Magistratura democratica

Retroattività, diritto e processo penale
(da ScoppolaContrada)

di Vittorio Manes
L’Autore ripercorre alcune importanti decisioni della Corte di Strasburgo per rileggere e reinterpretare le problematiche delle garanzie intertemporali in materia penale (irretroattività del reato e della pena e applicabilità della legge penale più favorevole), compresi gli aspetti inerenti all’interpretazione giurisprudenziale e all’equiparazione tra legge e giurisprudenza acquisita da tempo nelle pronunce della Corte Cedu.

1. Diritto effimero

1.1. L’importanza ormai assunta dai rapporti intertemporali nell’attuale esperienza giuridica affonda le sue radici in un fenomeno da tempo denunciato: l’“accelerazione del tempo giuridico”[1] e la estrema volubilità e mutevolezza del diritto contemporaneo, che non risparmiano certo il settore penale, dove anzi l’urgenza appare la modalità temporale ordinaria di una legislazione che si dimostra, già da tempo, «compulsiva»[2].

È noto: se per il diritto arcaico e antico le modificazioni legislative erano fenomeno deplorevole, e la novazione legislativa così come l’abrogazione erano oggetto di severe restrizioni e minacciose diffide[3]; se la durevolezza del diritto è stata al centro delle ambizioni della modernità giuridica, che agognavano di poter «enchaîner l’action du temps» attraverso leggi e codici[4], nel contesto contemporaneo il diritto sembra aver smarrito ogni connotato di stabilità e finitezza, guadagnando aggettivazioni in direzione simmetrica e contraria: diritto “fluido”, “sfocato” o “evanescente” (“flou”), “liquido”, “disordinato”, “urgente”, “emergenziale”, “turbolento”[5].

Del resto, la letteratura giuridica così come gli operatori del diritto appaiono ormai assuefatti al confronto con un “diritto effimero”: anche e sempre più in quel contesto ordinamentale – quale quello dove si esercita il massimo magistero punitivo – dove la solidità è sempre apparsa consustanziale al divieto (durissima lex sed lex) e le istanze di stabilità e certezza dei rapporti giuridici più immediatamente riconnesse con i diritti di libertà e le garanzie individuali.

 

1.2. La crescente importanza e turbolenza dei problemi sottesi ai rapporti intertemporali in materia penale si è anche accompagnata a una loro tendenziale dislocazione: l’orizzonte di senso in cui si iscrivono le problematiche delle garanzie intertemporali in materia penale (irretroattività del reato e della pena e applicabilità della legge penale più favorevole) si sta spostando sempre più rapidamente – o forse si è già spostato – dal piano della “certezza del diritto” a quello della “certezza dei diritti”[6], alimentata dall’interesse crescente delle diverse fonti internazionali (art. 7 Cedu, art. 49 Carta dei diritti fondamentali Ue, art. 15 Patto internazionale dei diritti civili e politici) e delle relative “vestali” (Corte Edu e Corte di giustizia).

Una certezza, quest’ultima, irruenta, asistematica, a trazione giudiziale, sul cui altare – come sappiamo bene – è stato sacrificato anche il “monolite” della “cosa giudicata”, sgretolato dalla forza corrosiva dei diritti fondamentali[7]: al loro impatto vacilla sempre più quello che era dogma indefettibile per il pensiero giuridico ottocentesco, la cui originaria matrice liberale si è via via colorata in senso assolutistico[8] apparendo, già da tempo, un tabù[9]; dogma ereditato dal codice penale del 1930 (ad esempio, art. 2, comma 4, cp) e ancora costretto – seppur in misura minore – in “geometrie chiuse” nel ben più recente codice di procedura penale del 1988, emblematizzate dalla tassatività delle ipotesi di revoca di cui all’art. 673 cpp, della quale si discute, ormai da tempo, in diverse sedi (davanti alla Corte costituzionale così come davanti al giudice di legittimità)[10].

E la caducità del giudicato – sia detto solo per inciso – deve ancora essere compiutamente misurata nei suoi effetti disordinati e disordinanti, e con essa le “nuove frontiere” della fase esecutiva, ormai sottratta alla rassicurante pace dei “rapporti esauriti”[11].

 

1.3. In questa dimensione, la proiezione delle garanzie intertemporali nella prospettiva dei diritti fondamentali, e nella fucina formicolante della giurisprudenza europea, ha comportato una nuova declinazione dei problemi sul paradigma antiformalistico e sostanzialistico seguito – soprattutto – dalla Corte Edu, promuovendo indubbie progressioni garantistiche, da un lato, ma altrettante radicali trasformazioni, dall’altro; e suscitando, comunque, notevole con-fusione di concetti e categorie sempre nuovi e sempre in divenire.

