Magistratura democratica
Magistratura e società

Dislocazione involontaria. Trauma e resilienza nell’esperienza dello sradicamento

di Marco Bouchard
Presidente di Rete Dafne Italia, rete nazionale di servizi per l’assistenza alle vittime di reato

Recensione al volume di Renos K. Papadopoulos (Bollati Boringhieri 2022)

Renos K. Papadopoulos, è professore di Psicologia analitica e Direttore del Centre for Trauma Asylum and Refugees, membro del Human Rights Centre, del Transitional Justice Network e del Armed Conflict and Crisis Hub all’Università di Essex. È anche psicologo onorario e psicoterapeuta dei sistemi di famiglia alla clinica di Tavistock. È psicologo clinico praticante, terapeuta familiare e psicoanalista junghiano che ha passato la maggior parte della carriera a condurre corsi di formazione ed a supervisionare ricerche in queste tre specializzazioni. Da consulente per le Nazioni Unite ed altre organizzazioni, ha lavorato con profughi, vittime di tortura, ed altri sopravvissuti alla violenza politica o a disastri naturali in vari paesi.

Il suo ultimo lavoro sull’esperienza traumatica nelle migrazioni è un vero e proprio manuale, una guida nell’approccio non solo con coloro che sono stati costretti ad abbandonare i propri luoghi di origine ma con tutti coloro che hanno attraversato nella loro vita una “grande avversità”. “Avversità” è un lemma che, a sua volta, attraversa l’intero volume.

Insomma: è un testo che si presta ad orientarci di fronte a tutti i fenomeni umani quando le persone vengono coinvolte in tragedie che sconvolgono la loro esistenza.

Quando veniamo a conoscenza o, addirittura, incontriamo persone colpite da «gravi forme di avversità» siamo facilmente presi dall’ansia di aiutarle, ci concentriamo sulla loro vulnerabilità e, quando presentiamo la loro situazione ad altri, trasmettiamo l’impotenza che percepiamo.

Questa reazione è assolutamente naturale, ma Renos K. Papadopoulos ci avverte, fin dalle prime pagine, che questo tipo d’incontri ci pone sempre di fronte ad un dilemma: se esaltiamo la condizione di vittima di costoro, l’irreparabilità del loro dolore, rischiamo di ancorarli ad un’identità vittimaria; se, invece, enfatizziamo la loro resilienza c’è il pericolo di minimizzare l’enormità della loro sofferenza.

Per evitare questa polarizzazione è necessario assumere la complessità della situazione, una postura di «vigilanza epistemologica» per «esaminare le sottigliezze di tutti i processi che ci portano a formulare non soltanto percezioni, opinioni e valutazioni consapevoli delle nostre azioni e dei nostri progetti, ma anche, e innanzitutto, le stesse concettualizzazioni dei fenomeni che incontriamo» (p. 31).

 

1. Premessa epistemologica

Renos K. Papadopoulos, per affrontare questa complessità, ci propone uno schema che lui definisce «ciclo epistemologico». La nostra comprensione dei fenomeni e delle azioni che ne conseguono passa attraverso tre fasi: in un primo momento li concettualizziamo secondo il nostro patrimonio conoscitivo; in un secondo momento, in base alle nostre supposizioni e le nostre scelte, ci posizioniamo; infine, agiamo. Se qualcosa non quadra durante l’azione, non serve cercare semplicemente di agire diversamente ma occorre rivedere completamente il processo epistemologico.

È, infatti, importante avere consapevolezza degli effetti che si producono quando abbiamo a che fare – per lavoro, a titolo di volontariato o, anche, per amicizia – con persone che hanno vissuto esperienze di avversità grave. La tendenza, pur con le migliori intenzioni, è di reagire con concettualizzazioni impulsive, spesso dettate dall’urgenza reale o immaginata, e di affrontare situazioni, per le quali non possediamo strumenti di comprensione, con delle semplificazioni emotive e cognitive.

Per questo possono essere molto utili alcune avvertenze sui rischi che si corrono con un tale approccio.

Il primo rischio è quello di confondere l’evento in sé con l’esperienza vissuta da un individuo, un gruppo o una comunità. Ad es. se alcune vittime di una grande tragedia sono rimaste traumatizzate, non per questo tutte le vittime possono considerarsi tali: la concettualizzazione iniziale di un evento (tragedia=trauma) non può dominare la percezione e le valutazioni di tutti gli aspetti dell’evento stesso. Anche dalla gravità di un evento non derivano necessariamente inferenze sull’entità del danno o sulla quantità di aiuto necessario.

