Magistratura democratica

Le principali decisioni della Corte in materie diverse

di Emanuele Nicosia
Oltre alle decisioni che hanno inciso sulla materia civile e sulla materia penale (analizzate nei contributi che precedono), la Corte Edu, specie nell’ultima ventina d’anni, ha reso molte altre decisioni che hanno influenzato in vario modo taluni aspetti dell’ordinamento giuridico italiano. Ecco una breve rassegna delle più significative pronunce in alcuni settori chiave.

1. Diritto degli stranieri e dell’immigrazione

Particolarmente importanti le pronunce della Corte Edu relative alla materia dell’espulsione dello straniero e dei respingimenti.

In materia di espulsione, va ricordato innanzitutto il famoso caso Saadi, in cui la Corte Edu ha ribadito con forza, anche in relazione all’Italia, il già affermato divieto di espulsione dello straniero, anche condannato o sospettato della commissione di gravi reati, verso un Paese in cui quest’ultimo rischi di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti, vietati dall’art. 3 Cedu. Il ricorrente era un cittadino tunisino residente a Milano, già detenuto in Italia e condannato in Tunisia nel 2005 a venti anni di reclusione per reati di terrorismo commessi fuori dall’Italia, nei confronti del quale era stato emesso dal Ministro dell’interno italiano un provvedimento di espulsione in ragione dei suoi legami con il terrorismo internazionale. Nel suo ricorso alla Corte Edu, aveva lamentato il fatto che la sua espulsione verso la Tunisia lo avrebbe esposto al consistente rischio di subire in quel Paese trattamenti inumani o degradanti, a causa dei suoi precedenti e delle condizioni delle carceri tunisine, il tutto in violazione dell’art. 3 Cedu. La Corte, ribadendo la sua precedente giurisprudenza, secondo la quale il diritto a non subire trattamenti vietati è un diritto assoluto, che non può cedere il passo neppure di fronte a rilevanti considerazioni di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale da atti di terrorismo, ha deciso nel senso che l’eventuale esecuzione dell’espulsione verso la Tunisia avrebbe comportato una violazione dell’art. 3 Cedu a opera delle autorità italiane. Infatti, sulla base anche di un’ampia documentazione fornita da ong e da fonti di intelligence – non contestata dalle autorità italiane – che riportava frequenti casi di tortura in Tunisia per le persone incriminate ai sensi della legislazione antiterrorismo, nonché l’assenza di indagini effettive da parte delle autorità sulle relative denunce presentate dalle vittime, appariva concreto il rischio che il ricorrente potesse anch’egli essere sottoposto a trattamenti del genere in caso di esecuzione del provvedimento di espulsione[1].

Ulteriori successive pronunce hanno ribadito le conclusioni della sentenza Saadi, affermando in una serie di casi analoghi la violazione dell’art. 3 Cedu quale conseguenza dell’avvenuta espulsione di cittadini stranieri, pur condannati per gravi reati, verso Paesi nei quali sussiste un concreto rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani o degradanti. Tra gli altri, si ricorda, in particolare, il caso Ben Khemais, in cui il ricorrente, cittadino tunisino già condannato nel suo Paese per terrorismo di matrice islamica e in Italia per associazione a delinquere e lesioni, nel 2007 si era rivolto alla Corte Edu nel tentativo di bloccare la propria espulsione verso la Tunisia da parte delle autorità italiane. Nonostante la Corte Edu avesse ordinato provvisoriamente al Governo italiano di non procedere all’espulsione in attesa della decisione finale della Corte stessa, nel giugno 2008 le autorità italiane avevano contravvenuto all’ordine e proceduto ugualmente all’espulsione. Nella sentenza che ha chiuso il caso, la Corte ha condannato per questo lo Stato italiano, ritenendo che, in presenza di un rischio concreto che il ricorrente potesse essere sottoposto a torture o trattamenti inumani o degradanti nelle carceri tunisine, la sua espulsione dall’Italia fosse stata illegittima, indipendentemente dall’esistenza di “assicurazioni diplomatiche” da parte della Tunisia sul trattamento che egli avrebbe subito in carcere[2].

