Magistratura democratica

Libertà di manifestazione del pensiero, negazionismo, hate speech

di Pierpaolo Gori
L’ampia protezione accordata dalla Cedu alla libertà di espressione, servente molti altri diritti umani, ha consentito alla giurisprudenza di Strasburgo – attraverso l’art. 10 e l’abuso del diritto (art.17) – un progressivo adeguamento della tutela. Oggi, tuttavia, in piena era digitale, si pongono nuove sfide, soprattutto in tema di valutazione del margine di apprezzamento di cui gode lo Stato responsabile, di hate speech e di negazionismo.

1. Un diritto umano servente tutti gli altri

La tutela della libertà di espressione occupa un ruolo centrale nel contesto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’importanza e la speciale protezione accordata alla libertà di impartire e di ricevere informazioni risponde a un bisogno di tutela dei diritti umani primari, sfigurati nel cuore dell’Europa da due guerre mondiali e dall’olocausto. La libertà di espressione è infatti un riferimento centrale per una moderna democrazia, sia per il suo stretto rapporto con l’esercizio di diritti politici e sociali da parte di ogni cittadino, sia per il ruolo di “cane da guardia della democrazia” che i media e la stampa svolgono nella società, sia come aspetto qualificante la libertà di ogni cittadino di esprimersi al di fuori del “foro interiore”[1].

Nella concezione della libertà, dunque, finalizzata non solo a garantire una maggiore protezione della libertà in sé, ma anche a una funzione servente gli altri diritti umani, in particolare politici e sociali[2], ha un peso determinate la collocazione storica che occupa la Dichiarazione di Roma del 1950 di adozione della Convenzione. Questa è certo erede delle grandi dichiarazioni dei diritti dell’uomo settecentesche, ma si pone in piena sintonia con le altre coeve fondamentali dichiarazioni dei diritti dell’uomo del secondo dopoguerra, come confermato dal testo dell’art. 10 Cedu, il quale consacra la libertà di espressione. La sua struttura è frutto di uno studiato coordinamento con l’art. 19 della Dichiarazione delle Nazioni Unite, coeva ai lavori preparatori della Convenzione del 1948[3]; la modernità della previsione ha consentito alla Corte Edu, dalla storica decisione Handyside[4] sino a oggi, di aggiornare ed estendere progressivamente la protezione della libertà di espressione, anche attraverso il meccanismo delle obbligazioni positive a carico dello Stato, e la sua delimitazione, interna all’articolo, ed esterna, data dal confronto con il resto della Convenzione.

2. Lo scopo dell’art. 10 Cedu

Il primo lemma del par. 1 dell’art. 10 dispone: «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

L’universalità del diritto è chiarita sin dalle prime due parole, dal momento che ne gode «ogni persona» e non, ad esempio, “persona fisica” o “cittadino” e, secondo uno schema tipico dei diritti umani relativi protetti dalla Convenzione, l’art. 10 prevede al primo paragrafo la declamazione della libertà e lo scopo, riservando poi al secondo l’indicazione dei limiti interni, di restrittiva interpretazione.

Orbene, la giurisprudenza della Corte ormai tradizionalmente interpreta la previsione affermando che la libertà di espressione è, in generale, applicabile non solo alle “informazioni” o “idee” che sono ricevute con favore o considerate inoffensive o accettate con indifferenza, ma anche a quelle che offendono, scioccano o disturbano singoli soggetti e che, comunque, non sono ben accette per lo Stato responsabile[5]. Infatti, tali sono le domande di pluralismo, tolleranza e apertura mentale, senza le quali non c’è “società democratica”. Inoltre, l’art. 10 non protegge solo la sostanza delle idee e delle informazioni espresse, ma anche la forma in cui sono racchiuse[6], tema molto importante in relazione alla manifestazione di pensiero scientifica, da parte di artisti, in letteratura e nella satira, ove l’esternazione del pensiero, spesso provocatorio, non di rado lambisce o incorpora messaggi sociali e politici di interesse generale.

La libertà di espressione viene protetta sia nella sua declinazione attiva, sotto forma di facoltà di impartire informazioni – e questo tema è sviluppato soprattutto dalla giurisprudenza sulla stampa e sui media – sia in quella ricettiva – e, in una certa misura, anche la qualità di tale informazione è coperta dalla Convenzione. La stampa e i media in generale hanno infatti la funzione di trasmettere notizie e idee, e il pubblico ha il diritto di riceverle; se fosse altrimenti, la stampa non sarebbe capace di esercitare il suo ruolo di controllo pubblico (public watchdog), essenziale in ogni società democratica[7].

L’art. 10 protegge inoltre anche il diritto al silenzio, inteso quale contenuto negativo parte stessa dell’espressione libera[8]. Ad esempio, nel caso Young, James e Webster[9] i lavoratori, per effetto della loro forzata appartenenza sindacale, non erano liberi di dissentire dalla posizione adottata dal sindacato in loro rappresentanza, e l’art. 11 Cedu è stato letto alla luce dell’art. 10, sulla considerazione del fatto che la libertà di un’opinione personale protetta da quest’ultimo articolo, sotto forma di libertà di pensiero, coscienza e religione, e di libertà di espressione, è uno dei propositi della libertà di associazione protetta dall’art. 11. Un’applicazione di questo principio, declinato in congiunzione con il giusto processo consacrato dall’art. 6, è data dal diritto alla non auto-incriminazione nel corso del procedimento e del processo penale, e anche dal diritto per l’imputato a restare in silenzio tout court[10], letto in stretto rapporto con la presunzione di innocenza.

3. La partecipazione al dibattito pubblico su stampa, media e new media

Come è stato generalmente riconosciuto in dottrina, quella offerta dalla Convenzione è una protezione ampia, ma di misura diversa a seconda della natura dell’informazione in questione, in particolare se di interesse generale o meno, e degli stessi soggetti coinvolti, anche in relazione alle funzioni sociali svolte. Non è utile a questa breve riflessione individuare analiticamente i principali, numerosi filoni giurisprudenziali sviluppatisi in materia, che spaziano dalla manifestazione di pensiero artistico a quello religioso o scientifico, ma si può senz’altro rammentare l’importanza delle elaborazioni giurisprudenziali che riguardano i media.

A questo proposito, vi è una distinzione marcata nell’applicazione dell’art. 10 alle più tradizionali stampa e radiotelevisione rispetto ai new media, internet in particolare. Il tema va, innanzitutto, inquadrato nel contesto del secondo lemma dell’art. 10, par. 1, secondo il quale «Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive».

