Magistratura democratica

Gli effetti delle pronunce della Corte Edu sul giudicato penale di condanna

di Luca Masera
Da tempo la nostra giurisprudenza riconosce il principio della cessazione degli effetti di una sentenza penale definitiva di condanna ritenuta dalla Corte Edu lesiva dei diritti fondamentali del condannato. Partendo dall’analisi delle più note vicende pretorie in argomento, il lavoro fornisce un’indicazione dei molteplici strumenti che, in base al tipo di violazione riscontrata dai giudici di Strasburgo, possono essere attivati per dare esecuzione in sede interna alle decisioni europee.

1. Premessa

Il problema qui oggetto di studio inizia a porsi nella nostra giurisprudenza a partire dai primi anni Duemila, quando diventano più frequenti le decisioni di condanna della Corte Edu in cui i giudici europei non si limitano a sancire l’obbligo per lo Stato di fornire un’equa soddisfazione pecuniaria alla vittima della violazione, ma procedono altresì a indicare in motivazione gli strumenti più adeguati per «rimuovere le conseguenze della violazione», secondo quanto previsto dall’art. 41 Cedu. Gli Stati sono tenuti ex art. 46, par. 1, Cedu «a conformarsi alla sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono parti» (adempimento la cui verifica è affidata, ai sensi dell’art. 46, par. 2, Cedu, al Comitato dei ministri). Quando la sentenza di Strasburgo non indica solo una somma da corrispondere a titolo di equa soddisfazione, ma impone, nei limiti del possibile, la restitutio in integrum, è compito delle autorità nazionali trovare gli strumenti tecnicamente più idonei per pervenire al risultato imposto dalla Corte. Qualora, poi, la violazione convenzionale derivi da una sentenza penale definitiva di condanna, l’onere non può che incombere sulla magistratura penale, cioè sulla medesima autorità che, con la propria decisione, si è resa responsabile della violazione; con la difficoltà, però, per i giudici nazionali, di coniugare tale obbligazione direttamente derivante dall’art. 46 Cedu con il principio dell’intangibilità del giudicato, stante la mancanza di una disciplina normativa ad hoc riguardo agli effetti di una sentenza della Corte Edu sul giudicato penale di condanna.

Già da tempo la nostra giurisprudenza (costituzionale e ordinaria) ha messo in discussione il dogma dell’intangibilità del giudicato, quando la decisione definitiva interna sia stata reputata dalla Corte Edu lesiva di un diritto convenzionale. Rimangono, tuttavia, ancora incertezze su quale sia lo strumento tecnico più adeguato, tenuto conto delle peculiarità della singola vicenda, per dare applicazione nell’ordinamento interno alle decisioni di Strasburgo[1].

Di seguito, daremo conto dei leading case in materia, per provare – nell’ultimo paragrafo – a svolgere alcune brevi riflessioni di sintesi; non sarà, invece, oggetto di questo saggio il diverso problema degli effetti di una sentenza della Corte Edu sulle decisioni passate in giudicato relative a vicende concrete non oggetto di pronuncia da parte dei giudici europei.

2. Alle origini della questione: il caso Somogyi e la rimessione in termini ex art. 175 cpp

La prima occasione in cui il problema viene affrontato ex professo dalla nostra giurisprudenza di legittimità è il caso Somogyi, che prende avvio da un ricorso presentato a Strasburgo per violazione dell’art. 6 Cedu da un cittadino ungherese, condannato in contumacia nel nostro Paese. La Corte Edu, nella sentenza in cui accoglie il ricorso e condanna lo Stato italiano, precisa che la soluzione più adeguata per rimuovere le conseguenze della violazione sarebbe quella di riaprire il procedimento cui il ricorrente non era stato posto nelle condizioni idonee per partecipare[2].

Sulla base di tale decisione, i difensori di Somogyi, prima, avanzano istanza di revisione, respinta in sede di merito e di legittimità; poi, propongono richiesta di remissione in termini ex art. 175 cpp, ma la domanda è respinta dalla Corte d’appello adita, secondo cui la condanna della Corte Edu non può comunque consentire la rinnovazione di un procedimento conclusosi con sentenza definitiva.

