Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Coltivazione di cannabis finalizzata all’autoconsumo

di Davide Barbagiovanni
avvocato del Foro di Torino
La sentenza delle Sezioni unite sulla coltivazione di cannabis destinata ad uso esclusivamente personale riporta al centro dell’indagine il principio di offensività in tema di contrasto penale della circolazione di sostanze stupefacenti

 

1. Con la sentenza depositata il 16 aprile 2020, le Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348) tornano ad occuparsi della questione della coltivazione di sostanze stupefacenti. Si tratta dell'ultimo tentativo di trovare un equilibrio nel bilanciamento tra l'ambito di tutela e l'offensività di una fattispecie declinata secondo il paradigma del reato di pericolo astratto.

Torna, così, di attualità la distinzione tra la coltivazione in senso “tecnico-agrario” e la coltivazione “domestica”, con l'esclusione dall'ambito di applicazione della norma penale di quella domestica, a fine di autoconsumo.

Resta più che attuale il tema dell'offensività (specie nel suo tormentato rapporto con il principio attivo): ai fini della rilevanza penale della coltivazione in senso “tecnico-agrario”, per il caso in cui il ciclo delle piante non sia completato, è sufficiente che si accerti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sola attitudine a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente; per il caso, invece, in cui il ciclo botanico sia già completato, occorre che si accerti una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante.

 

2. La pronuncia, sul piano della tipicità della fattispecie, ribalta la precedente soluzione delle Sezioni Unite della Suprema Corte -che, con la sentenza del 2008 (n. 28605 del 24 aprile 2008), avevano ritenuto «penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale»[1]- e circoscrive la nozione giuridica di coltivazione, per «dare spazio alla distinzione tra coltivazione “tecnico-agraria” e coltivazione “domestica”» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348).

L'irrilevanza penale della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale, si àncora, così, alla sua «non riconducibilità alla definizione di coltivazione come attività penalmente rilevante; dandosi, così, un'interpretazione restrittiva della fattispecie penale, che si giustifica tanto più per la sua natura di reato di pericolo presunto (…), nell'ottica garantista di un corretto bilanciamento fra ampiezza e anticipazione della tutela» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348).

Se è pur vero che la fattispecie in discussione integra un «tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica - sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto» (così C. Cost. n. 360/1995, secondo la quale «non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; né nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione»), una tale interpretazione restrittiva dell'ambito di applicazione della norma penale rende più “accettabile” -sul piano dell'offensività- un pericolo predicato soltanto in astratto dal legislatore.

 

3. In seno ad una fattispecie costruita sul pericolo astratto -in «quanto corrisponde alla normalità della pratica agricola la conseguenza dell'incremento della provvista esistente di stupefacente, idoneo ad attentare al bene della salute collettiva e dei singoli, creando in potenza maggiori occasioni di spaccio» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348)- resta, dunque, da comprendere se e quali margini di apprezzamento residuino in capo al giudice sul piano dell'offensività concreta della condotta ed in particolare se ed in qual misura rilevi l'accertamento del principio attivo.

Sul tema dell'offensività, gli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale sono, da qualche decennio, consolidati e lineari. Secondo la Consulta, il principio di offensività opera sul piano astratto e su quello concreto.

Sul piano astratto, il principio di offensività opera quale «limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore» (C. Cost. n. 360/95), ovvero nel descrivere fattispecie che esprimano un contenuto lesivo, o comunque di messa in pericolo, di un bene giuridico. È su tale piano che il Giudice delle leggi ha ricondotto la fattispecie della coltivazione di sostanze stupefacenti ad un «tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica - sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto» (C. Cost. n. 360/95).

Sul piano concreto, il principio di offensività opera quale criterio ermeneutico rivolto al giudice, al quale spetta di verificare se la condotta accertata risulti «assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto e, dunque, in concreto inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità (…). Risultato, questo, conseguibile sia -secondo l'impostazione della sentenza n. 360 del 1995 – facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49 cp); sia – secondo altra prospettiva – tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio» (C. Cost. n. 109/2016). Un criterio che permette una rilettura “sostanzialistica” (se si preferisce un “temperamento”) delle fattispecie di pericolo astratto.

Meno sicuri e stabili sono, invece, apparsi nel tempo gli approdi della giurisprudenza di legittimità nella elaborazione dei criteri per riconoscere il difetto di offensività in concreto della condotta. Ci si riferisce, in particolare, al difficile rapporto tra l'accertamento dell'offensività in concreto della coltivazione ed il principio attivo contenuto nelle piante.