Quanto, invece, alla diversa materia dei respingimenti, la Corte ha riscontrato una chiara violazione della Cedu in particolare nell’importante caso Hirsi Jamaa, in cui a essere tacciata di incompatibilità con la Cedu è stata la prassi dei respingimenti di massa verso la Libia di migranti stranieri (nel caso di specie, somali ed eritrei) provenienti dai loro Paesi attraverso la Libia e intercettati dalle autorità italiane in mare aperto, mentre tentavano di raggiungere irregolarmente le coste italiane. In via preliminare, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti rientrassero nella giurisdizione italiana ai fini dell’applicazione della Cedu (art. 1 Cedu), in quanto si trovavano, al momento dei fatti oggetto di ricorso, sotto il controllo continuo ed esclusivo delle autorità italiane. Fatta questa premessa, la Corte ha riscontrato, in particolare, una violazione del divieto di espulsioni collettive (art. 4 Protocollo n. 4 alla Cedu) e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 Cedu) come conseguenza del fatto che le autorità italiane avevano respinto gli stranieri, riconducendoli in Libia (Paese nel quale, al pari dei loro Paesi di origine, era probabile che fossero sottoposti a trattamenti vietati), per di più senza effettuare un esame individualizzato della loro situazione, in violazione appunto del divieto di espulsioni collettive. Inoltre, è stata riscontrata anche la violazione dell’art. 13 Cedu (diritto a un rimedio effettivo in caso di lamentata violazione di altri diritti sanciti dalla Cedu) come conseguenza del fatto che gli stranieri coinvolti non avevano potuto beneficiare di rimedi giuridici effettivi contro il loro respingimento[3].

Più di recente, un’altra pietra miliare nella giurisprudenza Cedu relativa all’Italia in materia di trattamento dello straniero è stata posta nel caso Khlaifia, riguardante la detenzione – prima in un centro di accoglienza a Lampedusa, poi su delle navi ancorate nel porto di Palermo – nonché il rimpatrio in Tunisia di migranti stranieri irregolari sbarcati sulle coste italiane nel 2011 dopo essere fuggiti dalla Tunisia, nel periodo della cosiddetta “primavera araba”. In questo caso, la Corte ha riscontrato violazioni del diritto alla libertà personale (art. 5, par. 1, Cedu), del diritto ad essere informato nel più breve tempo possibile sulle ragioni della privazione di libertà (art. 5, par. 2, Cedu), del diritto di ottenere in breve tempo una pronuncia sulla legalità della privazione di libertà (art. 5, par. 4, Cedu). Ha ritenuto inoltre che, sebbene le condizioni del centro di accoglienza di Lampedusa e quelle delle navi nel porto di Palermo non fossero tali da integrare gli estremi del trattamento inumano o degradante, vi era stata violazione del diritto dei ricorrenti a un rimedio effettivo (art. 13 Cedu) per far valere, nell’ordinamento interno, appunto la violazione del diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti, sancito dall’art. 3 Cedu[4].

2. Diritto penitenziario e condizioni della detenzione in carcere

In questa materia, le principali sentenze relative all’Italia riguardano i maltrattamenti subiti da detenuti in carcere, i regimi “speciali” di detenzione e la cronica problematica del sovraffollamento carcerario.

a) Quanto ai maltrattamenti fisici e psicologici, sono rimaste famose le due sentenze nei casi Labita e Indelicato, relative a presunte violenze commesse nei confronti di detenuti che si trovavano sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41‑bis dell’ordinamento penitenziario. A fronte della lamentata violazione dell’art. 3 Cedu quale conseguenza di violenze fisiche asseritamente subite dai ricorrenti, la Corte Edu ha, tuttavia, negato la violazione di tale articolo da parte dello Stato italiano per i fatti in sé considerati, in quanto la commissione di atti di tortura o di trattamenti inumani o degradanti da parte del personale penitenziario non risultava provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Contemporaneamente, però, ha affermato la violazione dello stesso articolo sotto il profilo procedurale, a causa dell’accertata assenza di indagini efficaci da parte delle autorità nazionali sugli episodi di maltrattamento denunciati dai ricorrenti[5].

Più di recente, nel caso Cirino, relativo a due detenuti che si dolevano di essere stati maltrattati dalla polizia penitenziaria nel 2004 e del fatto che i responsabili non fossero stati adeguatamente sanzionati, la Corte ha affermato che i maltrattamenti inflitti ai ricorrenti in modo deliberato, premeditato e organizzato, mentre si trovavano sotto il controllo del personale penitenziario, costituissero atti di tortura[6].