Tale decisione viene annullata dalla Cassazione, che coglie l’occasione per enunciare il fondamentale principio di diritto per cui l’obbligo per il giudice nazionale di conformarsi alle sentenze della Corte Edu impone di mettere in discussione anche le sentenze penali passate in giudicato[3]. L’argomento dell’intangibilità del giudicato non può essere dirimente – ragiona la Cassazione –, considerato, da un lato, come tale principio non sia assoluto (esemplare, al riguardo, la disciplina in materia di revisione) e, dall’altro, come il sistema convenzionale preveda la possibilità di adire la Corte Edu solo quando sia stata pronunciata una sentenza definitiva, e dunque la possibilità di rimettere in discussione il giudicato per dare esecuzione alla sentenze della Corte Edu debba considerarsi parte integrante del meccanismo di tutela convenzionale dei diritti fondamentali[4]. Sulla base di tali premesse, la Cassazione dispone la rimessione del ricorrente nel termine per proporre appello avverso la sentenza (definitiva) di condanna in contumacia ritenuta dalla Corte Edu lesiva dei diritti riconosciuti dall’art. 6 Cedu[5].

3. La strada del ricorso straordinario ex art. 625-bis cpp: i casi Drassich e Scoppola

Non sempre l’istituto della remissione in termini può risultare, come nei casi di violazioni legate alla natura contumaciale del processo, il più appropriato a porre rimedio alla violazione sanzionata dalla Corte Edu. Posto il principio per cui l’intangibilità del giudicato deve cedere di fronte a una violazione convenzionale, la giurisprudenza individua nell’applicazione analogica del rimedio di cui all’art. 625-bis cpp («ricorso straordinario per errore materiale o di fatto») un altro possibile strumento per dare seguito nell’ordinamento interno a una pronuncia di condanna dei giudici di Strasburgo.

Un primo caso riguarda l’esecuzione della notissima sentenza Drassich[6],con cui la Corte Edu aveva condannato l’Italia per violazione dell’art. 6 in ordine alla riqualificazione, operata d’ufficio dalla Cassazione, del reato per cui era stata pronunciata in sede di merito la sentenza di condanna (corruzione semplice), che sarebbe risultato prescritto, in una fattispecie criminosa più grave (corruzione in atti giudiziari), in relazione alla quale il termine di prescrizione non era ancora decorso; come nel caso Somogyi,i giudici di Strasburgo avevano affermato che «l’avvio di un nuovo procedimento o la riapertura del procedimento su richiesta dell’interessato rappresenta in linea di massima un modo adeguato di porre rimedio alla violazione contestata».

La Cassazione ritiene che «lo strumento giuridico idoneo a dare attuazione alla sentenza europea può essere quello del ricorso straordinario contro le sentenze della Corte di cassazione, previsto dall’art. 625-bis cpp. Questa norma – sebbene realizzata per colmare vuoti di tutela definiti e tassativi, errore materiale e di fatto – ampiamente giustifica un ragionamento “per analogia”», posto che «si è in presenza di situazioni analoghe nel senso che l’elemento che le accomuna è l’identità di ratio: rimediare, oltre che a veri e propri errori di fatto, a violazioni del diritto di difesa occorse nell’ambito del giudizio di legittimità che rendono invalida per iniquità la sentenza della Corte di cassazione»[7]. In applicazione della norma invocata, la Cassazione revoca la sentenza definitiva di condanna nella parte relativa alla diversa qualificazione giuridica dei fatti fornita dai giudici di legittimità senza contraddittorio con l’imputato, e dispone una nuova trattazione del ricorso «limitatamente al punto della diversa qualificazione giuridica data al fatto corruttivo rispetto a quella enunciata nell’imputazione e poi ritenuta dai giudici di merito»[8].

Il medesimo strumento del ricorso straordinario viene in rilievo, poco tempo dopo, in un caso del tutto diverso, a dimostrazione della versatilità attribuita dalla giurisprudenza a tale rimedio. Si trattava, qui, di dare esecuzione alla sentenza Scoppola (n. 2)della Corte Edu, che aveva condannato l’Italia per violazione degli artt. 6 e 7 in relazione all’inflizione dell’ergastolo a un soggetto il quale aveva optato per un rito alternativo (il giudizio abbreviato) che, al momento in cui l’opzione era stata esercitata, prevedeva come pena massima infliggibile quella di trenta anni di reclusione: la Corte, oltre a concedere un indennizzo pecuniario, aveva altresì stabilito «qu’il incombe à l’Etat défendeur d’assurer que la réclusion criminelle à perpétuité infligée au requérant soit remplacée par une peine conforme aux principes énoncés dans le présent arrêt, à savoir une peine n’excédant pas trente ans d’emprisonnement»[9].

