Magistratura democratica

La giurisprudenza Cedu tra progresso sociale e conservazione dello status quo

di Francesco Buffa
Il carattere generico delle disposizioni della Convenzione accresce il ruolo interpretativo e politico della Corte Edu, la cui attività rende la Convenzione un living instrument da adattare a una società in continua evoluzione. I risultati sono ambivalenti, operando la giurisprudenza della Corte – il cui processo decisionale appare, nei suoi diversi fattori, ancora da approfondire – come strumento di progresso sociale o, viceversa, di conservazione dello status quo.

1. Ambito interpretativo e ruolo politico della Corte

Le norme della Convenzione hanno spesso un carattere generico, affermando valori e principi su cui si registra un consenso unanime e indiscusso.

Diverso discorso va fatto quando, dalla generale affermazione della norma, si passa all’applicazione della stessa in riferimento a casi concreti, in vista della risoluzione di problemi specifici: qui le certezze si sgretolano e l’individuazione della regola del caso concreto appare più problematica.

Sia attraverso strumenti ermeneutici generali (quali l’affermazione del carattere autonomo dei concetti e degli istituti della Convenzione, ovvero l’affermazione del controllo europeo sul rispetto dei limiti al margine di apprezzamento riservato agli Stati) sia, soprattutto, attraverso un’opera di paziente adattamento dei principi convenzionali alle condizioni reali delle fattispecie emergenti nel giudizio avanti alla Corte Edu, quest’ultima è giunta a elaborare principi del tutto nuovi, che difficilmente possono ricavarsi dalla lettera della norma convenzionale, pur derivando dai principi sottesi alla Cedu e alla precedente giurisprudenza della Corte.

A tal proposito, si dice solitamente che la Convenzione è un living instrument, un insieme di norme che vivono nell’interpretazione che ne ha dato e ne dà la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Si tratta di un’operazione ermeneutica ormai consolidata, risalendo la sua prima affermazione al caso Golder del 1975, a partire dal quale la Corte di Strasburgo ha sistematicamente dichiarato di concepire la Convenzione come uno «strumento vivente di tutela dei diritti fondamentali», pertanto da interpretare in modo evolutivo, attento cioè ai tempi e ai contesti, e non tanto alla lettera delle disposizioni negoziate, come avviene per un qualsiasi trattato internazionale, la cui interpretazione è strettamente vincolata alla volontà espressa.

Quanto si dice evidenzia la componente creativa della giurisprudenza di Strasburgo: i suoi giudici sono assai lontani dal modello che li vede, in ossequio al tradizionale principio di separazione di poteri, mera «bouche de la loi», meri applicatori della Convenzione; la giurisprudenza della Corte Edu ha dunque un carattere in sé innovativo, essendo inevitabilmente collegata in modo indissolubile alla società europea e alla sua continua evoluzione.

Si è parlato, più in generale, di “infondatezza” dei diritti fondamentali, nel senso che essi non trovano fondamento espresso in fonti normative, ma nell’applicazione giurisprudenziale di principi generali fatta dalle corti[1].

I giudici, così, divengono gli interpreti delle istanze sociali, e in tal modo assicurano che la Corte possa tenere il passo dell’evoluzione della società nei Paesi europei.

Una giurisdizione che opera sulla base di principi fondamentali può, naturalmente, interpretare il suo ruolo in modo diverso, in chiave espansiva o restrittiva di tali diritti. Basti considerare le applicazioni fatte dalla Corte in relazione agli istituti e ai concetti della Convenzione e, per altro verso, alla dottrina del margine di apprezzamento.

Sotto il primo profilo, la Corte ha più volte affermato di interpretare le espressioni tecnico-giuridiche contenute nella Convenzione non alla stregua del diritto interno dello Stato di volta in volta interessato, ma in maniera autonoma (cd.principio di autonomia delle previsioni convenzionali).Le motivazioni sono chiare, in quantoritenere diversamente equivarrebbe a lasciare i legislatori nazionali arbitri della misura delle obbligazioni assunte dai rispettivi Stati nel quadro della Convenzione, il che sarebbe contrario all’oggetto e allo scopo di quest’ultima.

Meno chiaro è come l’autonomia della Corte si manifesti in concreto, ossia individuare quali fattori incidano sulle scelte della Corte nella precisazione dei concetti giuridici. Da una data interpretazione terminologica, infatti, discende l’estensione delle garanzie della Convenzione a certi settori, ovvero la loro esclusione: ad esempio, l’applicazione dei cd. criteri Engel sulle “accuse in materia penale” alle sanzioni irrogate dallo Stato comporta l’estensione di molti principi della Convenzione a sanzioni formalmente non qualificate come penali dai singoli ordinamenti (come sanzioni amministrative, contributive, fiscali, etc.), con effetti che possono essere dirompenti per i singoli ordinamenti nazionali e per gli stessi bilanci statali; al contrario, l’interpretazione autonoma della nozione di “diritto civile” può portare all’esclusione, per molti diritti patrimoniali, delle garanzie del giusto processo (si pensi alla materia tributaria).

In altri termini, con la sua interpretazione autonoma, la Corte modula l’estensione dell’ambito applicativo delle tutele convenzionali, scelta senza dubbio di tipo politico.

Sotto il secondo profilo, si è richiamata la dottrina del margine di apprezzamento.  Com’è noto, molte norme della Convenzione contengono delle clausole cd. di interferenza, ossia: mentre proteggono un diritto, consentono, in ipotesi tassative, un’interferenza statale che ne limiti il godimento a date condizioni (in sintesi, alla condizione che l’ingerenza sia: prevista dalla legge; per uno scopo legittimo e, se del caso, rientrante tra quelli previsti dalla norma convenzionale; necessaria in una società democratica, ossia proporzionata alla finalità che si prefigge).