Quanto, invece, ai maltrattamenti non deliberatamente inflitti, bensì frutto di negligenze, emblematico appare il caso Contrada n. 2, in cui il ricorrente lamentava i ripetuti rigetti, da parte dell’autorità giudiziaria, delle sue domande di sospensione dell’esecuzione della pena o di detenzione domiciliare motivate dalle sue condizioni di salute, particolarmente gravi[7].

b) Quanto ai regimi speciali di detenzione, il riferimento è ovviamente al regime cd. 41-bis, e alcuni circuiti detentivi speciali come il cd. EIV («a elevato indice di vigilanza»), oggi sostituito dal regime cd. AS («alta sicurezza»). Tali regimi speciali prevedono, com’è noto, forme più o meno incisive di isolamento: in particolare, limitazioni ai contatti con la comunità carceraria e con gli altri detenuti, nonché limitazioni più incisive ai contatti con l’esterno (visite e colloqui, corrispondenza, accesso a informazioni provenienti dall’esterno).

A proposito del regime ex art. 41-bis ordinamento penitenziario, la Corte Edu ha affermato in più occasioni che, pur trattandosi di un regime particolarmente severo, esso costituisce una forma di isolamento sociale relativo (non totale, che sarebbe vietato), dunque non contrastante con l’art. 3 Cedu e giustificato dalla pericolosità dei detenuti a esso sottoposti e dalla legittima tutela dell’ordine pubblico – e ciò anche in casi nei quali l’applicazione del regime era stata prolungata per diversi anni e/o nei confronti di individui in precarie condizioni di salute. Singole restrizioni derivanti da tale regime possono costituire violazioni di altri diritti (in particolare, talune forme di controllo sulla corrispondenza operate dall’amministrazione penitenziaria italiana, a causa della vaghezza della normativa vigente all’epoca dei fatti, sono risultate lesive del diritto al rispetto della corrispondenza)[8].

Particolarmente significativa, in materia, la sentenza resa dalla Corte Edu in Grande Camera nel caso Enea, in cui la Corte, dopo aver ribadito la propria consolidata posizione sulla compatibilità con il rispetto dei diritti umani (in particolare, dell’art. 3 Cedu) del regime cd. di “carcere duro” ex 41-bis, di per sé considerato, ha aggiunto però che il provvedimento ministeriale che applica a un detenuto il 41-bis, nonché le singole restrizioni (ad esempio, alle visite familiari) conseguenti al suo inserimento in altri circuiti penitenziari di alta sicurezza (nel caso di specie, l’EIV citato), devono poter essere sottoposti, su reclamo dell’interessato, a un controllo effettivo da parte dell’autorità giudiziaria, pena la violazione del diritto a un equo processo (art. 6., par. 1, Cedu) sotto il profilo del diritto di accesso a un giudice[9].

c) Quanto, infine, alla nota piaga del sovraffollamento carcerario, l’Italia è stata condannata dalla Corte Edu per violazione dell’art. 3 Cedu una prima volta nel 2009, nel famoso caso Sulejmanovic (relativo a un detenuto che, durante la carcerazione, aveva avuto a disposizione meno di tre mq di spazio, mentre lo standard prescritto dalle norme europee era di un minimo di sette mq, situazione ritenuta dalla Corte incompatibile con l’art. 3 Cedu indipendentemente da ogni altra circostanza, come la possibilità di accesso all’aria aperta, etc.)[10]; poi, nel notissimo caso Torreggiani, deciso con una sentenza “pilota” che ha imposto allo Stato italiano di adottare le misure necessarie per porre termine al problema del sovraffollamento carcerario – di cui la Corte Edu ha constatato, alla luce delle migliaia di ricorsi pendenti e non manifestamente infondati, la natura strutturale e non occasionale – nonché di mettere in atto con urgenza un sistema di riparazione e compensazione in favore dei detenuti che lamentassero di aver subito trattamenti vietati[11].