Inoltre, va considerata la maggiore controllabilità delle fonti da parte dei tradizionali organi di informazione, i quali si valgono di professionisti non di rado iscritti a ordini specifici, soggetti a codici di disciplina, inseriti tipicamente in complessi editoriali capaci di rispondere, anche economicamente, di eventuali danni arrecati a terzi. Al proposito, in caso di diffusione di informazioni inaccurate, la valutazione effettuata dalla Corte è ex ante, ossia i giudici si pongono nelle condizioni esaminate dall’editore e dal giornalista al momento materiale immediatamente anteriore alla pubblicazione, e non operano una rivalutazione dei riscontri alla notizia o della sua smentita apportati da successivi elementi, come ad esempio un’indagine della magistratura[11].

Più restrittiva rispetto alla carta stampata è l’applicazione dell’art. 10 ai new media, in ragione dei maggiori rischi connessi all’uso di internet, in relazione ai quali la giurisprudenza della Corte Edu oblitera l’imposizione di obblighi più stringenti nei confronti dei giornalisti, in caso di utilizzo e diffusione on line di una notizia. La divulgazione dell’informazione sul web, per la capillarità della disseminazione globale, con poche eccezioni territoriali, è suscettibile di aggredire in modo particolarmente serio altri diritti umani protetti[12]. Inoltre, un ruolo importante a fondamento di questo orientamento maggiormente restrittivo gioca anche la qualità dell’informazione, spesso proiezione di un autore non professionista e non inserito in un network dell’industria dell’informazione che, per inaccuratezza del controllo delle fonti o per deliberata volontà di inserire nel dibattito pubblico una notizia che sa non essere vera, diffonde cd. fake news.

Con certezza, si può affermare che la pubblicazione di informazioni false su internet non è protetta dalla Convenzione[13]. Deve però ancora assestarsi la giurisprudenza in merito a vari aspetti peculiari del fenomeno[14]e, a questo proposito, ci si può chiedere se non sia giunto il momento di una rimeditazione di determinate forme estese di tutela. Ad esempio, in passato la Corte ha ritenuto che costituisse violazione dell’art. 10 la condanna penale a carico di chi avevadiffuso informazioni non veritiere di considerevole rilievo politico, come la falsa notizia della morte di un candidato alle elezioni presidenziali, sotto forma di attestazione di un portavoce del Parlamento, su di un giornale a tiratura nazionale, seppure in circostanze tali da non doversi ritenere certa l’intenzionalità della diffusione, in ragione di gravi violazioni dei principi del giusto processo da parte del giudice nazionale[15]. Si pensi, ad esempio, alla propalazione di notizie deliberatamente false, immesse nel pubblico dibattito al preciso scopo di condizionarlo su vastissima scala, tipicamente su internet. Ci si può, quantomeno, chiedere se queste debbano ricadere sotto la protezione dell’art. 10, dal momento che non contribuiscono in alcun modo all’arricchimento e alla diversificazione dell’informazione, costituendo a tutti gli effetti un abuso della libera manifestazione del pensiero.

Al tempo stesso, non va dimenticato che la giurisprudenza di Strasburgo riconosce l’importanza positiva della diffusione on line dell’informazione[16], e anche la considerevole rilevanza di forme di informazione partecipativa, non strutturata, nella diffusione di notizie cui altrimenti non sarebbe facile accedere in determinati Stati. L’art. 10 così concepito, si applica a qualunque soggetto giuridico, persona fisica o giuridica, incluse le società commerciali[17] e anche alle comunicazioni di natura commerciale effettuate su internet[18].

4. I doveri e gli obblighi delle autorità nazionali

Nell’esercizio della libertà di espressione, ci sono «doveri e responsabilità» secondo la dizione del § 2 dell’art. 10, legati essenzialmente al fatto che vi sono quasi sempre interessi contrastanti con l’esercizio di questa libertà, pure meritevoli di protezione. Sta alle autorità nazionali, in particolare all’autorità giudiziaria, effettuare un bilanciamento tra i vari valori in gioco. La funzione della Corte Edu non è di quarta istanza, ossia di prendere il posto delle autorità nazionali nel rivalutare le prove raccolte nei procedimenti nazionali alla ricerca di un suo punto di equilibrio tra gli interessi protetti in gioco. Lo scopo del controllo è, piuttosto, quello di effettuare una revisione, alla luce del caso complessivamente considerato[19], per verificare se le decisioni che sono state assunte esercitando il loro potere di apprezzamento, possono essere riconciliate con le previsioni fondanti la Convenzione.

Compito della Corte è semplicemente di verificare (review), alla luce dell’art. 10, le decisioni che le autorità giurisdizionali nazionali hanno adottato esercitando il loro potere di apprezzamento. Così, i giudici di Strasburgo si devono fermare se constatano che esse hanno basato la loro decisione su un’accettabile valutazione dei fatti rilevanti ponendo in bilanciamento diritti corrispondenti a quelli protetti dalla Convenzione nel caso[20].

Quando è allegata un’interferenza con l’art. 10 da parte delle autorità nazionali, la Corte deve controllare se questa restrizione è permessa dalla Convenzione. Solo restrizioni per una delle ipotesi espressamente menzionate dal § 2 sono ammesse.

Infatti, «L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni», afferma il primo lemma dell’art. 10, § 2. Queste eccezioni devono essere interpretate restrittivamente, e la necessità di ogni limitazione dev’essere dimostrata in modo convincente[21]. Un’interpretazione particolarmente rigida viene, di regola, adottata in casi di restrizione preventiva alla libertà di espressione[22] come, ad esempio, se è vietata una determinata pubblicazione, allorquando la Corte richiede che la legge indichi con precisione i termini in cui è imposto il divieto[23].

Un grande peso ha il fatto che il divieto sia un provvedimento generale (mesure générale), in quanto è accettato che lo Stato membro, nel rispetto delle previsioni della Convenzione, possa adottare in via generale divieti che si applicano a situazioni predefinite indipendentemente dalle circostanze proprie di ciascun caso individuale, anche se queste misure rischiano di condurre a difficoltà in determinati episodi concreti particolari[24]. La radicalità della previsione esclude in radice il rischio di discriminazioni nell’applicazione dell’interferenza con la liberà di espressione. Di regola, il divieto non deve mai essere assoluto, ossia riguardare qualsiasi mezzo di informazione; ciò vale, in particolare, per il discorso politico su questioni di pubblico interesse, il quale dev’essere garantito se non vi sono ragioni particolarmente stringenti per restringerlo[25].