 

4. La cornice di tali “approdi” giurisprudenziali sul tema era data dalla sentenza n. 28605 del 24 aprile 2008, con la quale le Sezioni Unite della Suprema Corte avevano ritenuto «penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale» (Cass. Pen., Sez. Un., 24.04.2008, n. 28605).

Secondo la Corte, la condotta, in linea con la volontà del legislatore, doveva ritenersi penalmente rilevante, quali che ne fossero le caratteristiche ed il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti, salvo il dovere per il giudice, in ossequio al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, di verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, fosse «assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva» (Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile 2008, n. 28605), per essere la sostanza ricavabile dalla coltivazione non idonea a produrre un «effetto stupefacente in concreto rilevabile» (Cass. Pen., Sez. Un., 24 aprile 2008, n. 28605).

Nella cornice della generalizzata rilevanza penale di qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione delle piante del tipo botanico previsto (anche quando la medesima fosse realizzata per la destinazione del prodotto all'esclusivo consumo personale), si sono susseguite soluzioni diverse per l'accertamento dell'offensività in concreto della condotta[2]: dalla mera attitudine della pianta proibita a giungere a maturazione -a prescindere, perciò, dalla quantità di principio attivo ricavabile dalla coltura al momento dell'accertamento-[3], sino alla necessità di accertare, accanto alla conformità della pianta al tipo botanico ed alla capacità della sostanza, ricavata o ricavabile, a produrre un effetto drogante, il concreto pericolo di un aumento della disponibilità di stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso[4].

 

5. Nella più ristretta cornice della rilevanza penale della sola coltivazione tecnico-agraria (con l'esclusione della coltivazione di minime dimensioni, finalizzata esclusivamente al consumo personale), la pronuncia che si commenta ribadisce, sul piano dell'offensività in astratto, la natura di reato di pericolo astratto della fattispecie (sulla scorta della «spiccata pericolosità della coltivazione rispetto alla maggior parte delle altre condotte elencate nell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990»[5]) ed in ragione della «riconosciuta anticipazione di tutela», ne circoscrive l'oggettività giuridica alla sola salute individuale o collettiva, ritenendo del tutto superflui gli inafferrabili richiami a «concetti come la sicurezza, l'ordine pubblico o il mercato clandestino, che, con riferimento alla fattispecie in esame, appaiono declinati in forma eccessivamente generica perché privi di un collegamento sufficientemente diretto con quello della salute, il quale trova un solido ancoraggio costituzionale nell'art. 32» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348).

Sul piano dell'offensività in concreto, la sentenza afferma la necessità dell'effettiva sussistenza di un pericolo potenziale (di un'attitudine lesiva) per il bene giuridico protetto ed a tal fine ritiene: che per il caso in cui il ciclo delle piante non sia completato, sia sufficiente la conformità della pianta al tipo botanico e la sola attitudine a giungere a maturazione ed a produrre sostanza stupefacente (potrà rilevare al fine di escludere la punibilità «un'attuale inadeguata modalità di coltivazione da cui possa evincersi che la pianta non sarà in grado di realizzare il prodotto finale»; Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348); che per il caso in cui il ciclo botanico sia già completato, invece, l'accertamento giudiziale debba avere per oggetto l'esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante (potrà rilevare al fine di escludere la punibilità «un eventuale risultato finale della coltivazione che non consenta di ritenere il raccolto conforme al normale tipo botanico, ovvero abbia un contenuto in principio attivo troppo povero per la utile destinazione all'uso quale droga»; Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348).

Con le parole della Suprema Corte, si deve, dunque, affermare: il «reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, essendo sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all'ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell'ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all'uso personale del coltivatore».

 

6. Nell'ambito di un reato di pericolo astratto, ciò che si concede, in una rilettura “sostanzialistica”, è un (adeguato) temperamento nella «valorizzazione dell'offensività “in concreto”, quale criterio interpretativo affidato al giudice, il quale è tenuto a verificare che il fatto abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene-interesse tutelato» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348). A seconda della fase della coltivazione al momento dell'accertamento, il giudice è, dunque, tenuto a verificare: l'esistenza delle condizioni che consentano di prefigurare il positivo sviluppo della pianta corrispondente al tipo botanico, nel caso in cui il ciclo della coltivazione non sia completo; l'esistenza di una quantità di principio attivo necessario a produrre effetto drogante, nel caso in cui il ciclo della coltivazione sia giunto a maturazione.

Ne risulta una fattispecie che, pur declinata sul paradigma del reato di pericolo astratto, valorizza, sul piano della tipicità, l'attitudine lesiva della condotta, la sua idoneità a ledere il bene giuridico tutelato: un pericolo astratto ma reale o, se si preferisce, “astratto-concreto”.