La soluzione del problema del sovraffollamento e delle conseguenti violazioni della Cedu a esso connesse risulta particolarmente difficile in quanto, rispetto ad altre forme di violazione della Cedu in ambito carcerario prima ricordate (quali i maltrattamenti fisici o psichici), il sovraffollamento strutturale richiede anche investimenti economici finalizzati a migliorare l’edilizia carceraria e garantire ambienti carcerari più vivibili. Nonostante l’art. 4 delle Regole penitenziarie europee stabilisca che la scarsità di risorse finanziarie non può valere come giustificazione, per gli Stati, rispetto a situazioni carcerarie lesive delle regole penitenziarie, è chiaro che l’attuazione pratica e piena di tali Regole rimane, in periodi di crisi economica, sempre problematica. Di conseguenza, com’è noto, la risposta fornita dal legislatore e dal Governo italiani alla richiesta di adozione di misure volte a contrastare il sovraffollamento, contenuta nella sentenza Torreggiani, è stata quella di provare a diminuire drasticamente la popolazione carceraria attraverso una serie di riforme susseguitesi tra il 2013 e il 2014 (stabilizzazione della misura dell’esecuzione della pena presso il domicilio di cui alla l. n. 199/2010 e innalzamento del limite massimo di pena residua per l’accesso alla stessa, limitazioni alla custodia cautelare, liberazione anticipata speciale)[12]. Al contempo, sempre al fine di ottemperare alle richieste della sentenza Torreggiani, sono stati introdotti, con gli stessi atti normativi, gli artt. 35-bis e 35-ter ordinamento penitenziario, che hanno introdotto un meccanismo giurisdizionale di inibitoria, in generale, delle violazioni dei diritti dei detenuti, nonché di riparazione (sotto forma di sconto di pena o di indennizzo di tipo pecuniario) delle violazioni del diritto a non subire trattamenti inumani o degradanti. Tali rimedi interni sono stati ritenuti effettivi e adeguati dalla stessa Corte Edu[13].

Quanto alla valutazione nel merito del carattere inumano o degradante delle condizioni detentive, la sentenza Torreggiani ha contribuito al consolidarsi di un ricco filone giurisprudenziale, alimentato anche da sentenze relative ad altri Stati, anche successive, secondo cui le condizioni della detenzione devono essere oggetto di valutazione complessiva e globale, ma sono individuabili comunque alcuni parametri minimi, specie in materia di spazio disponibile pro capite. In particolare, sussiste una forte presunzione (non assoluta) di violazione dell’art. 3 Cedu in caso di spazio disponibile pro capite inferiore ai tre mq, la quale può essere ribaltata soltanto in circostanze eccezionali (ad esempio, quando tale situazione sia meramente occasionale e assai limitata nel tempo, quando vi siano ampie possibilità di libera uscita dalla camera, in particolare per attività trattamentali). Viceversa, in presenza di uno spazio disponibile pro capite pari o superiore a 3 mq, può sussistere violazione dell’art. 3 Cedu anche in presenza di una serie di altre situazioni che possono connotare la detenzione in senso inumano o degradante (tra le quali: situazioni di fatiscenza delle strutture carcerarie in genere; limitazioni alla possibilità di accesso all’aria aperta in spazi ampi e riparati dalle intemperie e di svolgimento di attività fisica; assenza di adeguata climatizzazione, con conseguente esposizione a temperature troppo basse o troppo elevate; assenza di aerazione naturale o di luce naturale; condizioni igienico-sanitarie precarie; carenza di acqua corrente o di acqua calda; inidoneità di alimentazione, abbigliamento, lenzuola; mancata tutela effettiva della salute; eccessiva umidità o frequenti allagamenti; continuativa esposizione al fumo passivo). Tutte queste situazioni, secondo la Corte Edu, possono dare luogo, a seconda della loro intensità e/o della loro durata e a seconda di come si combinano tra loro, a violazioni dell’art. 3 Cedu. La difficoltà che emerge dall’analisi della giurisprudenza è, però, quella di stabilire la soglia (qualitativa e/o temporale) oltre la quale scatta il trattamento inumano o degradante: infatti, fatta eccezione per il sovraffollamento – in relazione al quale, come detto, la Corte Edu ha cercato di fornire un parametro obiettivo, ancorché non assoluto, per individuare le violazioni (quello dei 3 mq) – l’impressione che si trae dalla casistica è quella di una notevole frammentarietà, in cui diventa difficile per gli operatori giuridici (e, ancor più, per gli stessi detenuti) stabilire ex ante (cioè prima che la Corte Edu si pronunci sul caso specifico) se si sia o meno in presenza di una violazione.

3. Diritto della famiglia e dei minori

In questa materia viene in gioco, principalmente, l’art. 8 Cedu («Diritto al rispetto della vita privata e familiare»), diritto – com’è noto – non assoluto, ma soggetto a limitazioni nei casi e nei modi previsti dallo stesso articolo, con conseguenti difficoltà nell’individuazione del corretto bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti.

a) Particolarmente ricca è la giurisprudenza relativa alle lamentate violazioni del diritto alla vita privata e familiare di uno o entrambi i genitori, violazioni derivanti da interventi attivi posti in essere, a fini di tutela dei minori o di altri interessi meritevoli di protezione, dalle autorità statali ai vari livelli (legislatore, autorità giudiziaria, servizi sociali), oppure anche da colpevoli omissioni delle stesse autorità. Gli esempi sono molteplici.