In secondo luogo, gli eventi che realizzano gravi violazioni dei diritti umani si prestano ad essere spiegati e affrontati da diversi punti di vista: legale, etico, sociale, politico, economico… Occorre fare attenzione a non confondere questi diversi piani e, soprattutto, a non favorire un’inappropriata predominanza di alcune prospettive rispetto ad altre. Ad es. è rischioso e pericoloso interpretare tutte le interazioni coinvolte nel processo di assistenza ai profughi come casi di «dipendenza psicologica» (p. 47).

In terzo luogo, è estremamente limitante e sviante l’inclinazione a vedere nei sopravvissuti di una tragedia solo individui impotenti senza considerare tutti i tratti della loro personalità. Purtroppo, psicologi e psichiatri si trovano in una posizione drammatica quando, incaricati di compilare rapporti specialistici sui richiedenti asilo, rischiano di esporli alla reiezione della loro domanda se dovessero descrivere i loro punti di forza e l’eventuale ragguardevole resilienza .

Inoltre: dal punto di vista giuridico il danno inflitto alle vittime incide sulla pena da infliggere ai responsabili. Tuttavia, occorre evitare la tendenza a patologizzare i sopravvissuti solo al fine di infierire sui responsabili.

Ma, forse il rischio cui prestare maggiore attenzione è la tendenza a favorire lo sviluppo di una identità vittimaria nella persona offesa. Un conto è riconoscere la vittima di un fatto in quanto tale, altro è rafforzarla e fossilizzarla in quella identità (p. 54).

 

2. Dislocazione involontaria

L’autore ha volutamente scelto di sostituire il termine “migrazione” con quello di “dislocazione involontaria” per porre l’accento «sull’esperienza umana dei fenomeni legatati all’abbandono involontario della casa, invece che sui fenomeni esterni»: si sta parlando di individui costretti a percepire i propri spazi intimi come non più vivibili e che, per questo, hanno dovuto allontanarsi da quegli spazi per cercarne di altri e che, se avessero potuto scegliere, non li avrebbero abbandonati (pp. 60-61). È, dunque, in primo piano l’esperienza umana della casa in tutti i suoi significati (emotivo, famigliare, sociale, culturale, etnico, linguistico, spirituale). Il termine dislocazione contiene un espresso riferimento al luogo e, in particolare, all’abitare; l’aggettivo “involontaria” indica non solo la contrarietà di una scelta ma anche la possibile mancanza di intenzionalità nella dislocazione.

La dislocazione involontaria è un processo: è, innanzitutto, interiore e diventa esteriore solo quando lo spazio originario viene abbandonato. Ne consegue la ricerca di un nuovo spazio e la sua individuazione. Una volta individuato inizia la fatica dell’adattamento che, normalmente, comporta un processo doloroso per ridare senso a tutti i segmenti che hanno caratterizzato lo spostamento.

Quali sono gli eventi che possono determinare la dislocazione involontaria?

Innanzitutto, ci sono gli stravolgimenti politici (i colpi di stato, ad esempio); in secondo luogo la criminalità (dalla tratta degli esseri umani alle organizzazioni criminali che devastano determinati territori); sempre più evidente è il fenomeno migratorio determinato dai cambiamenti climatici (secondo la Banca mondiale nel 2050, 143 milioni di migranti climatici saranno esposti a una grave minaccia alla loro vita e dovranno essere sfollati). Inoltre, ci sono gli stravolgimenti socioeconomici, ampiamente sottovalutati perché il migrante economico viene normalmente descritto come un semplice aspirante ad un miglior benessere. Infine, una categoria del tutto trascurata è quella della marginalizzazione e dell’esilio psicosociale di chi non si sente a casa nella propria abitazione e dove la dislocazione vive una dimensione tutta interiore (p. 79).

