono stato giudice per 45 anni: e l'ho molto amato questo lavoro; l'ho amato tanto da renderne persino gelosa mia moglie quando, giovanissimi, le dicevo che il magistrato lo avrei fatto anche gratis.

Solo molto più tardi, però, ho compreso le vere ragioni di questa passione.

Si dice abitualmente che il giudice media tra teoria e prassi, tra l’astrattezza delle norme e la concretezza delle azioni; e in effetti trovavo stimolante la possibilità di sperimentare nel lavoro quotidiano anche le suggestioni di letture di filosofia o di sociologia connesse alla prospettiva giuridica. 

Tuttavia qualsiasi professione intellettuale può in realtà coniugare studio e lavoro. Il giudice però studia progetti di vita, visioni del mondo articolate in modelli di comportamento. E quando  è chiamato a verificare la corrispondenza di comportamenti altrui ai modelli prescritti, non può fare a meno di guardare anche alle sue stesse azioni, con una incessante quotidiana messa in mora della sua coscienza. Le astuzie, inadempienze, slealtà, doppiezze, codardie, illegalità, violenze che gli capiterà di stigmatizzare, possono essere non diverse dalle sue. Il giudice definisce norme che non possono non valere anche per se stesso, oltre a impegnarlo anche moralmente ad applicarle in ogni caso simile. E questa continua tensione morale può alla lunga fiaccare, generando ignavia e ipocrita indifferenza. Una sorta di schizofrenia morale, che rischia di trasformare il giudice in un sepolcro imbiancato, è un suo autentico rischio professionale. Ma se si riesce a resistere, allora il lavoro diviene impegno civile, diviene stile di vita. 

Il problema è di come attrezzarsi per resistere. Un problema che può risolversi solo intendendo il lavoro del giudice come esercizio non di potere ma di conoscenza: la ricostruzione del significato di conflitti e controversie a partire dal contesto giuridico e sociale in cui si manifestano, nella consapevolezza che i significati non dipendono dai modi di comportamento ma dalle attese di comportamento, definite da un insieme di norme anche sociali comuni al giudice e alle parti.

Secondo il sociologo Niklas Luhmann, la giurisdizione risponde a programmi normativi condizionali, che esigono l'accertamento di condizioni predeterminate per  giustificarne le decisioni; non può rispondere a programmi normativi di scopo, che esigono la scelta dei mezzi più idonei al raggiungimento dei finì prefissati. E in realtà la costruzione dell'attività giurisdizionale come applicazione di una regola precostituita o, comunque, desumibile da un sistema di norme e di valori precostituito, esprime il principale fondamento della comune connotazione liberale sia dei sistemi giuridici di civil law sia dei sistemi giuridici di common law, benché si ritenga abitualmente che in questi ultimi siano molto più ampi gli spazi di creazione giurisprudenziale del diritto.

Nella cultura liberale ciò che in definitiva esprime la legalità del sistema di giustizia, è la prescrizione che le decisioni giurisdizionali siano giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori precostituito all'intervento del giudice, anziché in ragione della loro funzionalità a un risultato di controllo sociale. 

Questo non significa bandire ogni prospettiva utilitaristica, ma riconoscere piuttosto che nella giurisdizione l’argomentazione utilitaristica può giustificare solo la definizione della norma cui la decisione si proponga di essere conforme (utilitarismo della norma), non la singola decisione (utilitarismo dell’atto).

Sicché è un particolare schema argomentativo delle decisioni giurisdizionali a caratterizzare in genere i sistemi ispirati al principio di legalità, pur nella diversità delle norme sulla produzione del diritto. E le argomentazioni che sorreggono le decisioni sui valori, siano esse morali o giuridiche, non sono più deboli delle argomentazioni che sorreggono le decisioni sui fatti, in quanto il principio di induzione, che fonda le regole di inferenza delle argomentazioni sui fatti, opera in modo non dissimile dal principio di universalizzazione, che fonda le regole di inferenza delle argomentazioni sui valori.

In particolare la giustificazione delle scelte legislative può essere argomentata, e di fatto lo è, soprattutto in ragione della funzionalità al perseguimento di determinati risultati; la giustificazione delle decisioni giurisdizionali è prevalentemente, se non esclusivamente, argomentata in ragione della sua conformità a un sistema di valori precostituito. Viene perciò ribadita la funzione (ri)cognitiva dell'attività giurisdizionale, anche se riferita ai valori piuttosto che alle norme, perché il concetto di valore viene così assunto in un senso in qualche misura formale, come ciò che è indiscusso o, comunque, può essere considerato universalmente condiviso nel contesto sociale in cui il giudice opera.

