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Perché non andrò a votare a questo referendum

di Luigi Ferrajoli
professore emerito di Filosofia del diritto, Università di Roma Tre

Per la prima volta nella mia vita non andrò a votare, associando peraltro al non voto un significato politico. 

Per la prima volta nella mia vita non andrò a votare, associando peraltro al non voto un significato politico. Le mie ragioni del non voto sono legate al pessimo dibattito che da entrambe le parti si è sviluppato su questo referendum.

Pessime, ovviamente, le ragioni – apertamente antiparlamentari – portate dal movimento 5 stelle a sostegno del Si: il risparmio annuale di qualche milione di euro. Su questo non mi pare che si debbano aggiungere altre parole a quelle spese giustamente dai sostenitori del No. Quindi non voterò Si, per non assecondare il vento dell’antipolitica che prevalentemente sta spingendo a suo favore. Ma mi pare un segno di subalternità alle penose ragioni del Si votare No soltanto per questo, e non per ragioni di merito.

Nel merito, la modifica costituzionale che si andrà a votare è pressoché irrilevante, non paragonabile neppure lontanamente alle due controriforme promosse l’una dal centrodestra nel 2005 e l’altra dal centrosinistra nel 2016. Come ha osservato Valerio Onida, essa “non mette in gioco valori costituzionali” e neppure comporta una perdita della rappresentatività delle Camere, che non è legata al numero degli eletti ma al metodo della loro elezione. Semmai, a sinistra, abbiamo sempre sostenuto (e anch’io, ripetutamente) l’opportunità di una riduzione del numero dei parlamentari. E’ infatti innegabile che un organo collegiale è tanto più inefficiente quanto più è pletorico; e che un numero ridotto di componenti rende i parlamentari più visibili, forse selezionati con criteri più rigorosi e, comunque, più facilmente identificabili e quindi più responsabili. La vera questione, dalla quale dipende la centralità del Parlamento, è allora l’abbandono del sistema elettorale maggioritario, che in Italia è stato uno dei principali fattori della personalizzazione della politica sulla quale sono cresciuti tutti i populismi. E’ chiaro che una simile prospettiva, mentre sarebbe affossata da un successo dei No, ha una qualche possibilità di realizzarsi, come hanno scritto Lorenza Carlassarre e Mauro Volpi, solo se, in accordo con la riforma, sarà approvata una legge proporzionale come quella già proposta in Parlamento che elimina l’attuale quota maggioritaria (la quale, tra l’altro, sarebbe interamente conquistata, a man bassa, dalle destre unite, che non a caso stanno mobilitandosi sotterraneamente per il no).

Ma non sono queste le ragioni più rilevanti del mio dissenso dalla campagna per il No. La mia critica principale ai sostenitori del No è molto più di fondo. Mi domando, e domando ai tantissimi amici che stimo e che si sono impegnati per il No: a che cosa giova sostenere la tesi, quanto meno fortemente opinabile, che il Parlamento che quasi certamente ne verrà, solo perché di 600 membri anziché di 945, sarà meno rappresentativo e meno legittimo di quello esistente? o peggio, come dicono in troppi, che la Costituzione ne sarà stravolta, la nostra democrazia parlamentare indebolita o peggio ancora, come ho letto, sfigurata e dimezzata? Quasi certamente vincerà il Si. Non dobbiamo quindi temere che proprio la campagna per il No, soprattutto per i suoi toni accesi e catastrofici, delegittimando il futuro Parlamento, rischi di produrre proprio gli effetti da essa associati alla vittoria dei Si? 

Che cosa faranno dal 21 settembre in poi, se vincerà il Si, i fautori del No che intendono continuare a difendere la Costituzione del ‘48 e il nostro Parlamento dal populismo montante e dai progetti di riforma del nostro sistema politico in senso presidenziale? Continueranno a dire che la nostra Costituzione non è più quella di oggi e il Parlamento con un minor numero di parlamentari è meno legittimo dell’attuale? Nei confronti del quale, oltre tutto, essi stessi sollecitano un voto di totale sfiducia, che non ha precedenti nella storia per la sua radicalità, dato che investe una riforma che come ha ricordato Valerio Onida è stata approvata alla Camera, nella sua ultima votazione, con il 97,5% dei votanti (553 voti su 567). E’ questa la mia preoccupazione maggiore: l’ulteriore delegittimazione del Parlamento, già oggi così pesantemente screditato dalla campagna in atto perfino nella sua forma attuale. Una preoccupazione che è tanto maggiore, ovviamente, quanto più stimabili e credibili sono gran parte dei sostenitori del No. C’è infatti un ruolo performativo svolto inevitabilmente dalla cultura giuridica, tanto più se stimabile e credibile, nella produzione delle nostre immagini delle istituzioni democratiche e del senso politico associato alle vicende istituzionali.

Per questo la mia speranza è che al referendum vada a votare il minor numero possibile di elettori. E’ questo il senso politico del mio non voto. Una bassa affluenza sarebbe il segno da un lato della sconfitta dei populisti e del loro anti-parlamentarismo; dall’altro della scarsa rilevanza politica associata al numero dei parlamentari rispetto alla questione realmente di fondo. Che è quella della restaurazione della centralità al Parlamento: in primo luogo attraverso l’approvazione di una legge elettorale perfettamente proporzionale, che corregga anche le attuali proposte proporzionali dirette a escludere le minoranze con alte soglie di sbarramento; in secondo luogo mediante un’adeguata riforma dei regolamenti delle Camere che restituisca il potere di emendamento ai singoli parlamentari, abolisca i ristretti tempi dei loro interventi, ponga fine alla possibilità dei governi di bloccare la discussione con maxiemendamenti sostitutivi e sopprima i tanti altri marchingegni – canguri, ghigliottine e simili – introdotti dall’inventiva anti-parlamentare di questi anni. Sarà questo l’obiettivo che dovrà impegnare unitariamente l’insieme, oggi diviso, delle forze accomunate dalla difesa della nostra democrazia parlamentare.

     

16/09/2020
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