 

3. La casa

Nell’esperienza della dislocazione la persona ha ben presente l’esistenza di una casa come luogo di origine o, comunque, di una casa nella sua storia passata; a questa casa si contrappone la casa “transitoria”, quella in cui si vive in attesa di una rilocazione; infine, esiste una casa idealizzata a cui la persona aspira in modo più o meno concreto (p. 128). Renos K. Papapdopoulos propone l’uso del termine inglese “homeness” per indicare la proprietà o condizione di essere casa, la natura essenziale di una casa. In questo senso la casa non è solo un oggetto dato per la sua natura intrinseca ma dipende da sistemi di significato condivisi che variano in base ai contesti personali, famigliari e sociali. Papadopoulos propone una vera e propria cartografia della “casa” che permetta di identificare le case nel “tempo” della persona, la loro centralità o meno nella vita dell’individuo, i valori positivi o negativi che vi sono connessi, il senso di appartenenza o meno, di sicurezza o meno che ne deriva. Uno degli aspetti interessanti proposti dall’autore riguarda proprio la possibilità che, per quanto le esperienze concrete dell’abitare siano state negative per un individuo, l’idea di casa resta fortemente idealizzata fino a rimanere «immutabile e incontaminata» (p. 136). La mobilità che connota il nostro vivere abitativo ci induce, paradossalmente, a investire emotivamente sempre di più sull’oggetto casa, più diventiamo “senza casa” più acuta appare la necessità di avvertire un senso di casa stabile. «Essere a casa significa essere umani e essere umani significa essere a casa» (p. 139). La casa è un archetipo, recipiente di interrelazioni complesse tra spazi intimi, tempo e relazioni.

 

4. Identità

Nel corso della dislocazione e della rilocazione i migranti percepiscono la loro identità come necessariamente fluida e multipla e non come qualcosa di dato. Per quanto il migrante abbia una propria identità in evoluzione ma individuale, è costantemente riportato dalle valutazioni che lo riguardano ad una identità collettiva (il profugo, il richiedente asilo, il clandestino…). Nella dislocazione si fa largo anche un disorientamento perché nella definizione di identità ricorre anche un aspetto di separazione e distacco dagli elementi che connotavano nel passato una diversa identità.

La nostra identità è composta da elementi intenzionalmente percettibili (il lavoro, il sesso, le abitudini, elementi della personalità)  e da elementi impercettibili: noi diamo per scontati, anche se ci caratterizzano nell’identità, tutti gli aspetti visivi, uditivi e olfattivi, gustativi e tattili della nostra quotidianità; lo stesso accade per i rituali che rispettiamo senza rifletterci; lo scorrere del tempo e le ore di luce della giornata rientrano in questa impercettibilità; lo stesso vale per la dimensione spaziale e per le nostre diverse appartenenze. Noi siamo un vero e proprio mosaico che, però, ci spinge costantemente verso una stabilità onto-ecologica (p. 173) dove s’incastrano le parti percettibili e quelle impercettibili di ciascuno di noi. È questa stabilità che ci offre una sorta di prevedibilità utile a farci sentire “a casa” e a conservare, anche nelle difficoltà, un’identità relativamente salda.

Tutte queste caratteristiche sono sottoposte a forte pressione quando l’individuo è esposto a varie forme di avversità che scombussolano gravemente la stabilità onto-ecologica. Uno dei cambiamenti più frequenti è dato proprio dalla riduzione dell’identità molteplice ad una identità più rigida. Per sopravvivere alle avversità le persone possono chiudersi, nella dislocazione involontaria, in quella di “vittima-profugo-vulnerabile”. Spesso questa identità rigida è favorita proprio da coloro che vorrebbero aiutarli: tanto più possono essere aiutati quanto più evidente è la loro vulnerabilità che li qualifica per avere assistenza; più enfatizziamo la loro vulnerabilità più li riconduciamo ad un ruolo che può pregiudicare la loro autodeterminazione.

 

5. Disorientamento nostalgico

Papadopoulos, che è uno psicologo, psicoterapeuta e psicoanalista, nell’attività di formazione sui fenomeni migratori propone un esercizio esperienziale che consiste nel chiedere ai partecipanti di elencare per iscritto – riservatamente – dieci attributi che dovrebbero caratterizzarli come individui. In una seconda fase vengono invitati a immaginare di dover affrontare un grave sconvolgimento, di dover essere costretti ad una dislocazione involontaria e, infine, ad indicare con una spunta vicino agli attribuiti prima elencati quelli che potrebbero subire dei cambiamenti in conseguenza della dislocazione. A quel punto si apre il confronto collettivo per stabilire quanti attributi sono stati spuntati, cui segue una discussione interattiva. Questo permette di apprezzare quante caratteristiche, apparentemente immutabili, possono essere invece soggette ai più profondi cambiamenti, di percepire quando poco seriali sono le reazioni che seguono ad eventi avversi e quanto l’instabilità che ne deriva ha poco a che fare con disturbi psichiatrici o patologie della personalità preesistenti.

