Magistratura democratica

Le principali decisioni della Corte in materia penale verso l’Italia

di Daniela Cardamone
Attraverso una sintetica rassegna di alcune delle principali sentenze e decisioni più recenti della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia penale nei confronti dell’Italia, ci si propone di individuare gli eventuali profili di criticità, i risvolti applicativi e le possibili linee evolutive della giurisprudenza della Corte Edu.

1. Oralità e immediatezza: deroghe e conseguenze

La Corte europea dei diritti dell’uomo non impone un modello processuale e afferma che gli Stati hanno la più ampia discrezionalità per quanto riguarda la scelta dei mezzi mediante i quali assicurare che i loro rispettivi sistemi giuridici siano conformi ai requisiti richiesti dall’art. 6 della Convenzione, al tempo stesso preservando l’efficienza e la celerità delle procedure. Pur consapevole, quindi, che il modello ideale è quello in cui la prova si forma nel contradditorio tra le parti, nell’ambito di un processo orale e pubblico nel quale l’imputato possa difendersi di persona, la Corte Edu ammette, a determinate condizioni, delle deroghe a tali principi purché la procedura, nel suo complesso, sia equa e rispettosa del principio di “parità delle armi”. Il principio del contraddittorio e di oralità nella formazione della prova va, infatti, conciliato con quello della ragionevole durata e con l’esigenza di assicurare anche la tutela delle vittime dei reati e una corretta ed efficace amministrazione della giustizia.

1.1. Utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali

In quest’ottica, la Corte di Strasburgo si è ripetutamente pronunciata in merito a quelle deroghe all’oralità e immediatezza che, nel nostro sistema e a determinate condizioni, consentono di superare l’inutilizzabilità cd. “fisiologica” degli atti d’indagine e, più in generale, di tutte le dichiarazioni assunte senza la partecipazione difensiva.

In tema di diritto a esaminare i testimoni a carico, espressamente riconosciuto a ogni «persona accusata» dall’art. 6, par. 3, lett. d, Cedu, la Corte di Strasburgo ha adottato un approccio concreto, che tiene conto della procedura nel suo complesso. Così, pur ammettendo che il modello processuale ideale sia quello in cui l’imputato ha la possibilità, al momento della deposizione o successivamente, di controinterrogare il testimone che lo accusa, la Corte consente che, in circostanze particolari, la prova della colpevolezza possa fondarsi anche su fonti dichiarative non sottoposte al vaglio dibattimentale[1].

Oggetto di scrutinio da parte della Corte di Strasburgo sono stati sia gli artt. 513 e 512-bis cpp[2] sia l’art. 512 cpp[3], in molteplici sentenze nelle quali la Corte ha ribadito, a più riprese, il principio secondo cui le deroghe all’oralità e all’immediatezza sono incompatibili con la Convenzione se la condanna dell’imputato si è fondata «essenzialmente o in misura determinante» sulle affermazioni sottratte al vaglio dibattimentale[4].

I problemi di compatibilità di tali eccezioni all’oralità e all’immediatezza con l’art. 6 Cedu non sono stati superati dalla riforma costituzionale dell’art. 111 Cost., che, tra le possibili deroghe al principio di formazione della prova nel dibattimento, introduce anche il criterio della accertata «impossibilità di natura oggettiva», consacrato nella discussa norma dell’art. 512 cpp. La problematicità della norma alla luce dei parametri convenzionali appare evidente in quanto essa consente, qualora sopraggiunga una causa oggettiva, imprevedibile e insuperabile che impedisce l’esame e non sia possibile ricondurre tale causa a una “libera scelta” del testimone, di acquisire al fascicolo del dibattimento le dichiarazioni pre-dibattimentali e, quindi, di utilizzarle ai fini di prova della colpevolezza dell’imputato.

Nel recente caso Ben Moumen c. Italia[5], la Corte ha ritenuto che non vi fosse stata violazione perché la deposizione del teste assente non era stata determinante (vi erano, infatti, anche le dichiarazioni della vittima della violenza sessuale assunte in sede di incidente probatorio) ed era corroborata da altri elementi di carattere indiziario. In definitiva, il processo era risultato equo in base a una valutazione della procedura nel suo complesso, tenendo conto degli effettivi svantaggi subiti dall’imputato e dei meccanismi compensatori delle garanzie offerte dall’ordinamento.

Invece, nella sentenza Cafagna c. Italia[6], la Corte ha affermato, diversamente da quanto ritenuto dalle giurisdizioni interne, che le dichiarazioni della persona offesa acquisite ex art. 512 cpp erano state l’unica prova della colpevolezza (par. 48) e che le giurisdizioni interne non si erano adeguatamente adoperate per assicurare la presenza del teste al processo (par. 45), non giudicando quindi sufficienti neanche le ricerche che del soggetto erano state effettuate, in quanto latitante perché condannato in altro procedimento penale[7].