La Corte di cassazione, cui la difesa di Scoppola si era rivolta con ricorso ex art. 625-bis cpp, prende avvio dalla considerazione che, nel caso di specie, l’esecuzione della sentenza di Strasburgo non richiede l’apertura di un nuovo giudizio di merito, posto che non è stata contestata la legittimità della sentenza di condanna, ma solo l’entità della pena inflitta. La Corte procede allora a revocare la propria sentenza, che aveva formato il giudicato, e annulla senza rinvio la sentenza di merito che aveva inflitto la pena dell’ergastolo, sostituendola con quella di trent’anni di reclusione.

4. La cd. revisione convenzionale: il caso Dorigo e l’intervento della Corte costituzionale

La vicenda processuale che ha lasciato senz’altro il segno più significativo rispetto alla tematica in esame è, però, quella relativa all’esecuzione della decisione Dorigo,con cui la Commissione europea dei diritti dell’uomo[10] aveva stabilito che il processo penale a carico del ricorrente doveva considerarsi in violazione dell’art. 6 Cedu, in quanto la condanna per gravi reati in materia di terrorismo era stata pronunciata sulla base delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da tre coimputati non esaminati in dibattimento, essendosi avvalsi della facoltà di non rispondere[11].

Nonostante il Comitato dei ministri presso il Consiglio d’Europa avesse, in svariate occasioni, censurato l’inadempienza dell’Italia nel dare esecuzione a tale pronuncia, nel 2006 – e dunque a distanza di otto anni dalla decisione di Strasburgo – il Sig. Dorigo si trovava ancora in carcere in espiazione della sentenza di condanna dichiarata lesiva dei suoi diritti fondamentali.

Pendente il giudizio sulla richiesta di revisione, si era attivata la procura competente per l’esecuzione della pena, che aveva chiesto al giudice dell’esecuzione di dichiarare l’inefficacia o, comunque, l’ineseguibilità della pronuncia di condanna, ma la richiesta era stata respinta in applicazione del principio dell’intangibilità del giudicato. La Cassazione aveva annullato la decisione dei giudici di merito, e aveva ribadito il principio affermato pochi mesi prima nella sentenza Somogyi,per cui non può darsi esecuzione a una sentenza definitiva che sia stata dichiarata lesiva dei diritti fondamentali dell’imputato. In mancanza di una disposizione normativa che consentisse la doverosa rinnovazione del giudizio, e in attesa che il legislatore o la Corte costituzionale ponessero rimedio a tale lacuna, la Cassazione si era rifiutata di accettare l’idea che di tale colpevole inerzia fosse il Dorigo a dover subire le conseguenze, e aveva affermato il principio di diritto per cui «il giudice dell’esecuzione deve dichiarare, a norma dell’art. 670 cpp, l’ineseguibilità del giudicato quando la Corte Edu abbia accertato che la condanna è stata pronunciata per effetto della violazione delle regole sul processo equo sancite dall’art. 6 Cedu e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio, anche se il legislatore abbia omesso di introdurre nell’ordinamento il mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo»[12].

Nel concomitante procedimento di revisione che la difesa di Dorigo aveva instaurato ex art. 630, comma 1, lett. a, cpp (contrasto di giudicati), il giudice adito (Corte d’appello di Bologna), ritenendo non praticabile la qualificazione proposta dal ricorrente, aveva sollevato, nel marzo 2006, una prima questione di costituzionalità rispetto all’art. 630 cpp, in riferimento agli artt. 3, 10 e 27 Cost.; questione che era stata dichiarata infondata, nell’aprile 2008, dalla Corte costituzionale in una decisione ove, peraltro, non si mancava di segnalare al legislatore «l’improrogabile necessità di predisporre adeguate misure» per consentire il rinnovo del processo dichiarato lesivo dei diritti convenzionali dell’imputato[13]. Con ordinanza del dicembre successivo, la Corte bolognese aveva proposto una nuova eccezione di costituzionalità, relativa questa volta alla violazione dell’art. 117 Cost., rispetto al parametro interposto dell’art. 46, par. 1, Cedu, ove è sancito l’obbligo per gli Stati di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo.