Quell’instabilità è un vero e proprio disorientamento nostalgico: nostos è l’antica parola con cui Omero indicava il ritorno a casa, il rientro (p. 189). La persona colpita da questa instabilità tende a ricercare una spiegazione plausibile di quanto sta accadendo, le cause dell’instabilità e a ripristinare un equilibrio attraverso un senso specifico e tangibile di casa e di appartenenza. Purtroppo, molto spesso, il dolore del disorientamento costringe le persone colpite ad attribuire un peso eccessivo alle difficoltà che incontrano, scambiandole per la “causa” esclusiva del loro malessere con tentativi improduttivi di risolvere il problema, senza essere consapevoli della sua reale “complessità”.

Il disorientamento nostalgico è una reazione inevitabile nella dislocazione involontaria che, eventualmente, si aggiunge ad altri fattori – psicologici, psichiatrici, spirituali – che si presentano nel lavoro di riorganizzazione di un minimo di stabilità.

 

6. La vittima

Un conto è la persona vittimizzata da avversità, altro è l’identità vittimaria, vale a dire il ruolo di vittima che una persona adotta al di là dell’ambito temporale e delle circostanze degli eventi vittimizzanti. Esiste un rischio costante di creare una circolarità dannosa: più le persone si vedono e agiscono come vittime, più gli altri le vedono e interagiscono con loro in modi che le rafforzano in quel ruolo (p. 220).

Nell’esperienza della vittimizzazione intervengono sfondi tematici di estrema delicatezza e importanza.

Innanzitutto, intervengono forme diverse di responsabilità: quella di chi ha commesso il fatto; quella di chi è chiamato a dare una risposta dopo averlo subito anche nelle forme di una reazione diretta; quella di chi è chiamato a punire e, infine, quella di chi è incaricato di proteggere gli individui vittimizzati. Dal punto di vista della vittima una delle caratteristiche ricorrenti dell’identità vittimaria è la tendenza ad evitare di assumersi le responsabilità «di ciò di cui possono essere legittimamente responsabili» (p. 222). Purtroppo, la maggior parte degli studi ignora l’importanza di questa componente della responsabilizzazione – della agentività – della vittima.

Legato al tema della responsabilità è quello della colpa. Le nostre società sono fondate sull’idea di colpa. La cultura della colpa induce le persone ad accusare gli altri senza fare grosse distinzioni: la nostra tendenza a razionalizzare fa sì che qualunque disavventura, disgrazia o contrattempo che non risponda alle nostre aspettative deve essere imputata a qualcuno, senza valutare a sufficienza la correttezza di un simile atteggiamento. La cultura della colpa ci porta ad estremizzazioni per cui la vittima o è innocente e pura per definizione oppure viene caricata di responsabilità eccessive: anzi, proprio nei fenomeni di dislocazione involontaria la vittima migrante viene caricata di tutti i mali della società ospitante e le stesse vittime tendono ad autocolpevolizzarsi.

La tendenza ad incolpare gli altri è spesso generata da un sentimento di superiorità morale della comunità ospitante e, conseguentemente, di innocenza rispetto ai drammi delle avversità che colpiscono i migranti.

L’identità di vittima, quando non tende verso l’autocolpevolizzazione, induce passività, fatalismo e impotenza.

E per contrastare l’impotenza, il rimedio più logico, un tempo, era stato quello di favorire negli individui la capacità di aiutarsi: applicare programmi di auto mutuo aiuto a livello individuale e di comunità in modo da rafforzare una risposta “naturale” giocata sui sentimenti di autostima e di ricerca dell’indipendenza. Questi programmi sono stati favoriti, sostiene Papadopoulos, soprattutto da quello che lui chiama psico-filantrocapitalismo, vale a dire da società interessate a riparare eventuali effetti dannosi delle loro attività con ingenti aiuti destinati alle popolazioni più svantaggiate, senza, peraltro, incidere, sulle condizioni generali che generano crisi umanitarie.