L'attività giurisdizionale è dunque un'attività di conoscenza collettiva, la più importante attività di conoscenza collettiva, anche perché, come direbbe Habermas, v’è sempre un’insopprimibile tensione tra la positività del diritto e l'indisponibilità dei valori. Infatti in una società democratica il diritto non può essere ridotto a una volontaristica espressione di istantanea sovranità del legislatore, ma va ricostruito nel contesto di quella continuità normativa in cui più autenticamente si esprime la universalità dei valori condivisi. E il giudice può resistere al rischio di un’ignavia degradante solo se si riconosce incluso nella collettività destinataria e partecipe della sue decisioni, rifiutando la prospettiva oggettivante nei confronti di utenti destinatari di un suo potere. L’imparzialità del giudice è garantita dalla sua estraneità agli interessi in conflitto, non può fondarsi su una pretesa di estraneità ai valori in gioco.

Quella del giudice è dunque un’etica della comunicazione, un’etica del discorso, che, come chiarisce K.O Apel, gli impone di riconoscersi «membro di una comunità reale della comunicazione, storicamente costituitasi, con la quale deve condividere una lingua concreta ed una precomprensione dei problemi, anzi perfino già sempre un’intesa minimale a riguardo di certezze paradigmatiche e di premesse accettabili dell’argomentazione». E le regole di questo discorso sono innanzitutto quelle desumibili dai codici di rito.

In realtà è il principio del contraddittorio il vero paradigma deontologico di un’etica del giudice, perché può autonomamente fondarsi, quale garanzia metodologica del processo, solo in una visione decentrata del mondo, affrancata appunto dal paradigma di una coscienza solitaria e autosufficiente, separata da un mondo di oggetti manipolabili e conoscibili. Il principio del contraddittorio non si fonda infatti sull'assunto irrealistico che tutte le parti siano animate da intenti di verità e di giustizia, perché presuppone il solo criterio della plausibilità quale limite necessario e sufficiente a regolare le prospettazioni di chi interviene nel processo. Si fonda, invece, sulla ragionevole previsione che quanto maggiori sono le ipotesi plausibili suggerite al vaglio critico del giudice dal confronto delle parti, tanto maggiori sono le probabilità che il processo si concluda con una sentenza giusta.

Nel processo giurisdizionale si confrontano sempre pretese sia di verità, riferite ad asserzioni, sia di validità, riferite a qualificazioni giuridiche. Ma a distinguere giudizio di fatto da giudizio di diritto non è la natura valutativa delle argomentazioni che li sorreggono, perché valutazioni sono richieste in entrambi i giudizi. E’ nell’oggetto delle valutazioni il criterio della distinzione, perché nel giudizio di fatto le valutazioni attengono alla persuasività delle prove utilizzate a sostegno di una pretesa di verità (principio di induzione); nel giudizio di diritto le valutazioni attengono alla congruità e pertinenza dei criteri di qualificazione del fatto utilizzati a sostegno di una pretesa di validità (principio di universalizzazione).

In generale si può anche rilevare che nel processo civile, essendo per lo più nella piena disponibilità delle parti l’oggetto dell’accertamento in fatto, tendono a prevalere le questioni di qualificazione giuridica, che impegnano giudice e parti soprattutto nella interpretazione ed eventuale integrazione del dato normativo. Nel processo penale tende invece a prevalere l’esigenza di un’attendibile risposta alle pretese di verità dell’affermazione in fatto posta a fondamento dell’accusa.

 

2. Il pubblico ministero 

Se il ruolo del giudice è inestricabilmente vincolato al principio di legalità, il ruolo del pubblico ministero può esserne almeno in parte affrancato, come avviene nei sistemi improntati al principio di opportunità nell’esercizio dell’azione penale (utilitarismo dell’atto). 

Nel nostro ordinamento questa eventualità è esclusa dal principio di obbligatorietà dell’azione penale.

Infatti, con la prescrizione di obbligatorietà dell’azione penale l'art. 112 Cost. si limita appunto a prescrivere uno schema argomentativo; più precisamente estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione.

L'art. 112 Cost. esige per le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale giustificazioni analoghe a quelle prescritte per le decisioni del giudice, escludendo che esse possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale.