Tra i casi più importanti, si ricorda il caso Paradiso e Campanelli, deciso in Grande Camera, relativo alla presa in carico da parte dei servizi sociali italiani di un bimbo di nove mesi nato in Russia a seguito della stipula di un contratto di surrogazione di maternità (cd. “utero in affitto”) tra una donna russa e una coppia italiana priva di qualsiasi legame biologico con il bimbo: la Corte Edu ha ritenuto non sussistente la violazione dell’art. 8 Cedu[14]. Nel senso della non violazione dell’art. 8, la Corte Edu si è pronunciata anche nel caso Moretti e Benedetti, relativo alle lamentate inefficienze della procedura di adozione e al mancato rispetto dei diritti dei componenti della famiglia candidata ad adottare[15].

La violazione dell’art. 8 Cedu è stata invece riscontrata, per citare a titolo esemplificativo i casi recenti più significativi: nel caso Piazzi, concernente l’impossibilità per il ricorrente di esercitare il diritto di visita del figlio per più di sette anni, secondo le modalità decise dall’autorità giudiziaria, a causa dell’omessa adozione, da parte dei servizi sociali, di misure idonee a rendere effettivo il suo diritto di visita[16]; nel caso Godelli, relativo all’impossibilità, per una persona vittima di abbandono da parte della madre durante l’infanzia, di conoscere le proprie origini[17]; nel caso Zhou, relativo al collocamento in famiglia di un bimbo con il quale la madre non era riuscita ad avere alcun contatto per dieci mesi[18]; nel caso Manuello, relativo all’impossibilità per i nonni di vedere la nipote a causa della mancata esecuzione delle decisioni giudiziarie che autorizzavano gli incontri e, successivamente, della decisione giudiziaria di sospendere gli incontri stessi[19]; nel caso Bondavalli, relativo all’impossibilità per il genitore ricorrente di esercitare pienamente il diritto di visita del figlio alla luce dei rapporti negativi stilati dai servizi sociali[20]; nel caso Giorgioni, relativo alla lamentata inefficacia delle misure adottate dalle autorità italiane per garantire il diritto di visita del padre di un minore nonostante la situazione conflittuale con la madre dello stesso[21]; nel caso Barnea e Căldăraru, relativo all’allontanamento di una bimba di poco più di due anni dalla famiglia d’origine e al suo collocamento presso altra famiglia in attesa dell’adozione[22]; da ultimo, nel caso V.C., relativo a una persona minorenne all’epoca dei fatti, alcoldipendente e tossicodipendente, nonché vittima di sfruttamento di prostituzione minorile e violenza sessuale, la quale lamentava di non essere stata adeguatamente tutelata dalle autorità italiane[23].

Com’è evidente, un’ampia casistica mette in luce la delicatezza della materia e dei bilanciamenti tra diritti e interessi confliggenti che la Corte Edu (dopo le autorità nazionali) è chiamata a effettuare.

b) Negli ultimi anni, si stanno moltiplicando i casi relativi al diritto alla vita privata e familiare delle persone o delle coppie omosessuali. Tra i casi di riconosciuta violazione dell’art. 8 Cedu (e, talora, anche dell’art. 14 Cedu, contenente il divieto di discriminazione) si possono segnalare: il caso Oliari, relativo all’impossibilità (all’epoca) per i ricorrenti, un gruppo di coppie dello stesso sesso, di contrarre matrimonio o altra forma di unione civile in Italia[24]; il caso Taddeucci, relativo all’impossibilità, per una coppia omosessuale, di ottenere in Italia un permesso di soggiorno per ragioni familiari[25]; infine, il caso Orlandi, nel quale sei coppie omosessuali si dolevano di non aver potuto ottenere la registrazione o il riconoscimento in qualsiasi forma, come unione civile, dei matrimoni dagli stessi contratti in Paesi diversi dall’Italia[26].

c) Infine, alcune recenti pronunce hanno riguardato i diritti e le problematiche inerenti alla fecondazione assistita. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 8 Cedu, in particolare nel caso Costa e Pavan, in cui i due ricorrenti, una coppia di portatori sani di una malattia geneticamente trasmissibile, al fine di evitare di trasmettere la malattia ai loro figli, intendevano fare ricorso alla procreazione medicalmente assistita accompagnata dalla diagnosi preimpianto (vietata in Italia dalla legge n. 40/2004)[27]; successivamente, anche nel caso Parrillo, deciso in Grande Camera, in cui la ricorrente contestava un altro rilevante divieto stabilito in materia di fecondazione assistita dalla legge n. 40/2004, vale a dire quello di donare i propri embrioni, frutto di fecondazione in vitro e non destinati ad una gravidanza, a fini di ricerca scientifica[28].