Il problema della compatibilità convenzionale dell’art. 512 cpp permane ancora oggi perché, diversamente da quanto richiesto dal diritto interno, ai fini del rispetto delle garanzie stabilite dalla Convenzione rilevano non tanto le ragioni che hanno determinato l’impossibilità di escutere il teste nel dibattimento[8], quanto la valenza probatoria – determinante o meno – delle dichiarazioni del testimone assente o rinunciante.

Si tratta di un punto critico perché la valutazione della Corte sulla valenza probatoria, “determinante” o meno, di una testimonianza rischia di sconfinare sul terreno della valutazione della prova, prerogativa delle giurisdizioni interne. Infatti, solo nei casi in cui la prova della colpevolezza sia fondata su un’unica testimonianza senza ulteriori elementi di riscontro, o in quelli in cui sussista una molteplicità di fonti dichiarative, il carattere “determinante” o meno della prova orale emerge con evidenza. In tutti gli altri casi in cui, invece, la dichiarazione testimoniale sia riscontrata da altri elementi di prova, è evidente che questi ultimi contribuiscono a fondare il giudizio di colpevolezza formulato dai giudici interni. Conseguentemente, residuando uno spazio valutativo, il giudizio della Corte Edu può sovrapporsi alla valutazione della prova fatta dalle giurisdizioni nazionali e assumere i connotati di una quarta istanza.

Un altro aspetto problematico, ben evidenziato nell’opinione dissenziente del giudice Wojtyczek allegata alla sentenza Cafagna, è che l’equità di una procedura penale andrebbe valutata tenendo conto delle caratteristiche peculiari e dei principi fondamentali che caratterizzano il sistema processuale di riferimento. Non sarebbe del tutto corretto, dunque, esaminare l’equità del sistema processuale penale italiano alla luce dei principi generali fissati tenendo conto delle caratteristiche di un sistema, come quello britannico, caratterizzato da un «ruolo limitato del giudice»[9]. Come afferma il giudice Wojtyczek, infatti, tali principi sono difficilmente applicabili a sistemi processuali caratterizzati, come quello italiano, da un ruolo attivo del giudice, il quale può essere elemento idoneo a compensare talune forme di disparità delle armi tra le parti.

1.2. Trial in absentia: dalla contumacia all’assenza

Nel sistema processuale italiano, la partecipazione dell’imputato al processo penale è intesa quale estrinsecazione di una libera scelta difensiva, espressione del diritto di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione, in linea con la piena tutela accordata dal nostro codice al diritto al silenzio. La Corte di Strasburgo, consapevole che i Paesi europei adottano diversi approcci nei confronti del trial in absentia, in diversi casi ha affermato che il procedimento che si svolge in assenza dell’imputato non è, in linea di principio, incompatibile con la Convenzione, purché questi abbia rinunciato al suo diritto di essere presente in modo univoco[10] o abbia deciso inequivocabilmente di sottrarsi al processo[11].

Ciò comporta, in primo luogo, che l’autorità giudiziaria interna dimostri che l’imputato effettivamente sia a conoscenza del procedimento nei suoi confronti e che, qualora sussistano dubbi su tale effettiva conoscenza, sia garantita a quest’ultimo la possibilità di un nuovo processo penale[12].

Il processo contumaciale è stato oggetto di plurime condanne nei confronti dell’Italia[15], nella quale si afferma che il legislatore italiano, mediante le modifiche dell’art. 175 cpp del 2005[16], ha sopperito ad alcune delle criticità in passato censurate e che sarebbe necessario attendere l’interpretazione giurisprudenziale della norma così come modificata. Dunque, il sistema dei rimedi interni per il condannato in contumacia ha continuato a essere oggetto di valutazione da parte della Corte di Strasburgo anche dopo le modifiche normative del 2005. Ciò anche alla luce della sentenza delle sezioni unite della Cassazione del 2008 (caso Huzunenau)[17] che aveva dato prevalenza al principio di unità dell’impugnazione, considerando esaurita la facoltà di impugnare del contumace, qualora il difensore avesse già fatto uso della scelta ex art. 571, comma 3, cpp – principio censurato dalla Corte di Strasburgo proprio nel caso introdotto dal medesimo ricorrente[18].

L’approccio sul punto è mutato con la sentenza della Corte costituzionale n. 317 del 2009[19], la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, cpp nella parte in cui non consente la restituzione nel termine dell’imputato che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento al fine di proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato. Ne è scaturito un giudizio positivo della Corte di Strasburgo che, nel recente caso Baratta c. Italia[20], ha ritenuto che il ricorrente non fosse più vittima, avendo potuto ottenere la rimessione nel termine per fare appello e la celebrazione di un nuovo processo, anche alla luce dei principi fissati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 317 del 2009. Residuava, però, la violazione dell’art. 5 Cedu, con riferimento alla detenzione nel frattempo subita in esecuzione della condanna in absentia, non essendo il rimedio di cui all’art. 314 cpp esperibile in caso di condanna.