Il riferimento al margine di apprezzamento porta con sé il rischio di un sistema di protezione dei diritti potenzialmente disomogeneo e “a geometria variabile”, a discapito di una applicazione uniforme (ed effettiva) del dettato convenzionale.

Per altro verso, se la valutazione dei contrapposti interessi è fatta in prima battuta dagli Stati, per il principio di sussidiarietà, il margine di apprezzamento degli Stati resta sottoposto al controllo europeo.

Come è evidente, il parametro che la Corte considera in tali casi è “esterno” rispetto alla Convenzione, essendo collegato al concetto di “società democratica” che non è più mutuato dalla norma convenzionale, né naturalmente dagli ordinamenti nazionali, ma che sembra assumere una sua identità autonoma proprio attraverso la continua modellazione che ne fa la giurisprudenza europea.

Il giudizio della Corte, soprattutto nell’ambito del proportionality test, si arricchisce allora di elementi di valutazione assai diversi: qui gli strumenti di controllo della Corte sono ben più penetranti rispetto a un mero controllo di “legittimità convenzionale” e interessano anche altri aspetti connessi, in relazione ai valori che si intendono tutelare.

Si tratta di un giudizio di carattere politico più che giuridico: quali principi, democrazia, legalità e proporzionalità conferiscono alle istituzioni nazionali (e, di riflesso, alla Corte in sede di controllo europeo) il compito di mediare tra interessi confliggenti, ciò che comporta operazioni difficili di bilanciamento di valori e complesse questioni riguardanti l’interesse collettivo.

2. Margine di apprezzamento ed european consensus

Un temperamento al relativismo interpretativo della Corte Edu deriva dall’european consensus, atteso che la Corte, nel limitare la discrezionalità degli Stati nell’operatività del margine di apprezzamento, richiama il consensus delle società democratiche europee: una sorta di communis opinio derivante dall’analisi comparativa, denominatore comune tra le varie legislazioni.

Tradizionalmente visto come strumento in grado di limitare il margine di apprezzamento che la Convenzione lascia agli Stati in certi ambiti, l’european consensus finisce con l’essere un elemento utile per orientare l’interpretazione della Cedu da parte della Corte, giungendo in tal modo a costituire esso stesso un parametro esterno, che limita la discrezionalità della Corte.

Come noto, l’applicazione della dottrina del consenso è inversamente proporzionale al margine di apprezzamento: se c’è omogeneità di disciplina, o anche talvolta solo una chiara tendenza tra gli Stati membri a regolare una certa questione in un determinato modo, tanto più si restringe il margine di apprezzamento di cui godono le autorità interne responsabili della denunciata violazione di un diritto protetto dalla Convenzione; se, per converso, non esiste un consensus standard, il margine di apprezzamento degli Stati si espande.

In sede di controllo europeo, la Corte Edu si fa interprete del consensus standard intorno al criterio utilizzato dallo Stato per giustificare l’interferenza, pervenendo all’individuazione dell’esistenza o meno del consensus, dell’entità e dei tratti specifici dello stesso attraverso la via di analisi di diritto comparato, che danno conto del diritto vivente negli Stati membri e riscontrano la sussistenza di standard omogenei di protezione dei diritti umani nei vari ordinamenti all’interno del sistema della Convenzione.

 

Questo approccio è coerente con il ruolo di armonizzazione di giurisprudenza della Corte Edu: infatti, una delle funzioni di primaria importanza della giurisprudenza consiste nel creare progressivamente un’applicazione armonica di protezione dei diritti umani, muovendo attraverso i confini nazionali degli Stati contraenti e permettendo agli individui nella loro giurisdizione di godere, senza discriminazione, di pari protezione – a prescindere dal loro luogo di residenza.

Tuttavia, il ruolo di armonizzazione conosce dei limiti, atteso che, ove gli ordinamenti europei differiscano notevolmente nel modo di proteggere (o non proteggere) gli individui contro comportamenti da parte dello Stato, e la presunta violazione della Convenzione riguardi un diritto relativo, che può essere bilanciato — in conformità con essa — nei confronti di altri diritti o interessi altrettanto degni di protezione in una società democratica, la Corte potrà considerare che gli Stati, a causa dell’assenza di un consenso europeo, hanno un margine di apprezzamento nel bilanciamento dei diritti in gioco.  

Anche tale operazione di “controllo europeo”, posta in essere dalla Corte, è influenzata da fattori extragiuridici. 

Prima di tutto, pesa il modo in cui il consensus è accertato, ciò che avviene solitamente attraverso sintetiche ricerche di diritto comparato svolte da giovani giuristi della Divisione ricerca della Corte (qui si fa rinvio alle relative pagine contenute in questo volume, che evidenziano, tra l’altro, le difficoltà pratiche per acquisire dati relativamente ad alcuni Paesi e, in generale, lo scarso ruolo dato nelle ricerche alla giurisprudenza, ricercandosi più il dato positivo che le sue elaborazioni giurisprudenziali).

Occorre, poi, vedere quanto dei risultati di quelle ricerche è in grado concretamente di orientare le decisioni della Corte. In proposito, si è detto che l’applicazione automatica del consensus, fondato su una maggioranza meramente numerica di discipline nazionali omogenee, potrebbe costringere il giudice europeo ad abdicare alla sua fondamentale funzione anti-maggioritaria di protezione delle minoranze, il che rende evidente la necessità che, in diversi casi, il criterio del consensus sia superato[2].