In un’importante decisione dell’aprile 2011[14], la Corte costituzionale anzitutto ricorda come, in mancanza di una disciplina ad hoc, sia stata la giurisprudenza ordinaria a doversi fare carico di cercare gli strumenti per rimettere in discussione il giudicato già formatosi sulla vicenda giudiziaria ritenuta in sede europea lesiva dei diritti fondamentali, ma gli strumenti individuati (quelli analizzati appena sopra: la rimessione in termini ex art. 175 cpp e il ricorso straordinario ex art. 625-bis cpp,) rappresentino solo «soluzioni parziali e inidonee alla piena realizzazione dell’obiettivo» e, comunque, non siano utilizzabili nel giudizio a quo[15]. Quanto poi all’incidente di esecuzione ex art. 670 cpp, che, come visto sopra, aveva portato la Cassazione a dichiarare l’ineseguibilità del giudicato di condanna, con conseguente scarcerazione del Dorigo, la Consulta afferma che «il rimedio si rivela inadeguato: esso “congela” il giudicato impedendone l’esecuzione, ma non lo elimina, collocandolo a tempo indeterminato in una sorta di “limbo processuale”. Soprattutto, la mera declaratoria di ineseguibilità non dà risposta all’esigenza primaria: quella, cioè, della riapertura del processo, in condizioni che consentano il recupero delle garanzie assicurate dalla Convenzione»[16]. L’obbligo per lo Stato di dare esecuzione alle sentenze della Corte Edu non può che passare, in casi come quello oggetto del giudizio a quo, per la celebrazione di un nuovo processo, e la «revisione costituisce l’istituto, fra quelli attualmente esistenti nel nostro sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell’ordinamento nazionale [alle decisioni della Corte Edu]»[17]. Constatata l’impossibilità di ricondurre la situazione in esame alla tipizzazione dei casi di revisione fornita dall’art. 630 cpp, la Corte si decide, infine – dopo il monito rimasto inascoltato del 2008 – a intervenire direttamente sulla norma, dichiarandola costituzionalmente illegittima, per violazione dell’art. 117 Cost., «nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46 co. 1 Cedu, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Edu».

5. Le residue resistenze giurisprudenziali all’esecuzione delle sentenze della Corte Edu e la risposta della Cassazione: il caso Contrada

Il ventaglio di possibilità offerte al giudice penale per dare esecuzione a una sentenza europea che abbia accertato una violazione convenzionale risulta, dunque, specie dopo la sentenza del 2011, quanto mai ampio. Oltre alla possibilità della nuova revisione convenzionale, e a seconda della specifica violazione constatata a Strasburgo, potrà risultare adeguato uno dei diversi strumenti che già la giurisprudenza ordinaria utilizzava prima del 2011, e che tuttora risultano praticabili (e concretamente praticati). La recente vicenda Contrada mostra tuttavia come l’esecuzione del giudicato europeo possa in concreto risultare ancora quanto mai accidentata per il privato che pur abbia visto riconosciute le proprie ragioni a Strasburgo.

Il caso, molto noto, è relativo all’esecuzione della sentenza della Corte Edu che, nell’aprile 2015, aveva condannato l’Italia per violazione dell’art. 7 Cedu, in quanto Bruno Contrada era stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione di stampo mafioso in relazione a fatti commessi quando, nella giurisprudenza della Cassazione, non era ancora consolidata l’ammissibilità di tale qualificazione penalistica, con la conseguenza che la sua condanna non poteva reputarsi prevedibile al momento della commissione del fatto[18]. La pronuncia europea interviene quando Contrada aveva già terminato di scontare la pena detentiva inflittagli, ma i suoi difensori si attivano comunque al fine di veder cessare gli ulteriori effetti della condanna, e percorrono in parallelo diverse strade.

Nell’ambito di un’istanza di revisione già presentata presso la Corte d’appello di Caltanissetta prima della pronuncia europea, in sede di motivi aggiunti, la difesa di Contrada chiede che venga disposta la revisione convenzionale introdotta nel 2011, in ragione dei profili di illegittimità della condanna posti in luce dalla sentenza della Corte Edu. I giudici nisseni richiamano un passo della sentenza dei giudici europei (§ 73), nel quale si rileva come i giudici italiani che si sono occupati del caso non si siano mai misurati con l’obiezione, sollevata dalla difesa di Contrada in tutti i gradi di giudizio, relativa al difetto di prevedibilità della condanna a titolo di concorso esterno al momento della condotta; e decidono di valutare essi stessi, in sede di ammissibilità del giudizio di revisione convenzionale, la questione, risultata decisiva nel fondare la condanna dell’Italia per la violazione dell’art. 7 Cost., se Contrada fosse nelle condizioni di prevedere, al momento dei fatti contestatigli, la possibilità di una sua futura condanna per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte Edu aveva fornito risposta negativa a tale interrogativo, ritenendo per questa precipua ragione violato l’art. 7 Cedu; i giudici siciliani forniscono, al contrario, una risposta di segno positivo: «ad un soggetto quale Contrada, funzionario di polizia attivo nell’ufficio investigativo impegnato nel contrasto alla criminalità organizzata, non potevano mancare elementi chiari e univoci per avere consapevolezza dell’esistenza del concorso esterno e della sanzionabilità in sede penale di condotte che offrivano un contributo alle organizzazioni mafiose, anche se rimanendo estranei alla configurabilità del sodalizio»[19]. Secondo quindi la valutazione dei giudici nisseni, non vi è stata, nel caso specifico di Contrada, alcuna violazione del principio di cui all’art. 7 Cedu, per cui il privato deve essere nella condizione di conoscere le conseguenze giuridiche della propria condotta, e l’istanza di revisione viene per questo motivo respinta[20].