A fronte dell’intensificarsi dei fenomeni intertemporali, in prospettive spesso nuove, non deve dunque sorprendere il tendenziale declino del diritto transitorio: tali fenomeni presentano infatti un metabolismo essenzialmente giurisprudenziale e il legislatore – sempre più – si guarda dall’intervenire con discipline che difficilmente reggerebbero alla forza d’impatto – e all’impeto garantistico – dei principi fondamentali dell’irretroattività e della lex mitior (ce lo ricorda, inter alia, la normativa transitoria dell’art. 10, comma 4, l. n. 251/2005, cd. “legge ex-Cirielli”, oggetto di diversi incidenti di costituzionalità: sentenza n. 393 del 2006, di parziale accoglimento; n. 72 del 2008 e n. 236 del 2011, di rigetto); si preferisce, per così dire, fare epoché, evitando di scrivere norme che sarebbero, verosimilmente, “scritte sul ghiaccio”[12] e accettando che il problema sia rimesso alle court-made doctrines[13].

 

1.5. In ogni caso, di fronte a queste trasformazioni – sempre più significative, e ormai pienamente dispiegate – si è tornato a indagare le garanzie che governano la legge penale nel tempo con rinnovato interesse e sotto diversi profili, ridiscutendone non solo l’ambito di applicazione, ma lo stesso fondamento, così come limiti e deroghe possibili per principi che, per molto tempo, hanno registrato una diversa intensità e un assetto variabile, e che peraltro costituiscono un campo di osservazione privilegiato anche del rapporto tra fonti (domestiche e sovranazionali) e del cd. dialogo tra corti.[14]

Da qui, dunque, riteniamo opportuno iniziare.

2. Il fondamento del principio (di irretroattività e) della lex mitior in materia penale: le deroghe ammissibili

2.1. Irretroattività della legge penale e retroattività della lex mitior, come noto, sono principi logicamente e assiologicamente diversi: se il primo viene tradizionalmente annesso al Kern del nullum crimen sine lege e ai contenuti “astorici” della legalità penale – quale presidio garantistico dell’individuo (Schutzrecht) che vanta precise connessioni con le finalità della pena, nella prospettiva della libera autoderminazione individuale e della funzione di orientamento e di richiamo (Anruf) della norma penale –, il secondo dimostra da sempre un fondamento meno stabile, e dunque uno statuto più poliedrico e, in certa parte, ambiguo.

“Assolutamente inderogabile” il principio della irretroattività, anche per un roccioso orientamento della giurisprudenza costituzionale (tra le altre, sentenze nn. 393 e 394 del 2006, n. 236 del 2011); soggetto a possibili limiti e deroghe la lex mitior (prima fra tutte la deroga espressamente stabilita – a livello codicistico – dal citato comma quarto dell’art. 2 cp, che ne limita l’operatività nel caso in cui «(…) sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»). Al riguardo, come si sa, l’orientamento della Corte costituzionale italiana proietta infatti il fondamento dell’applicazione retroattiva della legge penale più mite nel prisma del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), ammettendo deroghe ragionevoli, ove poste a tutela di interessi di pari rilievo costituzionale.

Peraltro, i tracciati della giurisprudenza costituzionale, sul punto, hanno recentemente registrato una progressione, precisando come non sia sufficiente che le deroghe superino un mero vaglio negativo di “non manifesta irragionevolezza”, ma come sia necessario che le deroghe superino un “vaglio positivo di ragionevolezza” (così, ancora, le citate sentenze n. 393 del 2006, n. 72 del 2008, n. 236 del 2011): progressione non poco significativa[15], specie se coltivata nella corretta impostazione suggerita dalla stessa giurisprudenza costituzionale in punto di regole di bilanciamento tra diritti fondamentali, evidenziando che «nelle operazioni di bilanciamento operate dal legislatore non può esservi un decremento di tutela di un diritto fondamentale se ad esso non fa riscontro un corrispondente incremento di tutela di altro interesse di pari rango»[16].

 

2.2. Peraltro, in merito al fondamento della lex mitior la dottrina ha posto in giusto rilievo che la retroattività del trattamento penale favorevole – oltre a farsi carico, indubbiamente, di una istanza di eguaglianza tra offese di identico disvalore, che altrimenti subirebbero conseguenze punitive differenziate solo ratione temporis – può rintracciare una più solida giustificazione nel principio di proporzione (giacché solo il più mite trattamento punitivo risulterebbe proporzionato[17]), così ancorandosi anche al principio rieducativo (giacché solo una pena proporzionata può vantare chance rieducative nella prospettiva dell’art. 27, comma 3, Cost.).

Anche questa ricostruzione, tuttavia, presenta profili di ambiguità, giacché la proporzione – è noto – così come è in grado di limitare la necessità di pena, può al contempo fondarla: lo dimostra la recente sentenza della Corte Edu Ruban c. Ukraine, ove il giudice europeo ha ritenuto la non proporzionalità del trattamento sanzionatorio risultante dall’applicazione del principio della lex mitior un valido limite all’operatività del principio stesso[18].