5. I tre livelli della revisione effettuata dalla Corte

In generale, la Corte Edu applica un triplice test, per verificare se l’art. 10 è stato violato nel caso concreto. Innanzitutto, nello schema tipico della violazione costituente un atto negativo del diritto, ma anche in presenza di individuate e specifiche obbligazioni positive poste a carico dello Stato responsabile[26], l’ultima parte del secondo paragrafo esige che l’interferenza sia «prevista dalla legge»[27]. Allo Stato è richiesto di dimostrare che la restrizione alla libertà di espressione, esercitata dalle autorità interne, ha fondamento legale. Nel contesto della Convenzione, la nozione di «legge» ha un significato autonomo: esso non è identificabile con la mera statutory law dei sistemi di common law né con la loi dei sistemi di civil law, bensì è più ampio. In sintesi, significa che la fonte dev’essere individuata in un sistema normativo, generalmente quello nazionale, ma in certi casi può essere anche il diritto internazionale. Inoltre la fonte, non necessariamente legislativa di grado primario, deve soddisfare i requisiti posti dalla Convenzione: essenzialmente, dev’essere certa, conosciuta o conoscibile, e la sanzione per la sua violazione prevedibile.

In secondo luogo, una volta che la Corte abbia appurato che l’interferenza ha una base legale, procede a considerare se essa è diretta a conseguire uno dei “fini legittimi” analiticamente elencati nel § 2 dell’art. 10. L’interferenza persegue un legitimate aim, solo se è volta «alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario». Per l’interpretazione delle singole previsioni, e l’individuazione delle relative fattispecie, è utile fare riferimento innanzitutto alla casistica giurisprudenziale. Si pensi così al caso di un cittadino turco condannato a pena detentiva per aver fatto, in occasione di un convegno sui diritti umani cui aveva partecipato, della propaganda separatista capace di minacciare l’integrità territoriale dello Stato e l’unità nazionale[28]. Nel caso, la condanna era basata sulla legge penale in vigore, dunque l’interferenza aveva fondamento legale, e la Corte ha riconosciuto anche che era diretta alla protezione della «sicurezza nazionale» e dell’«ordine pubblico», ossia dei fini legittimi previsti dall’art. 10, § 2, in quanto le autorità interne dovevano esercitare un’attenta vigilanza per il rischio di atti suscettibili di accrescere la violenza nella Turchia sudorientale, ove movimenti separatisti fanno da decenni ricorso ad attacchi terroristici. In chiave interpretativa, è poi utile ricorrere anche ai travaux préparatoires per scoprire, ad esempio, che in quella controversia lo Stato responsabile avrebbe, con ogni probabilità, potuto invocare con successo anche il fine legittimo della difesa dell’«integrità territoriale»; quest’ultima costituisce un’ipotesi di fine legittimo peculiare dell’art. 10, che non si trova negli altri diritti relativi della Convenzione e che è stata introdotta nel testo normativo proprio su specifica richiesta della Turchia[29].

Il terzo step, se la restrizione ha un fondamento legale ed è operata per uno dei fini legittimi espressamente menzionati, richiede di scrutinare se l’interferenza sia «necessaria in una società democratica»[30]. Attraverso questo test, la Corte, in ultima analisi, si riserva di giudicare se una restrizione sia in concreto compatibile o meno con la libertà protetta dall’art. 10[31]. Per soddisfare tale requisito, l’azione, da un lato, deve essere intrapresa in risposta a un «bisogno sociale impellente» e, dall’altro, la restrizione al diritto dev’essere «proporzionata» a quel bisogno sociale.

Nell’esercizio della sua supervisione giurisdizionale, la Corte valuta l’interferenza alla luce dell’intero caso, tenuto anche conto del tenore delle affermazioni e del contesto in cui sono state fatte. In particolare, la valutazione si risolve nel determinare se l’interferenza in questione è in concreto «proporzionata ai fini legittimi perseguiti» e se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla sono «rilevanti e sufficienti»[32].

Nel fare ciò, la Corte deve convincersi che le autorità nazionali hanno applicato standard conformi a quelli dei principi consacrati dall’art. 10, incluso un ragionevole bilanciamento tra la libertà di espressione e gli altri eventuali diritti umani confliggenti[33]e, se la riposta è positiva, la revisione dei giudici di Strasburgo si arresta senza rivalutare i fatti, come opererebbe una quarta istanza, per spostare il punto di equilibrio tra i corretti elementi in bilanciamento.

Un aspetto di cui viene tenuto particolare conto è la proporzionalità, per natura ed entità, della sanzione inflitta nei confronti di chi lamenta la violazione dell’art. 10. Ad esempio, il fatto stesso di aver subito una condanna a una pena detentiva, benché nei fatti non si fosse risolta in un’effettiva restrizione della libertà personale, e la presenza di una condanna al risarcimento in favore della parte civile della somma simbolica di un euro, possono costituire una non proporzionata ingerenza nella libertà di espressione dell’avvocato, in quanto connessa all’esercizio dei diritti di difesa in favore della generalità[34]. Ancora, nel caso Belpietro[35], la condanna del giornalista per diffamazione, oltre che al risarcimento e alle spese, a quattro mesi di pena detentiva – benché sospesa – è stata ritenuta una violazione dell’art.10, anche per il suo effetto condizionante la libertà della stampa ben oltre il caso specifico (chilling effect).

Nel condurre questo test, per costante interpretazione della Corte Edu, lo Stato membro gode di un certo “margine di apprezzamento”. Il margine può essere ampio o ristretto, a seconda della natura degli interessi in gioco e, in questo scrutinio finale, l’analisi del diritto comparato svolge un ruolo importante. Ad esempio, se c’è un consenso tra quasi tutti gli Stati membri sul regolamento della questione legale in oggetto, la tendenza della giurisprudenza evidenzia che il margine di apprezzamento per il singolo Stato contraente è ristretto, e il controllo europeo esercitato dalla Corte è più stringente. Tuttavia, non bisogna dimenticare che vi sono state importanti eccezioni a questo trend, in cui è stata fatta valere l’eccezione culturale, pur in presenza di un chiaro trend, se non vero e proprio consensus, in relazione alla questione giuridica dibattuta[36]. A seguito di consistenti critiche da parte della dottrina internazionale circa l’incostanza della giurisprudenza nell’applicazione dell’istituto giuridico del consensus[37], la Corte ha anche, di recente, tentato di superare il binomio analisi comparativa-margine di apprezzamento, con conseguenze ancora da valutare interamente.