A un esito negativo perviene anche il tentativo di azionare il rimedio del ricorso straordinario ex art. 625-bis cpp, utilizzato dalla Cassazione per dare attuazione al giudicato europeo nei casi Drassich e Scoppola analizzati sopra. La Cassazione non reputa decisivi tali precedenti, in quanto relativi a ipotesi di violazioni convenzionali diverse da quella (di natura sostanziale) oggetto della pronuncia Contrada[21], e dichiara inammissibile il ricorso non ricorrendo i requisiti dell’errore materiale o di fatto, stabiliti dalla legge per l’azionabilità del rimedio[22].  

L’ultimo tentativo esperito dalla difesa Contrada è la presentazione di un’istanza di revoca della sentenza di condanna ex art. 673 cpp, che viene tuttavia ritenuta inammissibile dalla Corte territoriale adita, posto che la vicenda in esame non rientra tra le ipotesi (abrogazione o illegittimità costituzionale della norma incriminatrice) che ai sensi di legge consentono l’emissione del provvedimento di revoca[23].

Le ragioni di Contrada vengono invece riconosciute dalla decisione di legittimità che conclude il giudizio. La Cassazione apre la motivazione constatando come «l’attuale giudizio costituisce l’ultima sede nella quale è possibile affrontare la questione dell’obbligo di conformazione dell’ordinamento interno alla decisione della Corte Edu nel caso Contrada c. Italia»[24]: è evidente dunque ai giudici supremi che, dopo il fallimento dell’istanza di revisione e del ricorso straordinario ex art. 625 cpp, negare l’ammissibilità anche di questo ricorso significherebbe sancire la definitiva impossibilità di dare esecuzione nell’ordinamento interno alla decisione della Corte Edu. La Cassazione, con un’argomentazione di particolare chiarezza, ricorda allora che «l’obbligo previsto dall’art. 46 Cedu non può essere messo in discussione», e non è dunque condivisibile l’assunto dei giudici siciliani che «presuppone un margine di discrezionalità nell’esecuzione delle decisioni della Corte Edu».

Posta la necessità, per il giudice penale, di trovare uno strumento adeguato a dare seguito alla decisione europea, la Corte esclude nel caso di specie tanto la strada della revisione («non si verte in alcuna ipotesi di violazione delle regole del giusto processo e la decisione della Corte di Strasburgo, per la sua natura e per le ragioni su cui si fonda, non implica né appare superabile da alcuna rinnovazione di attività processuale o probatoria»), quanto quella della revoca della sentenza di condanna ex art. 673 cpp («non vi è alcuno spazio per revocare il giudicato di condanna presupposto, la cui eliminazione non è richiesta, né direttamente né indirettamente, dalla Corte Edu»). È, invece, nella disciplina della fase esecutiva e, in particolare, negli artt. 666 («Procedimento di esecuzione») e 670 («Questioni sul titolo esecutivo») cpp che la Corte individua il contesto ove collocare il necessario intervento di adeguamento alla decisione europea: «gli artt. 666 e 670 non possono che essere interpretati nel senso di consentire l’eliminazione degli effetti pregiudizievoli derivanti da una condanna emessa dal giudice italiano in violazione di una norma della Cedu, dovendosi ribadire che garante delle legalità della sentenza in fase esecutiva è il giudice dell’esecuzione, cui compete, se necessario, di ricondurre la decisione censurata ai canoni della legittimità». Sulla base di tale ragionamento, la Cassazione «dichiara ineseguibile e improduttiva di effetti penali» la sentenza definitiva di condanna emessa nei confronti di Bruno Contrada.