4. Libertà di religione, di educazione, di istruzione, di insegnamento, di espressione

Diverse e rilevanti sono le pronunce della Corte Edu che hanno affrontato, in relazione all’Italia, situazioni di conflitto tra i diritti e le libertà individuali inerenti alla sfera religiosa e culturale, sanciti dagli artt. 9, 10 e 11 Cedu e dall’ art. 2 Protocollo n. 1 alla Cedu, e i molteplici valori e interessi di natura pubblica e privata (ordine e sicurezza pubblici, prevenzione dei reati, morale pubblica, diritti e libertà di terzi, etc.) che con tali libertà possono entrare in conflitto e che, secondo i medesimi articoli, devono trovare adeguate forme di tutela, con conseguente necessità di procedere a un corretto bilanciamento.

a) La questione della tutela della libertà di religione (art. 9 Cedu) è emersa in modo emblematico nel caso Sessa, scaturito dal rifiuto dell’autorità giudiziaria di rinviare, su domanda di un avvocato di religione ebraica, un’udienza fissata nel giorno di una festività ebraica: in questo caso, tuttavia, la Corte Edu ha dichiarato la non violazione dell’art. 9 Cedu[29].

Le pronunce più note in materia di tutela delle convinzioni religiose e filosofiche riguardano, tuttavia, l’ambito dell’istruzione/educazione, e sono innanzitutto quelle rese dalla Corte Edu nel caso Lautsi, riguardante la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane, le quali hanno suscitato un enorme scalpore mediatico. Decidendo sul ricorso di una donna che lamentava, in conseguenza del rifiuto da parte delle autorità scolastiche di rimuovere il crocifisso dalle aule delle scuole pubbliche frequentate dai figli, la violazione della libertà di religione (art. 9 Cedu) e del proprio diritto di educare i figli secondo le proprie convinzioni (art. 2 Protocollo n. 1 alla Cedu), la Corte Edu aveva affermato, in una prima sentenza resa in camera, che la presenza obbligatoria nelle aule scolastiche di un simbolo indubbiamente religioso come il crocifisso avrebbe potuto risultare fonte di condizionamento per gli scolari atei o appartenenti a minoranze religiose e ostacolare il pluralismo educativo necessario in uno stato democratico non confessionale, dichiarando quindi la violazione – appunto – del diritto di educare i figli secondo le proprie convinzioni. Questa prima sentenza aveva ricevuto pesantissime critiche da una parte consistente della classe politica e della gerarchia ecclesiastica, che l’avevano additata come cattivo esempio di laicismo estremo, irrispettoso delle tradizioni cristiane europee. In realtà, essa appariva probabilmente in linea con l’esigenza di neutralità religiosa delle istituzioni pubbliche sottesa alla nozione di «società democratica» di cui alla Cedu; inoltre, aveva una portata pratica meno incisiva di quanto non emergesse a prima lettura: non vi si affermava, infatti, che la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche fosse di per sé lesiva di un qualche diritto fondamentale, né tantomeno che le autorità fossero automaticamente obbligate a rimuoverlo in tutti gli edifici pubblici, ma semplicemente che l’esposizione obbligatoria del crocifisso, e la sua mancata rimozione nonostante una richiesta in tal senso avanzata da qualcuno degli interessati, potessero risultare incompatibili con il dovere di neutralità educativa dello Stato e, pertanto, ledere uno dei diritti in questione[30].