Nel caso Animal Defenders International[38], oggetto del contendere era un divieto assoluto, da parte delle fonti normative interne, di consentire la trasmissione su radio e Tv di pubblicità a pagamento di natura politica. La previsione normativa è stata dalla Grande Camera in primo luogo qualificata come general measure e, quindi, è stato introdotto un metodo innovativo “formale” per rivalutare l’esercizio del margine di apprezzamento di cui godono le autorità interne in questa materia. Tale metodo si articola in tre passaggi: valutazione delle scelte legislative sottese alla misura,accertamento della qualità e approfondimento della revisione interna, scrutinio del rischio di abuso in caso di un qualsiasi temperamento della misura generale. A parere di chi scrive, non costituisce in sé un fatto negativo l’individuare elementi ulteriori all’analisi comparativa per valutare la proporzionalità di una “misura generale” e, così, il “margine di apprezzamento” di cui gode lo Stato responsabile in concreto. Infatti, l’applicazione automatica del consensus fondato su una maggioranza meramente numerica di discipline nazionali omogenee, potrebbe costringere il giudice europeo ad abdicare alla sua fondamentale funzione anti-maggioritaria di protezione delle minoranze. È, però, forse auspicabile che le applicazioni future dei nuovi criteri di valutazione della mesure générale trovino un adeguato raccordo con le risultanze dell’analisi comparativa, per raggiungere con la maggiore omogeneità possibile l’obiettivo complesso del bilanciamento tra sovranità degli Stati contraenti e rispetto delle loro obbligazioni che scaturiscono dalla Convenzione.

6. L’interazione con gli altri diritti della Convenzione: integrazione e bilanciamento

Il confronto con molti altri diritti della Convenzione è nella natura di questa libertà e, sulla base delle frequenti interazioni con altri diritti umani[39], si può ricordare, in una logica di completamento della protezione, l’utilizzo nei ricorsi dell’art. 10 in combinato disposto con l’art. 9, che tutela le libertà di pensiero, coscienza e religione, e con l’art. 11, che presidia le libertà di assemblea e di associazione. Si pensi, ad esempio, al caso Palomo Sanchez[40], vertente su un licenziamento di dipendente svolgente attività sindacale, per manifestazioni critiche ingiuriose verso colleghi di lavoro, a dire del ricorrente eccessivamente remissivi nei confronti del datore di lavoro. Sulla base delle doglianze, la controversia è stata sussunta dalla Grande Camera nell’art. 10 letto alla luce dell’art. 11, ossia l’attività sindacale funzionale al diritto di associazione svolta dal ricorrente non è stata ritenuta prevalente o autonoma rispetto alla libertà di espressione esercitata nel caso. La lettura congiunta ha comunque consentito una tutela più ampia di quella offerta dal solo art. 10 che, tuttavia, non è stata ritenuta dalla maggioranza del panel sufficiente ad accertare una lesione del diritto umano così protetto.

Vi è, poi, il confronto con gli altri diritti in una logica diversa, di bilanciamento. Sempre sulla base della casistica giurisprudenziale, esso riguarda i diritti umani consacrati agli artt., oltre che 9 e 11, 2 (diritto alla vita), 6 (diritto a un giusto processo), 8 (rispetto per la vita privata e la vita familiare). L’interazione è in funzione di limite alla libertà di espressione, come è avvenuto ad esempio nei celebri casi gemelli decisi dalla Grande Camera nei processi Von Hannover (2) e Axel Springer. La ratio decidendi delle due sentenze si è incentrata sulla distinzione tra personalità pubblica e persona comune, ai fini della definizione del diverso standard di tolleranza richiesto al soggetto esposto all’attenzione dei media e che invoca il rispetto della propria privacy, rientrante sotto l’ombrello della vita privata e familiare dell’art. 8[41].

7. Il divieto di abuso del diritto

Il principale limite esterno all’esercizio della libertà di manifestare il pensiero è, però, costituito dall’art. 17, il quale sanziona l’abuso dell’esercizio di un diritto umano riconosciuto dalla Convenzione e recita: «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione».

Vi sono ulteriori esempi di limiti esterni alla libertà di espressione, in quanto il campo di applicazione dell’art. 10, per ciò che concerne gli stranieri, è circoscritto anche dall’art. 16, dal momento che sono possibili restrizioni alle loro attività politiche, comprese quelle sulla loro libertà espressione. Inoltre, dalla sua natura di diritto non inderogabile o assoluto, discende – oltre al frequente bilanciamento con altri diritti umani – anche la conseguenza che, in caso di urgenza, è possibile per uno Stato derogare alla libertà di espressione, ma solo nelle forme e nei limiti previsti dall’art. 15, § 1, ossia in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione.

Tuttavia, la protezione contro il rischio di distruzione delle libertà protette dalla Convenzione o di compressioni non previste, costituisce certo un limite che trova frequente applicazione con riferimento alla libertà di espressione, in particolare nei casi di hate speech e negazionismo.

Il criterio fondamentale è che non è possibile utilmente valersi di una libertà come quella protetta dall’art. 10 per mettere in pericolo e tentare di distruggere altri fondamentali diritti protetti dalla Cedu, a partire dal diritto alla vita, tutelato dall’art. 2. La Corte ha, infatti, più volte salvaguardato e fatto propria l’idea di una moderna democrazia che possa difendere se stessa (wehrhafte demokratie)[42].

Ancora una volta, la modernità della Convenzione emerge dalla stessa presenza di istituti che nelle dichiarazioni settecentesche non erano previsti. Si pensi, ad esempio, alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, in cui l’abuso del diritto, in particolare quello di parola, non è disciplinato da un’espressa previsione paragonabile all’art. 17 Cedu. Qui per “abuso”, in primo luogo si intende l’insieme delle espressioni triviali e oscene, irriverenti, diffamatorie e insultanti, o comunque un eloquio violento, suscettibile di ferire o incitare un’immediata rottura della pace[43].