In secondo luogo, va sottolineato un aspetto assai importante: l’applicazione del principio del consenso e della dottrina del margine di apprezzamento implica, comunque, una difficile opera di bilanciamento tra esigenze contrapposte, nella quale la stessa pluralità dei criteri seguiti dalla Corte nell’esercizio del controllo europeo e, per altro verso, un certo grado di vaghezza giuridica dei criteri medesimi, amplificano le difficoltà e producono risultati non sempre coerenti e prevedibili.

Pesa sempre il rischio – oltre che di manipolazione dei parametri utilizzati quali strumenti di applicazione del diritto e di incidenza di valutazioni politiche nella scelta tra judicial activism e self-restraint dei giudici – di un’inevitabile mancanza di sicurezza giuridica e certezza normativa, in quello che è un procedimento pretorio non regolato da norme, ciò che implica uno spazio di manovra per gli Stati piuttosto ambiguo, che viene “manipolato” dalla Corte a seconda delle circostanze: quando intende ridurlo, la Corte valorizza l’european consensus; quando intende ampliarlo, la Corte valorizza la better position dei giudici nazionali.

La conciliazione dell’interpretazione uniforme della Cedu con un criterio di relatività che assicuri il rispetto delle diversità giuridiche, culturali e sociali dei Paesi membri della Cedu stessa non è, del resto, compito facile e definibile ex ante in modo definitivo, ma è opera inevitabilmente fluida, rimessa a successive precisazioni giurisprudenziali nell’interpretazione della Convenzione quale living instrument, da adattare a una società — o a una pluralità di modelli sociali — e a un diritto — o a una pluralità di sistemi giuridici — in continua evoluzione[3].

3. I fattori extragiuridici condizionanti il processo decisionale della Corte

Con riferimento al margine di apprezzamento degli Stati, le applicazioni dei richiamati principi sono tantissime in giurisprudenza e un esame delle sentenze della Corte consente di approfondire quale siano le linee del margine di apprezzamento riservate agli Stati (gli studi dottrinali sul tema sono innumerevoli[4]).

Meno studiato è il margine di apprezzamento (non degli Stati, ma) della stessa Corte, ossia l’ambito della discrezionalità (e i relativi fattori condizionanti) che guida il giudizio della Corte europea, in generale, nell’interpretazione della Convenzione e, in particolare, nell’applicazione delle clausole di interferenza[5].

A tal fine, entrano in gioco vari elementi, spesso estranei alla valutazione puramente giuridica delle fattispecie.

I fattori extragiuridici che incidono sul processo decisionale della Corte sono diversi, ricollegandosi sia alle persone dei giudici sia alla composizione dei collegi, ciò che moltiplica le variabili in gioco.

A monte, rileva il rapporto tra la Cancelleria e la Corte, e il peso sostanziale che hanno i giuristi della Cancelleria nella selezione dei casi rilevanti, nell’impostazione degli stessi e nella soluzione dei problemi giuridici.

Il problema è assai complesso, riguardando un sistema in cui il precedente giudiziario assume un peso notevole (e la Cancelleria rappresenta la “memoria storica” della giurisprudenza); inoltre, l’esame diretto del fascicolo è nella gran parte dei casi opera dei soli giuristi della Cancelleria e non anche dei giudici, sicché – sia per ragioni linguistiche, sia per ragioni di conoscenza dell’ordinamento interessato dal caso – l’impostazione stessa della causa (se non la decisione) vede nel Registry, se non un contropotere, certo un forte elemento condizionante le scelte dei giudici[6].

Un problema esiste proprio nel rapporto del giudice con i giuristi, che non sono come i referendari di altre Corti, ma sono in posizione più autonoma, sebbene – paradossalmente – le garanzie di indipendenza dei giudici non trovino alcuna applicazione con riferimento ai giuristi (che hanno solo le più blande garanzie dei funzionari pubblici e sono, per converso, inseriti in una struttura fortemente gerarchizzata).

Nel far rinvio, per una disamina del problema dei rapporti tra giudici e giuristi, ai contenuti specifici del presente volume, è sufficiente in questa sede aver evidenziato il ruolo della Cancelleria quale fattore condizionante le decisioni dei giudici.

Quanto agli altri fattori extragiuridici che incidono sul processo decisionale della Corte, come anticipato, essi si ricollegano, da un lato, alla personalità dei giudici e alla loro sensibilità, nonché alla loro formazione (il loro essere stati giudici, professori universitari o, ancora, avvocati) e provenienza geografica.

Due esempi possono aiutare a evidenziare la problematica.

Da un lato, in materia di espropriazione, mi vengono in mente i sottili distinguo della giurisprudenza italiana in ordine ai vari tipi di espropriazione (ordinaria, acquisitiva, usurpativa, etc.); sottili distinzioni che un giudice italiano (specie se proveniente dai ruoli delle magistrature) non può non considerare, essendo queste il presupposto di ogni ragionamento giuridico in ordine alla legittimazione della privazione della proprietà. Come spiegare queste distinzioni a un giudice della Corte (magari, in passato, legale di ong) proveniente da un Paese (ad esempio, senza andar lontano dall’Italia, l’Albania) nel quale il procedimento espropriativo ha interessato la maggior parte della popolazione, ricollegandosi alla nazionalizzazione delle terre? È questo un esempio di scuola di come l’estrazione professionale e la provenienza geografica dei giudici possnao rilevare (lo si dice in astratto, senza riferimento a singoli casi decisi o ai giudici effettivi della Corte) nel momento in cui bisogna applicare una norma (per restare nell’esempio, l’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1) che protegge genericamente la proprietà privata.