Tuttavia è comunque inevitabile che il pubblico ministero sia in qualche misura condizionato da una logica strumentale, orientata al perseguimento di un risultato investigativo. Per questa ragione occorrerebbe evitare che la crescente separazione delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici finisca per tradursi in una scissione culturale così profonda da vanificare il progetto costituzionale.

Negli anni passati si è ritenuto di poter salvaguardare la prospettiva costituzionale non precludendo il passaggio dall’una all’altra funzione. Ma questa impostazione, peraltro contestata dall’avvocatura, finiva per tracciare un orizzonte solo teorico, perché le crescenti esigenze di specializzazione professionale rendevano già allora marginali i passaggi di funzione. E infatti si va sempre più accentuando tra i magistrati del pubblico ministero una cultura autoreferenziale, francamente diversa da quella dei giudici, al di là della proclamata unitarietà della cosiddetta cultura giurisdizionale.

L’unico rimedio a questa pericolosa deriva sarebbe quello di aumentare le occasioni di comune formazione professionale di pubblici ministeri e giudici su temi non condizionati dalle rispettive specializzazioni, quali appunto l’etica e l’argomentazione giudiziaria.

 

3. L’organizzazione del lavoro: carriera e carrierismo

I criteri di organizzazione del lavoro giudiziario sono evidentemente estranei all’etica del giudice, anche se la condizionano pesantemente, perché ne dipende la stessa possibilità di una effettiva instaurazione del “discorso” giudiziario. 

L’organizzazione del lavoro giudiziario è affidata anche a ciascun magistrato, non solo a coloro cui sono assegnate funzioni direttive o semidirettive. Ma sono ovviamente costoro che ne hanno la principale responsabilità, oltre al prestigio del ruolo.

Tuttavia l’etica cui può ricondursi l’organizzazione, individuale o collettiva, del lavoro giudiziario non si distingue da quella di qualsiasi altra istituzione pubblica, benché il lavoro giudiziario esiga talora maggiore riserbo e prudenza nelle relazioni interpersonali. Ma è improprio parlare in proposito di etica del giudice, anche se purtroppo se ne parla prevalentemente a questo proposito, come se dirigere un ufficio giudiziario valesse più che fare il giudice.

Tutti e comunque molti magistrati si pronunciano contro il carrierismo, proclamando di credere in una magistratura che si distingue solo per funzioni. E in realtà nella stragrande maggioranza dei casi all’incarico semidirettivo o direttivo non si accompagna nemmeno il riconoscimento di un maggior reddito.

Eppure l’aspirazione a questi incarichi è considerata fondamentale nella vita professionale dei magistrati.

Sono convinto che questa cultura si fondi su una inadeguata valutazione degli oneri connessi agli incarichi direttivi, che richiederebbero un’elevata dose di altruismo, ove venissero interpretati ed esercitati sempre correttamente. Tanto più se si consideri che il lavoro del magistrato è per definizione affrancato da gerarchie; e che le leadership sostanziali, fondate sull’effettivo valore professionale, prevalgono immancabilmente sulle leadership formali, connesse al ruolo direttivo o semidirettivo.

Gli uffici direttivi dovrebbero in realtà servire a far funzionare gli uffici, non a offrire una carriera ai magistrati. Sembra invece che a prevalere sia la logica individualistica o almeno sindacale, della tutela dei singoli anziché dell'istituzione.

E’ evidente in ogni caso che il lavoro di capo di un ufficio giudiziario è ben diverso da quello dei giudici che lo compongono, sebbene ne presupponga ovviamente la conoscenza. Ed è innegabile che la presenza di un capo dell’ufficio all’altezza del suo compito è determinante per un efficace esercizio delle funzioni giudiziarie.

Ma è per me incomprensibile che una magistratura tanto impegnata a rivendicare l’autonomia e l’indipendenza del giudice dimostri di avere quale obbiettivo principale quello di svolgere un lavoro diverso, qual è anche quello di capo dell’ufficio, quando non addirittura un lavoro non giudiziario con il cosiddetto “fuori ruolo”, che pure a determinate condizioni può risultare anch’esso utile alla formazione del magistrato, se di breve durata.

Bisognerebbe forse avere più chiara la distinzione tra conoscenza (principio di conformità ai valori) e potere (principio di adeguatezza agli scopi dell’atto).

[*]

Relazione tenuta alla Scuola Superiore della Magistratura

18/07/2022
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