8. Hate speech

La Convenzione non dà un’espressa definizione di «incitamento all’odio», ma il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha adottato, il 3 ottobre 1997, la Raccomandazione n. (97)20 così rubricata, in cui l’hate speech viene definito come «comprensivo di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza».

La giurisprudenza consolidata della Corte sull’hate speech ritiene, innanzitutto, che l’istigazione all’odio non richieda necessariamente il riferimento ad atti di violenza o delitti già verificatisi a danno del ricorrente. Infatti, i pregiudizi arrecati alle persone ingiuriando, ridicolizzando o diffamando certe frange della popolazione e isolandone gruppi specifici – soprattutto se deboli – o incitando alla discriminazione, sono sufficienti perché le autorità interne privilegino la lotta contro il discorso razzista a fronte di una libertà di espressione irresponsabilmente esercitata e che provoca offesa alla dignità e alla sicurezza di queste parti o gruppi della popolazione[44].

In secondo luogo, l’identificazione in concreto dell’incitamento alla violenza, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, passa attraverso il riscontro di diversi sintomi. Tra questi, vi è il modo in cui la comunicazione è effettuata, il linguaggio usato nell’espressione aggressiva, il contesto in cui è inserita, il numero delle persone cui è impartita l’informazione, la posizione e la qualità ricoperta dall’autore della dichiarazione e la posizione di debolezza o meno del destinatario della stessa.

Quanto al fondamento normativo in cui ricade il contrasto all’hate speech nella giurisprudenza della Corte Edu, un approccio risalente suggerisce che le problematiche attinenti alla libertà di parola possono essere adeguatamente trattate sulla base dell’art. 17. Secondo questo approccio, la libertà di parola non può essere considerata senza limiti, se esercitata da membri di organizzazioni o partiti che si propongono la distruzione di valori e principi protetti dalla Convenzione, e ciò può ben costituire un abuso del diritto.

Una giurisprudenza di una certa consistenza dichiara inammissibile, per incompatibilità con l’art. 17, il ricorso proposto per allegata violazione dell’art. 10 da membri di gruppi politici che si ispirano al nazismo, portatori di idee incompatibili con i principi stessi fondanti la Convenzione, e condannati penalmente da corti interne. Ad esempio, si può ricordare la decisione Schimanek[45], in cui il ricorrente era stato riconosciuto avere un ruolo chiave in un gruppo neonazista austriaco. Il nazismo è una dottrina totalitaria incompatibile con la democrazia e con la protezione dei diritti umani e, in casi come quello ora citato, la Corte non ha esitato a concludere come dall’art. 17 discendesse che la condanna penale del ricorrente fosse necessaria in una società democratica, in specifico riferimento al secondo paragrafo dell’art. 10 della Convenzione.

Alla sconfessione del distinto, ma altrettanto grave, fenomeno dell’antisemitismo giunge, tra le altre, la decisione Ivanov[46], relativa alla condanna penale dell’editore di un mensile («Russkoe Veche») di limitata diffusione, inferiore alle 1000 copie, il cui proposito era convincere i lettori dell’esistenza di un complotto ordito a danno della Russia da gruppi ispirati da ideologia fascista e a guida sionista. Il ricorso dell’editore alla Corte Edu per violazione degli articoli 13 e 14 fu riqualificato come ricorso ai sensi dell’art.10 per violazione della libertà di espressione, e dichiarato inammissibile in forza dell’art. 17[47].

L’art. 17 ha trovato applicazione anche in episodi di istigazione all’odio religioso. Ad esempio, nel caso Norwood[48], il ricorrente era un responsabile regionale di un partito politico britannico di estrema destra – il British National Party (BNP) – e, a cavallo tra il 2001 e il 2002 appese alla finestra della propria abitazione un grande manifesto fornito dal BNP che rappresentava le torri gemelle di New York in fiamme accompagnate dallo slogan «L’Islam fuori dalla Gran Bretagna, proteggi il popolo britannico», e dal simbolo della mezzaluna islamica barrato. Il suo ricorso, presentato avanti alla Corte Edu per essere stato sottoposto a procedimenti penali in allegata violazione dell’art. 10 della Convenzione, fu dichiarato inammissibile per contrasto con l’art. 17.

Un altro significativo filone di decisioni di inammissibilità per contrasto con l’art. 17, riguarda ricorsi proposti per allegata violazione dell’art. 10 in materia di istigazione all’odio razziale. In questo contesto si colloca la decisione della Commissione europea dei diritti dell’uomo Glimmerveen[49], di inammissibilità di un ricorso esperito, oltre che per violazione degli artt. 3 e 9 Cedu, anche per violazione della libertà di espressione. I ricorrenti, candidati a elezioni amministrative per un partito portatore di idee xenofobe, erano stati colti dalle autorità interne in possesso di volantini, pronti per essere distribuiti, in cui inneggiavano alla discriminazione tra i cittadini “bianchi” dei Paesi Bassi e, tra l’altro, i cittadini olandesi originari del Suriname, chiedendone l’espulsione. Per questo, erano stati condannati in sede penale e la Commissione concluse, con riferimento all’art. 10, che tale interferenza nella loro libertà di espressione era proporzionata e necessaria in una società democratica alla luce dell’art. 17.

Più di recente, è stato riscontrato che gli Stati, invocando l’art. 17 a difesa dell’interferenza con la libertà di espressione, a loro volta abusavano di questo strumento e, dunque, un diverso e più recente approccio suggerisce, ove possibile, che tutti i casi di libertà di parola siano trattati alla luce dell’art. 10, § 1, e che ogni ingerenza con il diritto sia vagliata alla luce del test di necessità dell’art. 10, § 2[50].

Seguendo questo secondo schema, nel caso Gunduz la Corte ha statuito che espressioni concrete di incitamento all’odio, offensive per individui e particolari gruppi sociali, non ricadono nello scopo dell’art. 10 della Convenzione e, con riferimento agli standard del secondo paragrafo dell’articolo, ha evidenziato come «la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull’intolleranza (inclusa quella religiosa)»[51].

Nel già citato caso Féret, relativo alla condanna penale di un politico per aver tenuto discorsi attinenti ai fenomeni migratori istiganti all’odio verso le comunità musulmane, la Corte ha ribadito che è cruciale, per i politici che si esprimono in pubblico, evitare commenti che possano favorire l’intolleranza, e ha concluso che, nel caso concreto, a sostegno dell’interferenza con la libertà di espressione era riconoscibile un bisogno sociale impellente di proteggere l’ordine pubblico e i diritti della comunità degli immigrati, per evitare disordini e sfiducia verso le istituzioni del Belgio[52].