Ancora, l’esame della giurisprudenza della Corte autorizza, a volte, a pensare che il singolo Stato convenuto non sia una variabile indipendente e che incida, in qualche misura, nelle valutazioni della Corte, richiedendo questa standard di protezione non omogenei per i vari Stati.

Può farsi l’esempio del diverso modo di intendere la latitudine del margine di apprezzamento a seconda degli Stati, in considerazione delle peculiarità dei singoli ordinamenti interessati e della generale situazione di un Paese; oppure, si pensi alla tendenza, in alcuni casi, a considerare effettivo un rimedio interno sopravvenuto alla violazione (si veda il caso del ricorso costituzionale in Turchia nella decisione Mercan, espressione di una scelta – indubbiamente politica – della Corte di non interferire nelle vicende politiche interne, pur gravissime, di un Paese), tanto da derivarne l’inammissibilità sopravvenuta della domanda di protezione, laddove in altri casi, per altri Paesi e in altre situazioni politiche, il rimedio interno – che, magari, presenta ben più solide garanzie di tutela – è visto come ineffettivo.

In alcuni studi in materia[7], che hanno esaminato tutte le decisioni della Corte in un lunghissimo arco temporale, si è rilevato che i giudici provenienti dai Paesi ex-socialisti sono più propensi a votare contro il loro Stato rispetto a quanto facciano gli altri giudici dell’Ovest rispetto al loro Paese, e, in generale, che sono più propensi a votare per la violazione.

Per altro verso, si sono pure sottolineati i possibili effetti che la reputazione dello Stato contraente può giocare nel processo decisionale della Corte Edu, essendosi rilevato che agli Stati con bassa reputazione di protezione dei diritti umani (e, specie, per l’analogo livello di indipendenza giudiziaria e di democrazia) è riservato un trattamento più gravoso rispetto agli Stati membri con una reputazione più alta. Ciò, peraltro, è vero solo in parte, avendo ad esempio un Paese come l’Italia (provvista, in astratto, di buona reputazione, almeno secondo gli italiani) un numero tra i più elevati di condanne a opera della Corte Edu.

Sotto altri profili, rileva il tipo di diritto che viene in gioco, essendosi riscontrata una più diffusa tendenza a proteggere diritti in materia penale rispetto ai diritti socio-economici.

Occorre, inoltre – anche in rapporto al profilo già rilevato – sottolineare il ruolo delle mutevoli maggioranze nei collegi: basti ricordare, in proposito, tutti quei casi in cui i giudizi della camera (a sette giudici) e della Grande Camera (a diciassette giudici, di Paesi in gran parte diversi dai precedenti, come avviene normalmente nei casi di referral) hanno avuto un contenuto diametralmente opposto, sebbene la norma convenzionale invocata dalle parti fosse stata sempre la medesima.

Per l’Italia, si pensi al caso Giuliani e Gaggio, sulla morte di Carlo Giuliani negli scontri del G8 di Genova, e al caso Lautsi, sul crocifisso nelle scuole, casi definiti con sentenza di condanna in primo grado e di non violazione in Grande Camera.

La diversa composizione delle formazioni giudiziarie ha inciso sulla decisione?

A volte si dice che la Grande Camera è tradizionalmente più conservatrice, incline come tale a negare la violazione della Convenzione: secondo alcuni dati riportati dagli studi sopra citati, i casi ascoltati dalla Grande Camera hanno il 58% in meno di probabilità di trovare una violazione rispetto a quando una domanda è ascoltata da una camera inferiore.

Vari fattori rilevano in proposito. Intanto, la maggior cautela dei giudici della Grande Camera può spiegarsi in quanto essi siedono nella fase finale del processo giudiziario all’interno della Corte Edu; ciò può portare a invertire le decisioni della camera semplice quando questa sia andata troppo lontano nella tutela di un diritto e nell’accertamento di una violazione.

In secondo luogo, la maggiore esposizione mediatica del giudizio dinanzi alla Grande Camera (ove i casi son sempre trattati con solenne udienza pubblica, a differenza dei normali casi di Camera) può indurre a maggiore cautela.

Tali considerazioni, peraltro, sono smentite dall’esame di molti casi in cui le sentenze di Grande Camera hanno un forte ruolo progressivo e un grande impatto innovativo nella società.

La verità è che, anche per tali profili, scarsi o inesistenti sono gli studi dottrinali sul processo decisionale della Corte e sui fattori extragiuridici che lo possono, direttamente o indirettamente e in misura più o meno ampia, condizionare.

Insomma, l’ampio spazio interpretativo che la Convenzione lascia alla Corte è coperto attraverso una valutazione, necessariamente politica, dei contrapposti interessi in gioco, ma su tali aspetti incidono sia fattori giuridici sia altri, extragiuridici, ancora poco analizzati.

4. La giurisprudenza della Corte in pratica. Un ruolo prevalentemente progressivo. La tutela dei migranti

Se, una volta sottolineati i profili teorici, ci spostiamo a esaminare la giurisprudenza della Corte in pratica, si può invero riscontrare che la Corte ha svolto negli anni un ruolo politico prevalentemente progressivo, volto all’esaltazione delle forme di tutela dei diritti dell’uomo. Si segnalano, in particolare, le tante pronunce rese dalla Corte a tutela dei soggetti “deboli” (minori, omosessuali, transessuali, detenuti, disabili, stranieri, prostitute[8]) e le altrettante a protezione dei cittadini europei contro soggetti “forti”[9].