Le conclusioni della sentenza resa dalla camera sono state però ribaltate, poco tempo dopo, dalla Grande Camera della Corte Edu, la quale ha affermato che la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane non costituisce violazione del diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni. La Corte ha affermato che l’esposizione di simboli religiosi nelle aule scolastiche è questione che rientra nel margine di apprezzamento statale – stante anche l’assenza di un orientamento comune tra gli Stati europei –, a patto che le scelte statali in materia non comportino forme di indottrinamento. Da tale premessa ha concluso nel senso della non violazione sulla base di varie considerazioni: innanzitutto, la maggior visibilità che deriva alla religione cristiana, maggioritaria in Italia, dalla presenza del crocifisso nelle scuole, non può essere considerata una forma di indottrinamento; in secondo luogo, la presenza del crocifisso non si accompagna all’insegnamento obbligatorio del cristianesimo nelle scuole o a un atteggiamento di intolleranza da parte delle istituzioni nei confronti di alunni che professano altre religioni o altri credi filosofici non religiosi, o di alunni atei; infine, la ricorrente, nel suo ruolo di madre, ha sempre mantenuto, indipendentemente dalla presenza del crocifisso, il suo pieno diritto di indirizzare e consigliare i suoi figli e di orientarli secondo le proprie convinzioni filosofiche[31].

Sempre in materia di istruzione, ma questa volta considerata dal lato attivo della libertà di insegnamento, un certo rilievo ha avuto, qualche anno fa, la sentenza resa nel caso Lombardi Vallauri. Il ricorrente era un noto professore di filosofia del diritto il quale, vistosi rifiutare dall’Università Cattolica di Milano il rinnovo del contratto di insegnamento dopo più di vent’anni, a causa di un’asserita incompatibilità di alcune posizioni da lui assunte rispetto alla dottrina cattolica, aveva cercato invano di far valere le proprie ragioni davanti alla giustizia amministrativa italiana. La Corte Edu gli ha dato ragione, ritenendo che il Consiglio di facoltà dell’Università Cattolica, nel recepire acriticamente un’indicazione proveniente da organi della Santa Sede, non avesse adeguatamente motivato il rifiuto di prendere in considerazione la candidatura, e che tale carenza non fosse stata adeguatamente censurata dalla giustizia italiana, con conseguente violazione della libertà di espressione e del diritto di accesso effettivo alla giustizia del ricorrente[32].

Al di fuori dell’ambito della tutela della libertà di religione e delle convinzioni religiose, il mero diritto all’istruzione (art. 2 Protocollo n. 1 alla Cedu) è venuto infine in rilievo nel caso Tarantino, relativo all’annosa questione della legittimità dell’introduzione del numero chiuso per l’accesso agli studi universitari di medicina e odontoiatria. I ricorrenti erano otto studenti esclusi da tali facoltà, i quali si dolevano della suddetta restrizione: la Corte Edu, tuttavia, ha dato loro torto, concludendo per la non violazione dell’articolo suddetto. Si è trattato della prima volta in cui la Corte Edu è stata chiamata a pronunciarsi sulla questione del numero chiuso nelle università[33].

b) Numerose anche le pronunce della Corte Edu, relative all’Italia, in materia di libertà di espressione e di informazione, in particolare sotto il profilo attivo della libertà di diffondere informazioni, quale è tipicamente quella degli organi di stampa e radiotelevisivi.

Una violazione dell’art. 10 Cedu (libertà di espressione) è stata riconosciuta, ad esempio, nel caso Centro Europa 7 Srl, deciso in Grande Camera, in cui la società ricorrente, operante nel campo radiotelevisivo, si era trovata nell’impossibilità di effettuare le trasmissioni a causa della mancata assegnazione in concreto delle frequenze radiotelevisive da parte dell’autorità statale, nonostante la stessa fosse titolare delle autorizzazioni e dei permessi necessari per la trasmissione stessa (nel caso di specie, la Corte Edu ha riconosciuto anche la violazione dell’art. 1 Protocollo n. 1, che tutela la propriétà)[34]; oppure, nel caso Ricci, relativo alla condanna dell’autore/produttore di un programma televisivo satirico, motivata dalla diffusione di immagini riservate captate sulle frequenze assegnate all’uso interno di un canale del servizio televisivo pubblico (la Rai)[35].

Viceversa, la Corte ha negato l’esistenza di una violazione della libertà di espressione in ambito giornalistico. Si richiamano, in proposito, tra i casi più importanti: il caso Perna, in cui un giornalista si doleva della sua condanna per diffamazione aggravata per aver accusato, in un suo articolo, il procuratore capo di Palermo di aver commesso abusi nell’esercizio della sua funzione, senza aver fornito la prova della veridicità delle sue affermazioni (nel caso di specie, la Corte ha negato altresì la violazione del diritto a un processo equo nei confronti del ricorrente)[36]; il caso Brambilla, scaturito dalla condanna in Italia di tre giornalisti che avevano intercettato alcune radiocomunicazioni effettuate tra membri delle forze dell’ordine al fine di essere tempestivamente informati delle operazioni di polizia in corso e di potersi, quindi, recare tempestivamente sui luoghi coinvolti, per poi effettuare il resoconto di tali operazioni su un giornale locale[37].