Ancora, in applicazione dell’art. 10, la Corte ha dichiarato che, in generale, le eccezioni alla libertà di espressione vanno interpretate in senso restrittivo, e la necessità di ogni restrizione dev’essere adeguatamente motivata, come reiterato in molti casi coinvolgenti la Turchia. In essi, la Corte ha escluso il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica e ha negato che anche articoli di stampa o creazioni di fantasia letteraria costituissero istigazione all’odio, anche quando vi fosse offerta un’immagine particolarmente negativa delle atrocità commesse dalle autorità interne, al punto da provocare un forte risentimento nel lettore[53], ma senza ricadere in istigazione all’odio nel senso sopra delineato.

9. Negazionismo

Uno dei filoni più tipici dell’hate speech si è espresso nel discorso revisionista, in cui la libertà di manifestare il pensiero è stata utilizzata per difendere o negare le violazioni dei diritti umani commesse dal nazismo e culminate con la Shoah, lo sterminio degli ebrei. Anche in relazione al negazionismo, si registrano orientamenti giurisprudenziali che si sono valsi sia dell’art. 17 sia dell’art. 10, ma con caratteristiche in parte peculiari.

In generale, la giurisprudenza della Corte Edu afferma che la ricerca della verità storica è parte della libertà di espressione, e che non è compito della Corte Edu arbitrare le diverse questioni scientifiche sottostanti, parte di quel continuo dibattito nell’accademia che forma l’opinione ufficiale su come gli eventi siano accaduti e su come vadano interpretati[54]. In applicazione della ratio decidendi, la condanna dell’autore e dell’editore di un libro di argomento storico, che metteva in cattiva luce la reputazione di un movimento riconosciuto della Resistenza senza rispettare una metodologia scientifica, risultando in una serie di insinuazioni particolarmente gravi, è stata considerata dalla Corte una sanzione proporzionata, senza violazione alcuna dell’art.10.

Parimenti, l’analisi storica del rapporto di uno Stato come la Svizzera con la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale, secondo la decisione di parziale inammissibilità Monnat[55], è sottratta al ruolo di una emittente televisiva che trasmette programmi di approfondimento, essendo tale analisi compito degli storici. Pertanto, un giornalista dell’emittente, lamentatosi di provvedimenti per lui lesivi emessi dall’Autorità indipendente svizzera sui media, non ha potuto far valere efficacemente l’art. 10 della Convenzione, che assumeva essere stato violato.

Tuttavia, il diritto alla libertà di espressione è stato invocato, senza successo, da uno storico che aveva negato, in un pubblico dibattito, l’esistenza delle camere a gas nel campo di sterminio di Auschwitz[56], ritenuta un fatto dimostrato e accettato come tale dalla comunità scientifica. L’art. 10 è stato, poi, ritenuto applicabile nella fattispecie, e violato, in un’importante sentenza della Corte che ha avuto a oggetto il tentativo di riabilitazione della figura del maresciallo Philippe Pétain attraverso un articolo pubblicato sul quotidiano francese Le Monde, in cui gli autori avevano omesso ogni critica all’autorizzazione data dal maresciallo alla deportazione di ebrei nei campi di sterminio durante la Seconda guerra mondiale[57]. I ricorrenti adirono la Corte, a fronte della condanna penale subita e del risarcimento di un danno simbolico disposto dalle autorità giurisdizionali interne, invocando con successo la libertà di espressione.

Il caso della pubblicazione di un libro negazionista dello sterminio degli ebrei da parte di un professore universitario con un trascorso in politica e, per tale pubblicazione, condannato in Francia, ha generato la decisione di inammissibilità Garaudy[58], interessante per la qualificazione in diritto della fattispecie. Il Governo aveva chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso alla luce dell’art. 17 e, in subordine, l’applicazione dell’art. 10, § 2, alla luce delle obbligazioni discendenti dall’art. 17. Ciò nonostante, la Corte ha distinto la condanna che il ricorrente aveva subito, da parte dell’autorità giurisdizionale nazionale, per aver negato l’esistenza di crimini contro l’umanità commessi contro gli ebrei durante il secondo conflitto mondiale, dalla condanna per aver fatto affermazioni diffamatorie razziste, incitando all’odio nei confronti della comunità ebraica. La prima questione ha generato una pronuncia di inammissibilità per incompatibilità ratione materiae, sulla base dell’argomento principale che l’Olocausto non poteva essere oggetto di dibattito tra gli storici, ma era un fatto assodato scientificamente; quanto alla seconda, l’interferenza sulla libertà di espressione, costituita dalla condanna penale, è parsa giustificata alla luce dell’art. 10, § 2.

Un tipo particolare di negazionismo, che presenta elementi di singolarità rispetto alla giurisprudenza della Corte precedente, a partire dal fatto che non riguarda lo sterminio degli ebrei nella Seconda guerra mondiale, ma il genocidio armeno, ha generato la complessa sentenza di Grande Camera Perinçek[59]. Il caso prende il nome da un cittadino turco ricoprente un ruolo politico (presidente del Partito turco dei lavoratori) che, partecipando al pubblico dibattito in Svizzera, aveva affermato in tre occasioni come il genocidio armeno consumato dopo il 1915, da lui definito «supposto», fosse una menzogna internazionale e, per queste affermazioni, era stato condannato penalmente dalle autorità giurisdizionali interne.

Nella sentenza di camera anteriore al referral, la Corte aveva esaminato la fattispecie anche ai sensi dell’art. 17, e aveva riconosciuto sussistere la violazione dell’art. 10. In sede di Grande Camera, i giudici di Strasburgo hanno, a maggioranza, dichiarato la violazione dell’art. 10, senza che vi fosse spazio per l’applicazione dell’art. 17, non avendo ritenuto necessario, in una società democratica, sottoporre il ricorrente a una condanna penale per proteggere i diritti della comunità armena in Svizzera. La motivazione soppesa il fatto che le dichiarazioni del ricorrente riguardavano una questione di interesse pubblico e non costituivano un invito all’odio o all’intolleranza, che il contesto in cui erano formulate non era caratterizzato da accresciute tensioni o da speciali tensioni storiche in Svizzera, che le dichiarazioni non potevano essere considerate come incidenti sulla dignità dei membri della comunità armena al punto da richiedere una risposta penale in questo Stato, che non esisteva alcun obbligo di legge internazionale per la Svizzera di criminalizzare tali dichiarazioni, che i tribunali svizzeri sembravano aver censurato il richiedente per aver espresso un’opinione che divergeva da quella comunemente accettata in Svizzera, e che l’interferenza aveva assunto la forma grave di una condanna penale.