Per altro verso, fortemente espansivo delle tutele è l’approccio seguito nella decisione di tante questioni di bioetica[10].

Tra le molte sentenze, vi è spazio in questa sede solo per soffermarsi su una sentenza più di altre, e intendo qui richiamare la sentenza Hirsi Jamaa e altri c. Italia, ove emerge in tutta la sua attualità la portata del ruolo fortemente politico svolto dalla Corte Edu, in relazione alla questione della tutela dei migranti in alto mare, che è da tempo – e, ancor più, in tempi recenti – questione che divide l’intera Europa[11].

Nell’occasione, la Corte afferma i principi della Convenzione con forza tale da imporsi al di là degli stretti limiti di giurisdizione territoriale degli Stati e al di là di ogni accordo internazionale sottoscritto dallo Stato con Paesi terzi[12].

Il caso riguardava parte di un gruppo di circa duecento migranti che, nel 2009, avevano lasciato l’Africa a bordo di tre navi con l’obiettivo di raggiungere la costa italiana; intercettati in acque maltesi dalla Guardia costiera italiana, le persone furono trasferite su navi militari italiane e riportate a Tripoli. In conferenza stampa, il Ministro degli interni italiano dichiarò che le operazioni di intercettazione delle navi in ​​alto mare e di rimpatrio dei migranti in Libia erano conformi agli accordi bilaterali conclusi con la Libia.

Nella sentenza, resa il 23 febbraio 2012, la Corte ha dichiarato esservi stata violazione da parte dell’Italia degli artt. 3 e 4 del Protocollo n. 4 alla Convenzione.

In particolare, la Corte ha sottolineato gli obblighi degli Stati derivanti dalla legge internazionale sui rifugiati, incluso il “principio di non respingimento”, anch’esso sancito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e ha rilevato che non era stato fatto alcun esame delle posizioni individuali dei migranti né alcuna distinzione tra migranti irregolari e richiedenti asilo, che gli stessi erano stati arrestati e detenuti in condizioni che gli osservatori avevano descritto come «disumane», riferendo, in particolare, casi di tortura. Inoltre, la Corte ha rilevato che quando i ricorrenti erano stati trasferiti in Libia, le autorità italiane avrebbero dovuto sapere che non vi erano garanzie sufficienti a proteggerle dal rischio di essere restituite arbitrariamente ai loro rispettivi Paesi di origine.

Tra i tanti principi affermati, si sottolineano i seguenti.

Ad avviso della Corte, sin dalla salita a bordo delle navi delle forze armate italiane, i ricorrenti si sono trovati sotto il controllo continuo ed esclusivo, tanto de jure quanto de facto, delle autorità italiane.

Secondo la giurisprudenza della Corte, gli Stati contraenti hanno il diritto di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non residenti; tuttavia, l’espulsione, l’estradizione e ogni altra misura di allontanamento di uno straniero da parte di uno Stato contraente possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato in questione ai sensi della Convenzione, ove sia sollevato un problema sotto il profilo dell’art. 3, quindi, quando esistano motivi seri e accertati per ritenere che l’interessato, se espulso verso il Paese di destinazione, vi correrà il rischio reale di essere sottoposto a un trattamento inumano o degradante. In questo caso, l’art. 3 implica l’obbligo di non espellere la persona verso quel Paese.

Il principio è stato poi ribadito e specificato più di recente nel caso Sharifi e altri contro Italia e Grecia, del 21 ottobre 2014 (riguardante alcuni afghani entrati illegalmente in Italia dalla Grecia e, quindi, riportati in Grecia in applicazione del Regolamento di Dublino, nonostante il rischio di una successiva espulsione nei loro rispettivi Paesi di origine, con l’ulteriore rischio di morte, tortura o trattamento inumano o degradante), ove la Corte ha ribadito che le regole del cd. “sistema Dublino (III)” – che servono a determinare quale Stato membro dell’Unione europea sia competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri dal cittadino di un Paese terzo – devono essere applicate in modo compatibile con la Convenzione, con esclusione di respingimenti collettivi e indiscriminati.

Qui, indubbiamente, la Corte va oltre il sistema desumibile dalle sole regole condivise sull’asilo e dal comportamento (quindi, dal consensus) degli Stati in materia, affermando la necessità del rispetto della Convenzione al di là di dette regole e principi.

Tornando alla sentenza Hirsi, per la Corte – invitata per la prima volta a verificare se l’art. 4 del Protocollo n. 4 e il relativo divieto di «espulsioni collettive di stranieri» si applicassero a un caso che riguardava l’espulsione di stranieri in un altro Stato effettuata fuori dal territorio nazionale – la natura speciale dell’ambiente marittimo non poteva giustificare uno spazio al di fuori della legge in cui le persone non fossero coperte da nessun sistema legale in grado di offrire loro il godimento dei diritti e delle garanzie tutelati dalla Convenzione, tanto più ove uno Stato contraente avesse comunque esercitato la propria giurisdizione al di fuori del suo territorio nazionale.

Nel merito, la Corte ha rilevato che il trasferimento dei ricorrenti verso la Libia era stato eseguito in assenza di qualsiasi forma di esame della situazione individuale di ciascun ricorrente, essendo indubbio che i ricorrenti non erano stati oggetto di alcuna procedura di identificazione da parte delle autorità italiane, che si erano limitate a far salire tutti i migranti intercettati sulle navi militari e a sbarcarli sulle coste libiche.