6. Conclusioni

Abbiamo ricostruito le vicende del tema qui oggetto di studio attraverso l’analisi di diversi leading case, perché si tratta di un tema dai caratteri squisitamente legati alle peculiarità del singolo caso concreto, e in relazione al quale ha rivestito quindi un ruolo predominante il formante giurisprudenziale.

In effetti, guardando in termini astratti alla questione degli effetti delle pronunce di Strasburgo sul giudicato penale, il principio di diritto ancora oggi pacificamente riconosciuto è già stato affermato, ormai quasi quindici anni fa, dalla Cassazione, nella prima occasione in cui i nostri giudici supremi si sono trovati a dover affrontare direttamente la questione. A far data almeno dalla sentenza Somogyi del 2004, è chiarissimo come il principio dell’intangibilità del giudicato risulti recessivo rispetto al dovere, per il giudice penale (come per tutti gli organi dello Stato), di dare piena e leale esecuzione alle decisioni assunte dalla Corte Edu. Il problema, come noto, è oggi quello di valutare gli effetti delle decisioni europee su casi diversi da quello deciso a Strasburgo, ma a questo assimilabili sotto il profilo della violazione riscontrata; ma che non possa produrre effetti una decisione definitiva reputata dai giudici europei lesiva dei diritti convenzionali, è conclusione di cui nessuno può seriamente dubitare.

Alla chiarezza del principio, si è tuttavia accompagnata sin dall’inizio, come abbiamo appena visto, la difficoltà di darne concreta applicazione: a seconda del peculiare tipo di violazione riscontrata dalla Corte Edu, può essere opportuno adottare uno piuttosto che un altro rimedio processuale. Se, ad esempio, per le violazioni legate alla natura contumaciale del procedimento sarà sufficiente riconoscere la rimessione nel termine, quando è stato riscontrato un vizio nella valutazione delle prove sarà necessario procedere con lo strumento della revisione convenzionale, introdotta dalla Corte costituzionale proprio per tale genere di situazioni; o invece, quando il tipo di intervento imposto dalla Corte Edu ha contenuto già del tutto predeterminato (ad esempio, sostituire una pena ritenuta incongrua con una di entità inferiore già stabilita anche nel quantum dalla Corte Edu), potrà soccorrere l’applicazione in via analogica del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto.

Il rimedio più idoneo sarà dunque da individuare in ragione del peculiare tipo di violazione accertata e del tipo di intervento richiesto per dare attuazione alla sentenza europea. Con la sentenza del 2017 sul caso Contrada, la Cassazione ha poi definitivamente chiuso il cerchio, individuando la soluzione di default quando nessuno dei possibili rimedi sia più, per qualsiasi ragione, percorribile nel caso concreto. In questi casi, sarà il giudice dell’esecuzione a dover eliminare gli effetti pregiudizievoli ancora derivanti dalla sentenza di condanna dichiarata lesiva dei diritti convenzionali, agendo in via residuale a chiusura del sistema di conformazione dell’ordinamento interno alle decisioni di Strasburgo.

Il meccanismo è, a questo punto, completo. Il ricorrente che ha visto riconosciute le proprie ragioni dalla Corte Edu ha a propria disposizione una serie di strumenti processuali che gli consentono, a seconda del tipo di violazione riscontrata, di paralizzare la sentenza definitiva di condanna in cui si sostanzia tale violazione; qualora tali strumenti non siano concretamente esperibili, può fare ricorso al giudice dell’esecuzione perché vengano comunque fatti cessare gli effetti pregiudizievoli della condanna.

Lo schema in cui inserire il problema è, quindi, ben delineato dalla giurisprudenza. Eppure, come abbiamo appena terminato di vedere, nel caso Contrada sono stati alla difesa necessari svariati tentativi perché infine la Cassazione, dopo l’ennesimo parere negativo dei giudici di merito, riconoscesse in limine litis la necessità di far cessare ogni residuo effetto di una decisione ritenuta dalla Corte Edu lesiva dei diritti convenzionali.

La vicenda Contrada è esemplare della possibilità che ancora oggi un giudice nazionale, posto di fronte alla necessità di dare esecuzione a una decisione della Corte Edu di cui non condivide le conclusioni, possa essere tentato di sostituire il proprio giudizio a quello della Corte europea, negando la sussistenza di una violazione che invece in sede europea è da considerarsi accertata in via definitiva. I giudici nisseni, nel provvedimento analizzato sopra, hanno svolto proprio questa operazione, “correggendo” la Corte europea, e negando la possibilità che per Contrada all’epoca dei fatti fosse imprevedibile la condanna poi inflittagli come concorrente esterno nell’associazione mafiosa.