La linea di ragionamento, che ha escluso vi fosse spazio («no grounds to apply») per l’art. 17, pare dipartire dalla precedente giurisprudenza e non essere interamente convincente, se si pensa che, in relazione al negazionismo di un genocidio, la Corte ha più volte affermato l’esistenza di un abuso ai fini dell’art. 17, allorquando l’art. 10 era stato invocato da gruppi politici o singoli portatori di ideologie totalitarie e le affermazioni erano risultate, in sé, distruttive.  Questo è stato ritenuto il livello minimo e sufficiente per riconoscere l’abuso del diritto di manifestazione del pensiero in presenza di affermazioni revisioniste, perché oltre tale soglia esse diventano vere e proprie aggressioni e non sono più semplici opinioni, ossia assurgono a interventi suscettibili di diventare, in ogni momento, distruttivi in concreto.

[1] In ragione della sua importanza, è sterminata la letteratura formatasi su questo tema. Per fare riferimenti alla sola manualistica, a raccolte sistematiche di giurisprudenza e a commentari che si occupano con un maggiore respiro della libertà di espressione nel contesto della Convenzione, si segnalano  V. Zagrebelsky – R. Chenal – R. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Il Mulino, Bologna, 2016; S. Bartole – P. De Sena – V. Zagrebelsky (a cura di), Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, CEDAM, Padova, 2012; Berger V., Jurisprudence de la Cour européenne des droits de l’homme, Sirey, Paris, 2011; F. Sudre, Droit européen et international des droits de l’homme, Presses universitaires de France (PUF), 2011; M. De Salvia e V. Zagrebelsky (a cura di), Diritti dell’uomo e libertà fondamentali. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia delle Comunità europee, voll. I, II, III, Giuffrè, Milano, 2006-8; S. Bartole – B. Conforti – G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione Europea per la Tutela dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentale, CEDAM, Padova, 2001, pp. 337-350; G. Cohen-Jonathan, Article 10, in L.-E. Pettiti – E. Decaux – P.-H. Imbert (a cura di), La Convention européenne des droits de l’homme. Commentaire article par article, Economica, Parigi, 1999, pp. 367 ss.
Ringrazio calorosamente la Dott.ssa Eleonora Giorgis, per la rilettura e i suoi suggerimenti al testo finale.

[2] I. Laeuchli Bosshard, Die Meinungsaeusserungsfreiheit gemäss Art.10 EMRK unter Berücksichtigung der neueren Entscheide und der neuen Medien, Peter Lang, Berna, 1990, pp. 7-8.

[3] P. C. Ragaz, Die Meinungsaeusserungsfreiheit in der Europaeischen Menschenrechtskonvention, Peter lang, Berna, 1979, p. 40.

[4] Corte Edu, Handyside c. Regno Unito, ric. n.5493/72, 7 dicembre 1976.

[5] Oltre alla importante sentenza Handyside, citata da ultimo,si vedaCorte Edu,Klein c. Slovacchia, ric. n. 72208/01, 31 ottobre 2006.

[6] Corte Edu, De Haes e Gijsels c. Belgio, ric. n. 19983/92, 24 febbraio 1997, § 48.

[7] Corte Edu [GC], Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia, ric. n. 21980/93, 20 maggio 1999, § 59.

[8] P. Van Dijk - F. Van Hoof - A. Van Rijin - L. Zwaak (a cura di), Theory and Practice of the European Convention on Human Rights, Intersentia, Anversa-Oxford, 2006, p. 783.

[9] Corte Edu, Young, James e Webster c. Regno Unito, ricc. nn. 7601/76 e 7806/77, 13 agosto 1981, § 57.

[10] Corte Edu, K c. Austria, ric. n. 16002/90, 2 giugno 1993, serie A n. 255-B, § 11 (e, in precedenza, § 46 com. rep. del 13 ottobre 1992).

[11] Corte Edu [GC], Bladet Tromsø e Stensaas c. Norvegia, ric. n. 21980/93, 20 maggio 1999, § 66.

[12] Corte Edu, Comitato editoriale di Pravoye Delo e Shtekel c. Ucraina, ric. n. 33014/05, 5 maggio 2011, § 63: «(...) the Internet is an information and communication tool particularly distinct from the printed media, especially as regards the capacity to store and transmit information. The electronic network, serving billions of users worldwide, is not and potentially will never be subject to the same regulations and control. The risk of harm posed by content and communications on the Internet to the exercise andenjoyment of human rights and freedoms, particularly the right to respect for private life, is certainly higher than that posed by the press».

[13] Corte Edu, Schuman c. Polonia, ric. n. 52517/13, 3 giugno 2014.

[14] Si veda, in proposito, la «Joint Declaration on Freedom of Expression and “Fake News”, Disinformation and Propaganda» resa il 3 marzo 2017 dal Relatore speciale sul diritto alla libertà di opinione ed espressione, congiuntamente con OSCE, OAS e ACHPR, in riferimento all’art. 19 della Carta deòòe Nazioni Unite.

[15] Corte Edu, Salov c. Ucraina, ric. n. 65518/01, 6 novembre 2005, §§ 13 ss.

[16] Corte Edu [GC], Delfi AS c. Estonia, ric. n. 64569/09, 16 giugno 2015, § 133: «(...) the Internet plays an important role in enhancing the public’s access to news and facilitating the dissemination of information in general».

[17] Corte Edu, Markt Intern Verlag GmbH e Klaus Beermann c. Germania, ric. n. 10572/83, 20 novembre 1989.

[18] Corte Edu, Ashby Donald e altri c. Francia, ric. n. 36769/08, 10 gennaio 2013, § 34.

[19] Corte Edu, Zana c. Turchia, ric. n. 18954/91, 25 novembre 1997, § 51.

[20] Corte Edu [GC], Incal c. Turchia, ric. n. 22678/93, 9 giugno 1998, §§ 48 ss.