In ambiti diversi da quello giornalistico, la libertà di espressione viene comunque in gioco – più in generale – nei casi di diffamazione, come il caso Peruzzi, relativo alla condanna penale in Italia di un avvocato per aver diffamato il giudice dinanzi al quale pendeva un procedimento civile, nel quale l’avvocato assisteva una delle parti: la Corte ha affermato la non violazione dell’art. 10 Cedu[38].

[1] Corte Edu [GC], Saadi c. Italia, 28 febbraio 2008.

[2] Corte Edu, Ben Khemais c. Italia, 24 febbraio 2009; vds. anche Trabelsi c. Italia, 13 aprile 2010 e Toumi c. Italia, 05 aprile 2011.

[3] Corte Edu [GC], Hirsi Jamaa e altri c. Italia, 23 febbraio 2012.

[4] Corte Edu [GC], Khlaifia e altri c. Italia, 15 dicembre 2016.

[5] Corte Edu, Labita c. Italia, 06 aprile 2000; Indelicato c. Italia, 18 ottobre 2001.

[6] Corte Edu, Cirino e Renne c. Italia, 26 ottobre 2017.

[7] Corte Edu, Contrada c. Italia (n.2), 11 febbraio 2014.

[8] Corte Edu, Gallico c. Italia, 28 giugno 2005; Argenti c. Italia, 10 novembre 2005; Madonia c. Italia, 06 luglio 2004; Bagarella c. Italia, 15 gennaio 2008.

[9] Corte Edu [GC], Enea c. Italia, 17 settembre 2009.

[10] Corte Edu, Sulejmanovic c. Italia, 16 luglio 2009.

[11] Corte Edu, Torreggiani e altri c. Italia, 08 gennaio 2013.

[12]Decreti legge nn. 78/2013, 146/2013, 92/2014 e relative leggi di conversione.

[13] Corte Edu, Stella e altri c. Italia e Rexhepi e altri c. Italia, 25 settembre 2014.

[14] Corte Edu [GC], Paradiso e Campanelli c. Italia, 24 gennaio 2017.

[15] Corte Edu, Moretti e Benedetti c. Italia, 27 aprile 2010.

[16] Corte Edu, Piazzi c. Italia, 02 novembre 2010.

[17] Corte Edu, Godelli c. Italia, 25 settembre 2012.

[18] Corte Edu, Zhou c. Italia, 21 gennaio 2014.

[19] Corte Edu, Manuello e Nevi c. Italia, 20 gennaio 2015.

[20] Corte Edu, Bondavalli c. Italia, 17 novembre 2015.

[21] Corte Edu, Giorgioni c. Italia, 15 settembre 2016.

[22] Corte Edu, Barnea e Căldăraru c. Italia, 22 giugno 2017.

[23] Corte Edu, V.C. c. Italia, 1° febbraio 2018.

[24] Corte Edu, Oliari e altri c. Italia, 21 luglio 2015.

[25] Corte Edu, Taddeucci e McCall c. Italia, 30 giugno 2016.

[26] Corte Edu, Orlandi e altri c. Italia, 14 dicembre 2017.

[27] Corte Edu, Costa e Pavan c. Italia, 28 agosto 2012.

[28] Corte Edu [GC], Parrillo c. Italia, 27 agosto 2015.

[29] Corte Edu, Sessa c. Italia, 03 aprile 2012.

[30] Corte Edu, Lautsi c. Italia, 03 novembre 2009.

[31] Corte Edu [GC], Lautsi c. Italia, 18 marzo 2011.

[32] Corte Edu, Lombardi Vallauri c. Italia, 20 ottobre 2009.

[33] Corte Edu, Tarantino e altri c. Italia, 02 aprile 2013.

[34] Corte Edu [GC], Centro Europa 7 Srl e di Stefano c. Italia, 07 giugno 2012.

[35] Corte Edu, Ricci c. Italia, 08 ottobre 2013.

[36] Corte Edu [GC], Perna c. Italia, 06 maggio 2003.

[37] Corte Edu, Brambilla e altri c. Italia, 23 giugno 2016.

[38] Corte Edu, Peruzzi c. Italia, 30 giugno 2015.