In sede di legittimità, tuttavia, a questo palese tentativo di indebita sottrazione agli obblighi di esecuzione in sede interna delle decisioni europee, ha posto deciso rimedio la Cassazione con la sentenza che, come abbiamo visto sopra, ha chiuso il cerchio del sistema di adeguamento interno agli obblighi convenzionali in sede penale. Una sentenza della Corte Edu può essere legittimamente non condivisa da un giudice italiano, ma almeno sulla concreta vicenda oggetto di scrutinio a Strasburgo, una volta che la sentenza europea sia diventata definitiva, non vi è margine alcuno per il giudice interno di sottrarsi al dovere di esecuzione, facendo cessare gli effetti della sentenza interna ritenuta dalla Corte Edu (a torto o a ragione, ormai la questione non è più rilevante) lesiva dei diritti convenzionali. Lo Stato ha modo di far valere le proprie ragioni nel giudizio innanzi alla Corte Edu, ma, quando la decisione a Strasburgo è stata assunta, i suoi organi non possono opporre resistenza all’applicazione di una sentenza perché questa non li convince.

Ci pare, per finire, che proprio l’esito finale del caso Contrada consenta di pervenire alla conclusione che ormai la giurisprudenza (almeno di legittimità) abbia fatto proprio, senza incertezze, il principio per cui il giudicato penale di condanna deve cedere il passo di fronte a una sentenza della Corte Edu che ne accerta l’illegittimità. Tale principio è stato ribadito anche in un caso ove la decisione della Corte Edu risultava, per molti versi, discutibile, e ciò è la migliore conferma della sua stabilità. Potrà, poi, non essere semplice per il privato vincitore a Strasburgo individuare, a seconda della peculiare violazione riscontrata, lo strumento processuale più adeguato per dare esecuzione interna alla sentenza europea; ma le regole del sistema sono ormai chiare, e non lasciano zone d’ombra quanto al dovere di tutti gli organi dello Stato (e quindi anche dei giudici penali) di dare piena ed effettiva esecuzione in sede interna alle decisioni dei giudici europei.

[1] Per una sintetica, ma efficace ricognizione di tali questioni, cfr. per tutti il lavoro di F. Viganò, L’impatto della Cedu e dei suoi protocolli sul sistema penale italiano, in G. Ubertis e F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, Giappichelli, Torino, 2016, pp. 17 ss.; in argomento, cfr. anche il meno recente contributo di G. Ubertis, Diritti umani e mito del giudicato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, pp. 792 ss.

[2] Corte Edu [sez. II], Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004,§ 86: «La Cour estime que, lorsqu’elle conclut que la condamnation d’un requérant a été prononcée malgré l’existence d’une atteinte potentielle à son droit à participer à son procès, le redressement le plus approprié serait en principe de faire rejuger l’intéressé ou de rouvrir la procédure en temps utile et dans le respect des exigences de l’art. 6 de la Convention».

[3] Cass., sez. I pen., 12 luglio 2006, n. 32768, Somogyi, § 11: «In materia di violazione dei diritti umani (e in particolare in presenza di gravi violazioni del diritto di difesa), il giudice nazionale italiano (è) tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato».

[4] Ibid.: «L’argomento speso nell’ordinanza impugnata, secondo cui l’autorità del giudicato nazionale renderebbe inaccoglibile la richiesta di restitutio in integrum, è un argomento inconferente (…). Qualsiasi sentenza della Corte di Strasburgo che accerti una violazione dell’art. 6 Cedu posta in essere dall’autorità giudiziaria nazionale verrà sempre, inevitabilmente, fisiologicamente (e quindi “istituzionalmente”) a collidere con un giudicato nazionale. Ed è appena il caso di aggiungere che il principio di intangibilità del giudicato, nel nostro ordinamento giuridico, non è poi così assoluto (basti pensare all’istituto della revisione)».

[5] Nello stesso senso, per la rimessione in termini a seguito di sentenza di Strasburgo che aveva riscontrato delle illegittimità convenzionali nel processo contumaciale che aveva portato alla condanna del ricorrente, cfr. la coeva Cass., sez. V pen., 15 novembre 2006, n. 4395, Cat Berro.