Inoltre, la Corte ha osservato che il personale a bordo delle navi militari non aveva la formazione necessaria per condurre colloqui individuali e non era assistito da interpreti e consulenti giuridici.

La Corte ha statuito poi che l’Italia non poteva liberarsi della sua responsabilità invocando gli obblighi derivanti da accordi internazionali (nel caso, con la Libia), in quanto gli Stati membri rimangono responsabili anche quando essi abbiano assunto impegni derivanti da trattati (PrincipeHans-Adam II di Liechtenstein c. Germania, Al-Saadoon e Mufdhi c. Regno Unito).

Quanto detto è bastato alla Corte per escludere l’esistenza di garanzie sufficienti (che attestassero che la situazione individuale di ciascuna delle persone interessate fosse stata presa in considerazione in maniera reale e differenziata) e per affermare che l’espulsione dei richiedenti era stata di natura collettiva, in violazione dell’art. 4 del Protocollo n. 4[13].

4. L’european consensus come strumento di conservazione dello status quo. La tutela dei detenuti

Altre volte, l’assenza di un european consensus in ordine alla tutela di certi diritti fa sì che la Corte si arresti nella sua attività di riconoscimento e protezione dei diritti umani, limitandosi a riconoscere la legittimità delle azioni degli Stati in ragione dell’ampio margine di apprezzamento goduto in materia.

Anche qui, a ben vedere, la Corte opera una scelta politica, privilegiando una soluzione conservatrice dello status quo; che si tratti di scelta politica e non di mera applicazione di principi giuridici emerge, in modo evidente, dai casi in cui la Corte legge in modo diverso il consenso europeo, pervenendo nella stessa vicenda a esiti opposti nel giudizio della camera e, poi, della Grande Camera, come nel caso Lautsi.

Secondo la sentenza di camera del 3 settembre 1999, il pluralismo educativo era essenziale per la conservazione della «società democratica» e lo Stato aveva il dovere di mantenere la neutralità confessionale nell’istruzione pubblica, la quale aveva il compito di cercare di inculcare negli alunni l’abitudine al pensiero critico.

Il giudizio è ribaltato nella sentenza di Grande Camera, ove si afferma espressamente che il fatto che non vi sia consenso europeo sulla questione della presenza di simboli religiosi nelle scuole statali consente un ampio margine di valutazione dello Stato circa la presenza dei crocifissi nelle aule delle scuole statali.

Premesso quanto sopra, mi sembra opportuno richiamare, tra i tanti, un caso in cui la mancanza di consensus negli ordinamenti nazionali ha frenato la Corte nel riconoscimento di nuove istanze (nella specie, rispettivamente, la tutela del lavoro carcerario e, dall’altro lato, la funzione rieducativa della pena e il reinserimento dei condannati nella società civile all’esito della espiazione). Si tratta dei casi Stummer c. Austria e Boulois c. Lussemburgo, decisi entrambi dalla Grande Camera – rispettivamente – nel 2011 e 2012.

Occorre premettere che, secondo la giurisprudenza della Corte, i detenuti continuano a godere di tutti i diritti e le libertà garantiti dalla Convenzione, con l’eccezione del diritto alla libertà personale. D’altra parte, nella stessa giurisprudenza della Corte c’è un’evoluzione che mostra una tendenza a una maggiore protezione dei diritti dei prigionieri. Non mi riferisco solo alle condizioni di detenzione e trattamento dei detenuti (Kalashnikov c. Russia; Sulejmanovic c. Italia; Saadi c. Italia; Kudla c. Polonia; Torreggiani c. Italia), ma ai loro diritti civili e politici.

Ricordo, a questo proposito: il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia (Hamer c. Regno Unito); il diritto di mantenere i diritti dei genitori nell’interesse superiore del minore (Sabon c. Regno Unito); la possibilità per il detenuto di accedere a internet e la legittimità del rifiuto delle autorità carcerarie (Jankosvskis c. Lituania); il divieto a lungo termine di visite familiari per gli ergastolani (Khoroshenko c. Russia); il diritto del detenuto all’inseminazione artificiale (Dickson +1 c. Regno Unito) e alle visite coniugali estese e incontrollate (Aliev c. Ucraina, che tutavia vi dà soluzione negativa).

In questo contesto, di progressivo ampliamento dei diritti dei detenuti, vanno inquadrate le due pronunce della Grande Camera Stummer c. Austria e Boulois c Lussemburgo.

Nella prima, la Corte doveva occuparsi della questione se la prestazione di lavoro penitenziario senza diritto a contribuzione pensionistica fosse “normale” ai sensi dell’art. 4 della Convenzione (articolo che esclude dal divieto di lavoro obbligatorio il lavoro “ordinario” prestato in carcere) e legittimo in relazione agli artt. 14 (e al relativo divieto di discriminazione) e 1 Protocollo n. 1.

Nel caso in oggetto, è la stessa Corte  a rilevare un trend in materia con una crescente protezione dei diritti dei detenuti lavoratori e la loro tendenziale equiparazione ai lavoratori ordinari, anche per gli aspetti previdenziali: contrariamente a quelle del 1987, le Regole penitenziarie europee del 2006 non solo contengono il principio della normalizzazione del lavoro carcerario, ma raccomandano anche esplicitamente nella Regola 26.17 che «per quanto possibile i detenuti che lavorano devono essere inclusi nei sistemi di sicurezza sociale nazionali».