Papadopoulos intende, però, offrire un nuovo strumento interpretativo della condizione vittimaria a partire da una critica al cd. “Triangolo della vittima” ipotizzato da Stephen Karpman secondo cui ogni volta che vengono messe in atto forme di vittimizzazione nella maggior parte dei rapporti umani, gli individui coinvolti ricoprono facilmente ruoli quasi prestabiliti che riflettono le dinamiche principali di quelle interrelazioni: la vittima, il persecutore e il salvatore.

Di fronte alla vittima scattano degli interventi di aiuto che determinano un rapporto complesso, con rischi e vantaggi, tra la vittima stessa e il “salvatore”. L’efficacia di questo rapporto si fonda sulla individuazione di un nemico comune (il persecutore), sulla concentrazione nelle loro rispettive identità, ignorando tuti gli altri aspetti e nel conservare la posizione originaria della vittima in quanto vittima. Per i soggetti dislocati questa dinamica è fonte di infelicità e densa di pericoli perché mina gravemente la loro indipendenza. Al potere negativo iniziale esercitato dal persecutore attraverso l’offesa si aggiunge il potere del salvatore che è responsabile delle necessità della vittima. In un certo senso anche la vittima può esercitare un potere sul salvatore perché può negare il suo apprezzamento e la sua approvazione o, addirittura, contestarlo formalmente.

Proprio per via di queste dinamiche è possibile che la triangolazione sfugga di mano: ognuno esaspera sempre di più i propri ruoli; i ruoli possono scambiarsi in maniera confusiva; uno dei soggetti può essere espulso e sostituito da altri. Uno scenario tipico è rappresentato dalla vittima che diventa sempre più richiedente nei confronti del salvatore al punto da diventarne il persecutore.

Osserva Papadopoulos che queste dinamiche si sviluppano di fronte ad un pubblico costituito da tutte le persone variamente legate agli attori e, nella contemporaneità, soprattutto dai social media. Ciò significa che più che di un triangolo occorrerebbe parlare di un “rombo” della vittima nel quale il pubblico svolge una funzione altrettanto fondamentale quanto quella degli altri tre soggetti.

 

7. Trauma

Storicamente il trauma ha svolto tre funzioni diverse. Innanzitutto, è servito per convalidare richieste medico-legali di indennizzi e risarcimenti per riparare offese addebitabili a precise responsabilità.

Il trauma inteso come sofferenza psicologica è stato menzionato per la prima volta nelle vertenze medico-legali riguardanti il risarcimento dei danni mentali provocati dallo sviluppo impetuoso dell’industrializzazione nell’Europa dell’800. Fu il neurologo berlinese Hermann Oppenheim a riconoscere ad un operaio un’indennità supplementare perché, una volta rientrato sul luogo di lavoro, continuava a manifestare forme di angoscia mentale a causa di un incidente lavorativo occorsogli. Con lo studio delle conseguenze della guerra in Vietnam sui reduci venne elaborata una nuova categoria psichiatrica (PTSD), poi inserita nel Manuale di diagnostica dei disturbi mentali (DSM) del 1980. È da allora che il trauma non viene più collegato semplicemente ad una struttura nevrotica di personalità preesistente, ma viene ricondotto al fattore di stress determinato da un evento puntuale. L’aspetto rilevante di quell’innovazione fu la consapevolezza che a soffrire del disturbo traumatico non erano solo le vittime ma anche i responsabili delle violenze.

La definizione di trauma è, dunque, intimamente legata al contesto storico e presenta tutte le caratteristiche di un costrutto sociale soggetto alle molteplici preoccupazioni di una data società in un dato tempo (p. 285). Va, comunque, chiarito che un conto è l’evento traumatico, altro è il disturbo che si manifesta: i due aspetti non coincidono.

La progressiva comprensione del trauma, in tutti i suoi aspetti, ha permesso di rettificare errori storici nell’interpretazione di esperienze di gravi avversità personali o collettive.

Certamente i conflitti armati sono stati e continuano ad essere una fonte primaria di stress. Ma lo sono altrettanto i fatti della vita quotidiana, soprattutto in condizioni di povertà, emarginazione e isolamento. Sono state studiate a fondo le dimensioni stressanti della violenza politica sia per i singoli individui che per la comunità.