[6] Corte Edu [sez. II], Drassich c. Italia, 11 dicembre 2007.Per un’analisi del principio iura novit curia nella giurisprudenza di Strasburgo, cfr. per tutti, anche per i necessari riferimenti bibliografici, il commento all’art. 6 di S. Buzzelli - R. Casiraghi - F. Cassibba - P. Concolino - L. Pressacco, in G. Ubertis e F. Viganò (a cura di), Corte di Strasburgo e giustizia penale, op. cit., pp. 178 ss.

[7] Cass., sez. VI pen., 12 novembre 2008, n. 45807, Drassich, § 3.3 del Considerato in diritto (per un commento fortemente critico, cfr. F. Zacchè, Cassazione e iura novit curia nel caso Drassich,in Dir. pen. proc., 2009, pp. 784 ss.).

[8] Ibid.

[9] Corte Edu [GC], Scoppola c. Italia (n. 2), 17 settembre 2009, § 154.

[10] Competente ai sensi dell’art. 32 Cedu, nella versione anteriore alle modifiche apportate con il Protocollo n. 11.

[11] Commissione europea diritti dell’uomo, sez. I, 9 settembre 1998, Dorigo c. Italia.

[12] Cass., sez. I pen., 1 dicembre 2006, n. 2800, Dorigo, § 8 del “considerato in diritto”.

[13] C. cost., n. 129/2008.

[14] C. cost., n. 113/2011.

[15] § 5 del Considerato in diritto. In particolare, per quanto riguarda il ricorso straordinario, la sentenza osserva come esso «risulti strutturalmente inidoneo ad assicurare la riapertura dei processi a fronte di violazioni che non si siano verificate nell’ambito del giudizio di cassazione», mentre la restituzione in termini «risulta utilizzabile – ed è stata di fatto utilizzata dalla giurisprudenza – unicamente per porre rimedio alle violazioni della Cedu collegate alla disciplina del processo contumaciale».

[16] Ibid.

[17] § 8 del Considerato in diritto.

[18] Corte Edu [sez. IV], Contrada c. Italia (n. 3),14 aprile 2015. Si veda, in proposito, la nota di S. Civello Conigliaro, La Corte Edu sul concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso: primissime osservazioni alla sentenza Contrada, in Dir. pen. cont., 4 maggio 2015, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/3883-la-corte-edu-sul-concorso-esterno-nell-associazione-di-tipo-mafioso-primissime-osservazioni-alla-se).

[19] Corte appello Caltanissetta, sez. I pen., 17 marzo 2016, n. 924. Si veda, in proposito, la nota di F. Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte Edu, in Dir. pen. cont., 26 aprile 2016, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/4660-il-caso-contrada-e-i-tormenti-dei-giudici-italiani-sulle-prime-ricadute-interne-di-una-scomoda-sent).

[20] La difesa di Contrada aveva, poi, proposto ricorso in Cassazione contro il provvedimento di rigetto, ricorso dichiarato inammissibile nel gennaio 2017 a seguito di rinuncia allo stesso.

[21] Per una specifica riflessione sugli effetti delle sentenze europee che accertano violazioni di natura sostanziale, cfr. G. Grasso e F. Giuffrida, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in Dir. pen. cont., 25 maggio 2015, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/3942-l-incidenza-sul-giudicato-interno-delle-sentenze-della-corte-europea-che-accertano-violazioni-attin).

[22] Cass., sez. II pen., 17 ottobre 2016, n. 43886.

[23] Corte appello Palermo, sez. I, ord. 11 ottobre 2016 (dep.24 ottobre 2016), n. 466. Si veda, in proposito, la nota di S. Bernardi, Continuano i “tormenti”’ dei giudici italiani sul caso contrada: la Corte d’appello di Palermo dichiara inammissibile l’incidente d’esecuzione proposto in attuazione del “’giudicato europeo”, in Dir. pen. cont.,n. 1/2017, pp. 233-236,disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/5071-continuano-i-tormenti-dei-giudici-italiani-sul-caso-contrada-la-corte-dappello-di-palermo-dichiara).

[24] Cass., sez. I pen., 20 settembre 2017, n. 43112. Si veda, in proposito, la nota di F. Viganò, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, in Dir. pen. cont.,n. 9/2017, pp. 173-177, disponibile online (www.penalecontemporaneo.it/d/5616-strasburgo-ha-deciso-la-causa-e-finita-la-cassazione-chiude-il-caso-contrada).