Questa sembra la massima “concretizzazione” possibile del giudizio di pericolo della condotta di coltivazione; una maggiore “concretizzazione” -limitata al quantitativo di principio attivo effettivamente accertato e, dunque, al completamento del ciclo botanico della pianta ed all'accertamento della verificazione dell'evento di pericolo per la salute-, convertirebbe la fattispecie in un reato di pericolo concreto.

In ossequio al principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite, risulta, dunque, una «graduazione della risposta punitiva rispetto all'attività di coltivazione di piante stupefacenti, nelle sue diverse accezioni: a) devono considerarsi lecite la coltivazione domestica, a fine di autoconsumo (…) per mancanza di tipicità, nonché la coltivazione industriale che, all'esito del completo processo di sviluppo delle piante non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto; b) la detenzione di sostanza stupefacente esclusivamente destinata al consumo personale, anche se ottenuta attraverso una coltivazione domestica penalmente lecita, rimane soggetta al regime sanzionatorio amministrativo dell'art. 75 del d.P.R. n. 309 del 1990; c) alla coltivazione penalmente illecita restano comunque applicabili l'art. 131-bis cod. pen., qualora sussistano i presupposti per ritenerne la particolare tenuità, nonché, in via gradata, l'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, qualora sussistano i presupposti per ritenere la minore gravità del fatto» (Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348).

 

 

[1]Ciò, in quanto, secondo detta pronuncia, doveva ritenersi arbitraria la «distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero “imprenditoriale” e “coltivazione domestica”» (così Cass. Pen., Sez. Un., 24.04.2008, n. 28605) e, perciò, anche l'esclusione dall'ambito di applicazione della norma penale della coltivazione “domestica”.

[2]La Sezione Quarta Penale della Suprema Corte, per vero, già con la sentenza 28 ottobre 2008, dep. 14 gennaio 2009, n. 1222, aveva «individuato nella salute il bene tutelato dalla normativa in esame nella prospettiva del suo rispetto per il principio di offensività», ed aveva, così, ritenuto che, per «essere meritevole di punizione, la condotta tipica deve avere come oggetto sostanze stupefacenti aventi un requisito formale (rientrare negli elenchi delle tabelle) e sostanziale (avere efficacia stupefacente o psicotropa e quindi capacità o potenzialità lesiva). In caso di assenza di quest'ultimo, deve escludere la rilevanza penale del fatto». A ciò, secondo detta pronuncia, conseguiva che in «concreto non è rilevabile e quindi non è suscettibile dell'accertamento chiesto al giudice l'effetto stupefacente in una pianta il cui ciclo non si è completato e che quindi non ha prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza di principi attivi. La prognosi espressa dal consulente tecnico sulla futura esistenza dei principi attivi non può equivalere all'accertamento richiesto al giudice dalla Corte costituzionale e dalle Sezioni Unite, all'esito del quale può ritenersi dimostrata l'offensività della condotta dell'agente, nella sua accezione concreta» (Cass. Pen., Sez. IV, ud. 28 ottobre 2008, dep. 14 gennaio 2009 n. 1222).

[3]Secondo tale soluzione, ai «fini della punibilità della coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, l'offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell'obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente»; così Cass. Pen., Sez. VI, 28.04.2017, n. 35654. Cosicché, l'«offensività della condotta non è esclusa dal mancato compimento del processo di maturazione dei vegetali, neppure quando risulti l'assenza di principio attivo ricavabile nell'immediatezza, se gli arbusti sono prevedibilmente in grado di rendere, all'esito di un fisiologico sviluppo, quantità significative di prodotto dotato di effetti droganti, in quanto il "coltivare" è attività che si riferisce all'intero ciclo evolutivo dell'organismo biologico»; così Cass. Pen., Sez. VI, 22 novembre 2016, n. 52547.

[4]Secondo tale soluzione, ai «fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente l'accertamento della loro conformità al tipo botanico vietato, dovendosi invece accertare l'offensività in concreto della condotta, intesa come effettiva ed attuale capacità della sostanza ricavata o ricavabile a produrre un effetto drogante e come concreto pericolo di aumento di disponibilità dello stupefacente e di ulteriore diffusione dello stesso»; così Cass. Pen., Sez. VI, 17 febbraio 2016, n. 8058.

[5]Deve, in altri termini, «essere ritenuta pienamente conforme con il principio di ragionevolezza la valutazione prognostica di potenziale aggressione al bene giuridico protetto, sottesa all'incriminazione della coltivazione, con la sola esclusione di quella domestica, alle condizioni sopra richiamate»; così Cass. Pen., Sez. Un., ud. 19 dicembre 2019, dep. 16 aprile 2020, n. 12348.

26/05/2020
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