Il trauma è diventato, gradualmente, una nozione estesa ad ogni sorta di grave turbamento, presentandosi come “sapere popolare” e perdendo, in fondo, la specificità descrittiva propria delle discipline psicologiche (p. 291). Secondo Papadopoulos l’attuale narrazione prevalente sul trauma, incentrata sull’effetto stressante, rappresenta un regresso verso una lettura psicologica semplificata che ignora tutte le variabili delle differenze individuali e dei vari fattori sociali in gioco che, invece, arricchiscono la nostra comprensione delle complesse modalità con cui le persone vivono gli eventi esterni e vi rispondono.

Per contro, la nozione di trauma ha contribuito a migliorare l’assistenza terapeutica degli individui offesi. Anche qui sono stati gli eventi bellici all’origine di questa evoluzione. Per la prima volta durante la guerra civile americana (1861-1865) venne offerta un’assistenza terapeutica in seguito all’identificazione di una serie di sintomi ritenuti traumatici. Fu ovviamente Freud ad aprire la strada verso la “rivoluzione del trauma” indicando nell’esperienza traumatica quella in grado di generare terrore, angoscia, vergogna, dolore psichico. Si è così messo in luce l’importanza non tanto dell’evento esterno concreto ma il modo in cui l’evento viene vissuto e trattenuto anche molto tempo dopo l’evento stesso. Il concetto di trauma si è così imposto come una forma di appropriazione originaria delle tracce della storia e come un modo dominante di rappresentazione del rapporto con il passato: il trauma è diventato segno e conferma dell’avversità che si è prodotta nella vita di un individuo o di un gruppo umano, il marchio lasciato dalla ferita.

 

8. Le avversità della dislocazione involontaria

Nel trattare del trauma collegato alla dislocazione involontaria occorre considerare tutta la complessità dell’avversità: gli eventi, le esperienze degli eventi stessi, il loro impatto, la reazione all’impatto e la comunicazione di tutti questi aspetti.

La dislocazione è sempre preceduta da una “anticipazione”: l’abbandono della casa è preceduto dall’incertezza sull’affidabilità dello spazio abitativo fino all’accettazione della realtà del distacco.

Quando sopraggiungono gli eventi devastanti prendono corpo le paure emerse durante la fase dell’anticipazione. La violenza e la distruzione annientano l’ordine precedente delle cose. Questa è la fase degli eventi traumatici. È la storia del trauma che diventa l’oggetto della ricostruzione dei fatti attraverso l’interazione tra il protagonista e gli operatori. Si forma una storia personale, una sorta di carta d’identità da presentare in ogni interazione pubblica o privata. In realtà, non tutte le persone dislocate vengono coinvolte o assistono agli stessi eventi traumatici e questo può incidere nelle valutazioni che verranno fatte nella terra ospitante su chi possiede una storia traumatica e chi no: con conseguenze, a volte, ingiuste e dannose.

In uscita dalla fase “eventi traumatici” i dislocati entrano in quella della “sopravvivenza”, una sorta di limbo dove è difficile distinguere il passato, il presente e il futuro.

Infine, si arriva all’”adattamento”, all’interno di una nuova casa, almeno per un certo periodo, in nuovi luoghi, tra nuovi modi di essere, con una nuova lingua, nuovi codici e un nuovo status. È un lavoro arduo e complesso.

Le gravi avversità che segnano il percorso verso la dislocazione involontaria pongono le persone colpite di fronte a due esigenze distinte: da un lato, riparare il danno nelle forme legali, politiche e psicologiche e, dall’altro, sviluppare una nuova visione della propria vita e della vita in generale (p. 353).  

Se il primo linguaggio – quello della riparazione – è immensamente utile, resta comunque insufficiente a cogliere tutti i fenomeni della dislocazione involontaria. Anche l’altro linguaggio – del fare i conti con la nuova vita, la nostalgia, i dilemmi – è tanto indispensabile quanto, da solo, insufficiente.

L’invito, formulato da Renos K. Papadopoulos, per chi entri in contatto con la dislocazione involontaria è di tenere ben presente questi due aspetti, questi due linguaggi di cui è intessuta l’esperienza della migrazione. La vera sfida è costituita proprio dall’entrare in contatto con le ambiguità, i silenzi e le incertezze della dislocazione, impregnati di nostalgia, di algos, dolore, e nostos, ritorno, in uno spazio tempo sfuggente. Non è azzardato definirlo un linguaggio poetico perché si tratta davvero di una «poetica del disorientamento/incomprensione nostalgici», l’unica in grado di restituire la complessità del fenomeno migratorio.  

08/04/2023
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