Sul piano teorico, del resto, i giuslavoristi sottolineano che, per ciò che non attiene strettamente all’esecuzione della pena, e dunque sul piano dello scambio della prestazione come su quello della tutela previdenziale, il lavoro dei detenuti va equiparato a quello ordinario.
Tuttavia, la Corte ritiene necessario attribuire rilevanza al tipo specifico di tutela richiesta e a tal fine rileva, sulla scorta di studio della Divisione ricerca della Corte, che, mentre una maggioranza assoluta degli Stati membri del Consiglio d’Europa fornisce ai detenuti un qualche tipo di sicurezza sociale, solo una minoranza li include nel sistema pensionistico di vecchiaia, e alcuni Stati danno loro solo la possibilità di versare contributi volontari. Manca un european consensus in materia, dunque, per quanto attiene ai contributi previdenziali.

Da qui l’affermazione (par. 106), invero non scontata e per nulla necessitata dalle premesse, che «è quindi solo gradualmente che le società si stanno muovendo verso l’affiliazione dei detenuti ai loro sistemi di sicurezza sociale, in generale, e ai loro sistemi pensionistici di vecchiaia, in particolare» e che tale gradualità, in sostanza, consente di ritenere legittime le previsioni che riconoscono una tutela sociale minima (come la sola indennità di disoccupazione in Austria), rientrando tali previsioni nel margine di apprezzamento degli Stati. Ne consegue che non vi è stata violazione delle norme invocate, affermandosi in sintesi che il lavoro senza contributi previdenziali è un lavoro compatibile con la Convenzione[14].

Nel secondo caso, la Grande Camera era chiamata a verificare la portata del congedo penale del detenuto, richiesto per lo svolgimento di formalità amministrative, per il rinnovo di documenti (quali la patente di guida e altri), per iscriversi a corsi per ottenere un diploma (nella specie, di ragioniere), per il compimento di altre attività necessarie per iniziare a riorganizzarsi nella vita post-carceraria, per regolare i propri rapporti bancari e adempiere ai vari debiti.

Nella sua sentenza del 2010, la camera singola aveva ritenuto che si verteva nella materia dei diritti ai sensi dell’articolo 6, par. 1, Cedu, atteso che la restrizione lamentata dal detenuto, oltre alle sue implicazioni pecuniarie, riguardava i suoi diritti personali, in considerazione del significato del suo interesse per il reinserimento nella società. Secondo la sentenza, c’era stata una violazione dell’art. 6 Cedu, sulla base del fatto che la Commissione penitenziaria che aveva negato i diritti non aveva soddisfatto i requisiti di un «tribunale» ai sensi della detta norma.

La Grande Camera esclude, invece, l’applicabilità dell’art. 6.

Secondo la decisione, infatti, benché la Corte abbia riconosciuto lo scopo legittimo di una politica di progressivo reinserimento sociale delle persone condannate alla reclusione, né la Convenzione né i Protocolli di quest’ultima hanno espressamente previsto il diritto al congedo in carcere. Inoltre, sottolinea la Corte, tra gli Stati membri non esiste consenso riguardo al permesso e alle modalità di concessione, atteso che in alcuni Paesi l’autorità è obbligata a concedere il congedo una volta soddisfatte le condizioni statutarie, mentre in altri gode della più ampia discrezionalità in materia. Allo stesso modo, non tutti gli Stati offrono vie di ricorso contro le decisioni che rifiutano il congedo in carcere.

La Grande Camera, da un lato, richiama l’esigenza di reinserimento dei detenuti precisando di avere, in più occasioni «recognised the legitimate aim of a policy of progressive social reintegration of persons sentenced to imprisonment» (e richiamando le sentenze Mastromatteo c. Italia; Maiorano er altri c. Italia; Schemkamper c. Francia); dall’altro, però, nello smarcarsi dal proprio precedente di camera, la sentenza richiama la mancanza di consensus per legittimare il rifiuto del congedo al detenuto che, in pratica, a quel reinserimento nella società era in concreto (e senza che vi fossero particolari rischi) finalizzato.

[1]  Sul nuovo ruolo del giudice nell’applicazione dei principi giuridici nell’attività giurisdizionale, N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Giuffrè, Milano, 2017.

[2] In tema, si veda G. Raimondi, La controversa nozione di Consensus e le recenti tendenze della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in riferimento agli articoli 8 – 11 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, conferenza sul tema «La corte europea dei diritti dell’uomo: il meccanismo di decisione della Cedu ed i criteri di interpretazione conforme alla Convenzione europea», Csm, formazione decentrata, Palazzo di giustizia di Milano, 11 gennaio 2013.

[3] F. Donati e P. Milazzo, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, atti del seminario «La Corte costituzionale e le Corti d’Europa», Copanello, 31 maggio – 1° giugno 2002, in Aic, http://archivio.rivistaaic.it/materiali/convegni/copanello020531/donatimilazzo.html.