[21] Corte Edu [GC], Lindon, Otchakovsky-Laurens e July c. Francia, ricc. nn. 21279/02 e 36448/02, 22 ottobre 2007, § 45.

[22] Corte Edu, Observer e Guardian c. Regno Unito, ric. n. 13585/88, 26 novembre 1991, § 53.

[23] Corte Edu, Gaweda c. Polonia, ric. n. 26229/95, 14 marzo 2002, § 40.

[24] Corte Edu [GC], Ždanoka c. Lettonia, ric. n. 58278/00, 16 marzo 2006, §§ 112-115.

[25] Corte Edu, Şener c. Turchia, ric. n. 26680/95, 18 luglio 2000, § 40.

[26] L’individuazione delle numerose obbligazioni positive discendenti dall’art. 10 enucleate dalla case law della Corte Edu meriterebbe un approfondimento che toglierebbe agilità al presente studio. Al proposito, sia consentito un rinvio a P. Gori, ECHR Article 10: how does the protection work, Aracne, Trieste, 2014, pp. 7 ss.

[27] Nel duplice testo ufficiale, la versione inglese recita «prescribed by law»; quella francese, «prévu par la loi».

[28] Corte Edu, Yağmurdereli c. Turchia, ric. n. 29590/96, 4 giugno 2002, § 40.

[29] Travaux préparatoires (Collected edition), Martinus Nijhoff, L’Aia, 1975, pp. 15 ss.

[30] Ad esempio, si veda Corte Edu, Yılmaz e Kılıç c. Turchia, ric. n.68514/01, 17 luglio 2008, § 60.

[31]  Ancora, a titolo di esempio, si rinvia a Corte Edu [CG], Erdogdu e Ince c. Turchia, ricc. nn. 25067/94 e 25068/94, 8 luglio 1999, § 47.

[32] Corte Edu, Sunday Times c. Regno-Unito (n. 2), ric. n. 13166/87, 26 novembre 1991, § 50.

[33] Corte Edu, MGN Ltd c. Regno Unito, ric. n. 39401/14, § 142; Corte Edu, Hachette Filipacchi Associés c. Francia, ric. n. 71111/01, 14 giugno 2007, § 43.

[34] Corte Edu, Mor c. Francia, ric. n. 28198/09, 15 dicembre 2011, § 61.

[35] Corte Edu, Belpietro c. Italia, ric. n. 43612/10, 24 settembre 2013.

[36] Corte Edu [GC], A, B e C c. Irlanda, ric. n. 25579/05, 16 dicembre 2010; Corte Edu [GC], Lautsi e altri c. Italia, ric. n. 30814/06, 18 marzo 2011.

[37] Yutaka Arai-Takahashi, The margin of appreciation doctrine and the principle of proportionality in the jurisprudence of the ECHR, 2001, Anversa-Oxford-New York, Intersentia, pp. 197 ss.

[38] Corte Edu [GC], Animal Defenders International (ADI) c. Regno Unito, ric. n. 48876/98, 24 aprile 2013.

[39] Per una disamina puntuale dei casi principali, si consiglia di attingere al file «Case-Law References of Judgments, Advisory Opinions and Published Decisions», periodicamente aggiornato, reperibile on line sul sito della Corte (www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=caselaw&cwww.echr.coe.int/Documents/Case_law_references_ENG.pdf).

[40] Corte Edu [GC], Palomo Sanchez e altri c. Spagna, ricc. nn. 28955/06, 28957/06, 28959/06 e 28964/06, 12 settembre 2011.

[41] Corte Edu [GC], Von Hannover c. Germania (2), ricc. nn. 40660/08 e 60641/08, 7 febbraio 2012; Corte Edu [GC], Axel Springer AG c. Germania, ric. n. 39954/08, 7 febbraio 2012, § 84.

[42] Ad esempio, si vedano le decisioni di inammissibilità Corte Edu [GC], Vogt c. Germania, ric. n. 17851/91, 26 settembre 1995 e Corte Edu, Erdel c. Germania, ric. n. 30067/04, 13 febbraio 2007.

[43] Corte suprema Usa, Chaplinsky c. New Hampshire, 315 U.S. 568 (1942). La Corte suprema americana tutela la libertà di espressione, intesa specificamente come libertà di parola, alla luce del primo emendamento delle Costituzione federale, trasmesso agli Stati per la ratifica il 25 settembre 1789 e adottato dal Congresso il 15 dicembre 1791.

[44] Corte Edu, Féret c. Belgio, ric. n. 15615/07, 16 luglio 2009, § 73.

[45] Corte Edu, Schimanek c. Austria, ric. n. 32307/96, 1° febbraio 2000.

[46] Corte Edu, Ivanov c. Russia,ric. n. 35222/04, 20 febbraio 2007.

[47] Le ulteriori allegate violazioni degli artt. 13 e 14 furono dichiarate incompatibili ratione materiae.

[48] Corte Edu, Norwood c. Regno Unito, ric. n. 23131/03, 16 novembre 2004.

[49] Commissione europea dei diritti dell’uomo, Glimmerveen e Hagenbeek c. Olanda, ricc. nn. 8348/78 e 8406/78, 11 ottobre 1979. L’European Commission on Human Rights, al tempo, operava un ruolo di filtro anteriore al giudizio della Corte.

[50] D. Harris - M. O’Boyle - E. Bates - C. Buckley, Harris, O’Boyle & Warbrick: Law of the European Convention on Human Rights, Oxford University Press, Oxford, 2009 (II ed.), p. 450.

[51] Corte Edu, Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, §§ 40-41.

[52] La materia del contendere è delicata, e non mancano interpretazioni difformi, come attesta l’opinione dissenziente del giudice A. Sajó, cui hanno aderito i giudici V. Zagrebelsky e N. Tsotsoria, annessa a quella decisione: «A mon grand regret, je ne peux me rallier à l’opinion de la majorité concluant à l’absence de violation de l’article 10 de la Convention. Selon moi, confirmer la répression pénale du discours politique en l’espèce va à l’encontre de la liberté d’expression (...)».

[53] Corte Edu, Alinak c. Turchia, ric. n. 34520/97, 29 marzo 2005.

[54] Corte Edu Chauvy e altri c. Francia, ric. n. 64915/01, 29 giugno 2004, §§ 69-77.

[55]  Corte Edu Monnat c. Svizzera, ric. n.73604/01, 21 settembre 2006.

[56] Corte Edu D.I. c. Germania,26 giugno 1996.