Questa posizione giustificativa potrebbe meglio essere focalizzata, dunque, rintracciando al fondo della lex mitior – in ambito penale – il principio del “minimo sacrificio necessario”, principio che vanta una chiara ascendenza illuministica[19] e che è ormai entrato a far parte del corredo dei principi fondamentali in materia penale, grazie a un solido orientamento della Corte costituzionale[20]: solo la pena che impone il sacrificio minore dei diritti in gioco, del resto, sarebbe legittima nella prospettiva della massima tutela della libertà e dell’extrema ratio[21].

Solo per inciso – e al di là delle specificità e venature che caratterizzano la ratio del principio in materia penalistica –, l’istanza di proporzionalità allo stesso sottesa dovrebbe comunque sollecitarne una estensione generalizzata anche all’universo delle sanzioni amministrative (non solo quelle sostanzialmente penali)[22], essendo il principio di proporzione un “sovraprincipio” che esercita il suo influsso sull’intero diritto dei pubblici poteri, sovrastando controesigenze di stampo generalpreventivo[23].

 

2.3. I maggiori sussulti sul punto – in ogni caso – sono stati determinati, ancora una volta, dalla giurisprudenza europea, nella nota pronuncia della Grande Camera, Scoppola c. Italia, del 17 settembre 2009, che – ravvisata la progressiva emersione di un «consenso a livello europeo» sul punto – ha riconosciuto il principio della lex mitior quale proiezione implicita dell’art. 7 Cedu, e dunque quale diritto fondamentale da riconoscersi al reo[24]: un diritto, si noti, che proprio in forza del particolare statuto riconosciuto dalla stessa Convenzione all’art. 7 non ammette – ai sensi dell’art. 15 - «alcuna deroga»[25].

 

2.4. Questa decisione ha aperto subito interrogativi di rilievo circa la persistente ammissibilità di deroghe – a livello domestico – con riferimento a un principio ormai riconosciuto – in sede sovranazionale –, ascritto al rango dei diritti fondamentali[26].

La Corte costituzionale, nella nota sentenza n. 236 del 2011, ha sostanzialmente negato che il novum della sentenza Scoppola c. Italia fosse realmente capace di alterare le posizioni consolidate a livello interno, ribadendo la derogabilità della lex mitior (nella specie, la più favorevole disciplina dei termini di prescrizione per taluni reati introdotta con la cd. “legge ex-Cirielli”) a fronte di controinteressi costituzionali quali «l’efficienza del procedimento» penale e «la salvaguardia dei diritti dei destinatari» (“valori” già evidenziati a giustificazioni di possibili deroghe nella sentenza n. 72 del 2008), ulteriormente corroborati dal riferimento – originale e innovativo – al «principio di effettività del diritto penale».

A nostro sommesso avviso, nonostante la perdurante ambiguità della giurisprudenza convenzionale sul punto[27], questa posizione meriterebbe di essere riesaminata: se può (forse) essere eccessivo ritenere il principio della lex mitior assolutamente inderogabile (così accostandolo allo statuto del principio di irretroattività), dovrebbe quanto meno ammettersi che la derogabilità della retroattività favorevole possa essere giustificata solo a fronte di controinteressi di rango omogeneo: controinteressi, cioè, assiologicamente comparabili – e capaci di esprimere un medesimo ethos costituzionale – rispetto al diritto fondamentale in gioco[28].

Questo diverso approccio, in definitiva, schiuderebbe la strada a un bilanciamento ben più rigoroso di quello accolto nella sentenza n. 236 del 2011, in linea con una diversa prospettiva seguita – pur in diversa materia – dalla stessa Corte più di recente, ove si è riconosciuta sempre e comunque preminenza al rispetto delle garanzie rispetto alle esigenze di difesa sociale (efficienza processuale, diritti delle vittime, effettività del diritto penale, etc.).

Il riferimento è alla recente sentenza n. 200 del 2016[29], concernente il principio del ne bis in idem (in merito ad una questione di legittimità sollevata nel noto processo Eternit) e al passaggio – di significativo impatto assiologico – ove la Corte si premura di sottolineare che «nell’ordinamento nazionale non si può avere un soddisfacimento di pretese punitive che non sia contenuto nelle forme del giusto processo, ovvero che non si renda compatibile con il fascio delle garanzie processuali attribuite all’imputato. Né il principio di obbligatorietà dell’azione penale, né la rilevanza costituzionale dei beni giuridici che sono stati offesi, cui le parti private si sono ampiamente riferite, possono rendere giusto, e quindi conforme a Costituzione, un processo che abbia violato i diritti fondamentali, e costituzionalmente rilevanti, della persona che vi è soggetta» (punto 6, corsivo nostro).

Al riguardo, se è vero che il discorso concerne, in quest’ultimo caso, garanzie “procedurali” quale quella concernente il divieto di un doppio procedimento, è altrettanto chiara l’impostazione valoriale di fondo, che assegna precedenza – e primazia – ai diritti fondamentali del soggetto sottoposto alla pretesa punitiva statuale (dell’imputato come del reo) rispetto alle esigenze di difesa sociale e di tutela dei beni giuridici (ancorché di rilievo costituzionale) offesi.