[4] Per le linee generali dell’istituto e la storia delle sue origini, si vedano: E. Brems, The Margin of Appreciation Doctrine in the Case-Law of the European Court of Human Rights, in Zeitschrift für ausländisches öffentliches recht und völkerrecht, vol. 56, 1996, pp.  240-314 (www.zaoerv.de/56_1996/56_1996_1_2_a_240_314.pdf); R. St. J. MacDonald, The Margin of Appreciation in the Jurisprudence of the European Court of Human Rights, in Aa. Vv., Il diritto internazionale al tempo della sua codificazione. Studi in onore di Roberto Ago, vol. III, Giuffrè, Milano, 1987, pp. 187-208; H.C. Yourow, The Margin of Appreciation Doctrine in the Dynamics of European Human Rights Jurisprudence, L’Aia, Boston, Londra, Kluwer Law International, L’Aia-Boston-Londra, 1996; J. Callewert, Quel avenir pour la marge d’appréciation?, in P. Mahoney-F. Matscher-H. Petzold-L. Wildhaber (a cura di), Protecting Human Rights: The European Perspective. Studies in memory of Rolv Ryssdal, Carl Heymanns Verlag, Colonia-Berlino-Bonn-Monaco, 2000, pp. 147-166; D. Spielmann, Allowing The Right Margin: the European Court of Human Rights and the National Margin of Appreciation Doctrine - Waiver or Subsidiarity of European Review?, working paper, «Centre for european legal studies», Università di Cambridge, febbraio 2012 ; F. Tulkens e L. Donnay, L’usage de la marge d’appréciation par la Cour européenne des droits de l’homme. Paravent juridique superflu ou mécanisme indispensable par nature?,in Revue de science criminelle et de droit pénal comparé, n. 1/2006, pp. 3-23; P. Lambert, Marge nationale d’appréciation et contrôle de proportionnalité, in F. Sudre (a cura di), L’interprétation de la Convention européenne des droits de l’homme, Bruylant, Bruxelles, 1998, pp. 63-89.

[5] Interessanti osservazioni sul tema in D. Spielmann, En jouant sur les marges. La Cour européenne des droits de l’homme et la théorie de la marge d’appréciation nationale : Abandon ou subsidiarité du contrôle européen ?, in Actes de la section des sciences morales et politiques «La Liberté», «Institut Grand-Ducal», Università di Lussemburgo, vol. XIII, 2010, pp. 203-255.

[6] Pratiche considerazioni in tema sono svolte da M. De Salvia, che parla di «opacità del processo decisionale»: I referendari, in S. Bartole - B. Conforti - G. Raimondi (a cura di), Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, CEDAM, Padova, 2001.

[7] C. Yankle Allyson, Model Behavior: Considering Judicial Decision-Making at the European Court of Human Rights, working paper presentato in occasione dell’«ASIL Midyear Research Forum» del 2017. Uno studio del processo decisionale della Corte è anche in S. Dothan, Judicial Tactics in the European Court of Human Rights, in Chicago journal of international law, vol. 12, n. 1/2001, pp. 115-142. Riferimenti di analisi statistica utili per la valutazione del decision making process sono in E. Voeten, The Politics of International Judicial Appointments: Evidence from the European Court of Human Rights, in International Organization,vol. 61, n. 4/2007, pp. 669-701.

[8] Si vedano, tra le altre, per rimanere ai soli casi contro l’Italia, le sentenze S.H., Oliari, nonché la recentissima S.V., del 1° ottobre 2018; si richiama, per la sua importanza, la sentenza Centro per le risorse giuridiche per conto di Valentin Câmpeanu c. Romania, deciso dalla Grande Camera il 17 17luglio 2014, e in proposito si fa rinvio, in questo volume, al capitolo sui disabili (n. 62).

[9] Si veda, tra le altre, la sentenza Calvelli e Giglio c. Italia, in tema di medical negligence. In dottrina, si veda D. Tatu, Medical negligence in the case law of the European Court of Human Rights (collana «Il diritto in Europa oggi»), Vicalvi (FR), 2018.

In tema di maltrattamenti e torture inflitte da forze di polizia, poi, si richiamano le sentenze Cestaro e Bartesaghi Gallo e altri c. Italia, con nota di chi scrive, La Cedu e la Diaz 2.0, in Questione Giustizia on line del 26/6/2017, www.questionegiustizia.it/articolo/la-cedu-e-la-diaz-2_0_26-06-2017.php.

[10] Si pensi alle sentenze Godelli c. Italia e Odièvre c. Francia sul diritto a conoscere le proprie origini, alle sentenze Goodwin c. Regno Unito, H. c. Finlandia, nonché X, Y e Z c. Regno Unito sui diritti dei transessuali, alle sentenze Oliari e altri e Orlandi e altri c. Italia sulle unioni civili omosessuali, alle sentenze Mennesson c. Francia e Paradiso e Campanelli c. Italia sul cd. “utero surrogato”, alle sentenze X c. Austria e Gas e Dubois c. Francia sulla step child adoption, alla sentenza Lambert c. Francia sul fine vita.

[11] In tema, L. Ferrajoli, La questione migranti: Italia incivile, Europa incivile, in corso di pubblicazione, nonché A. Leogrande, Il naufragio. Morte nel Mediterraneo, Feltrinelli, Milano, 2011 e Id., La frontiera, Feltrinelli, Milano, 2015.

[12] Per un esempio di self restraint della Corte in materia di immigrazione, invece, si richiama quanto riferito nel capitolo sulle ong (n. 32), in ordine alla ritenuta inammissibilità della loro richiesta di interim measures, in difetto di potere rappresentativo espressamente conferito dai migranti trattenuti su navi di soccorso.

[13] Sull’argomento, si richiama la raccolta di interventi (atti del seminario) Dialogue between judges. Non-refoulement as a principle of international law and the role of the judiciary in its implementation, Strasburgo, 27 gennaio 2017 (www.echr.coe.int/Documents/Dialogue_2017_ENG.pdf).

[14] I. Leijten, Stummer v. Austria: gradually moving towards a right to an old-age pension for working prisoners?, in Strasbourg observers, 3 ottobre 2011, disponibile online (https://strasbourgobservers.com/2011/10/03/stummer-v-austria-gradually-moving-towards-a-right-to-an-old-age-pension-for-working-prisoners/).