La giurisprudenza europea in tema di processo in contumacia ha avuto il pregio di porre l’accento sull’aspetto cruciale della rigorosa verifica della conoscenza effettiva del procedimento e, quindi, della volontà inequivoca dell’imputato di non voler presenziare.

La riforma del 2014[21], con l’abrogazione dell’istituto della contumacia e l’introduzione dell’istituto dell’assenza, è stata l’epilogo del pressante impulso di questa giurisprudenza ed è incentrata su alcuni principi cardine: la previsione di casi nei quali la conoscenza effettiva del procedimento può presumersi, l’introduzione di rimedi di carattere restitutorio nel caso in cui l’imputato dimostri di non aver avuto conoscenza effettiva del procedimento per cause a lui non imputabili e la sospensione del procedimento per gli irreperibili. Il sistema si fonda sul rigoroso accertamento della volontarietà di sottrarsi al procedimento, la quale presuppone necessariamente la conoscenza effettiva dello stesso. Si tratta, quindi, di una riforma che non pone al riparo da ulteriori violazioni della Convenzione, posto che il nuovo testo dell’articolo 420-bis cpp prevede, quale formula di chiusura per la dichiarazione di assenza dell’imputato, che «risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo».

Particolare attenzione, per non incorrere in violazioni della Convenzione, si dovrà ancora prestare nella valutazione di tale volontà, sin dall’eventuale fase dell’emissione della misura cautelare, tenendo conto che la circostanza che l’indagato si sia reso irreperibile immediatamente dopo aver commesso il reato che gli viene contestato non potrebbe essere considerata circostanza idonea, di per sé, a far presumere la consapevolezza della pendenza di un procedimento. In questi casi, in assenza della prova di conoscenza effettiva, la scelta più aderente ai principi del giusto processo non sarebbe l’emissione del decreto di latitanza bensì la dichiarazione di irreperibilità, la quale prelude alla successiva sospensione del procedimento.

1.4. I riti alternativi al dibattimento

L’idea di fondo del nostro sistema processuale è che un processo penale garantista richiede che la celebrazione di un dibattimento orale e pubblico sia limitata ai casi più complessi, dove il vaglio dibattimentale del compendio probatorio sia davvero necessario, affidando la gran mole di procedimenti, nei quali un reale contrasto tra accusa e difesa non vi sia, alla celebrazione di riti semplificati nei quali la diminuzione delle garanzie è compensata da significativi vantaggi sostanziali e/o processuali, primo fra tutti la riduzione della pena in caso di condanna.

Non hanno posto problemi di compatibilità con la Convenzione i riti alternativi fondati sul consenso dell’imputato sulla base del principio, più volte affermato dalla Corte di Strasburgo, secondo il quale «né la lettera né lo spirito dell’art. 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare di propria spontanea volontà alle garanzie di un equo processo in maniera espressa o tacita»[22].

In applicazione di tale principio generale, la Corte europea ha ritenuto che, formulando una richiesta di giudizio abbreviato, l’imputato sapeva o avrebbe dovuto sapere che la procedura non sarebbe stata pubblica e che le prove non sarebbero state formate nel contraddittorio dibattimentale[23]. Pertanto, a condizione che il consenso sia stato manifestato in maniera chiara e che l’imputato non abbia subito coercizioni, la rinuncia ai diritti convenzionali esonererà lo Stato da responsabilità in sede internazionale[24].

La Corte di Strasburgo ha avuto modo di ribadire di recente tali principi, in tema di rito abbreviato. Nel caso Fornataro c. Italia[25], in cui la colpevolezza dell’imputato si era fondata sulle dichiarazioni de relato del minore vittima di violenza alla madre, il cui riscontro è stato rinvenuto nelle dichiarazioni del minore a una psicologa (assunte in diverso procedimento civile, dinanzi al Tribunale per i minori), la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il ricorrente, avendo consapevolmente scelto il rito abbreviato, aveva accettato di essere giudicato allo stato degli atti (par. 37), a nulla rilevando che egli avesse chiesto che si procedesse a una perizia sulla capacità a testimoniare del minore.

Nel caso Mazzarella c. Italia[26], analogamente, la Corte Edu ha affermato che la scelta di procedere con il rito abbreviato consentiva di superare, senza dubbio alcuno, le doglianze relative alla iniquità della procedura, nonostante la erronea mancata inclusione nel fascicolo, e quindi la mancata valutazione da parte del giudice, della memoria difensiva contenente la trascrizione di tre conversazioni telefoniche e finalizzata a dimostrare l’erroneità della trascrizione delle stesse presente agli atti (par. 36).

Tale giurisprudenza ha il pregio di legittimare i riti alternativi al dibattimento, fondati sul consenso dell’imputato, ai quali si deve la rapida definizione della stragrande maggioranza dei procedimenti penali e, quindi, la tenuta del nostro sistema processuale. Non si può fare a meno, però, di rilevare che, nel giudizio di compatibilità convenzionale formulato dalla Corte di Strasburgo, un ruolo assolutamente predominante viene affidato alla volontà dell’imputato, mentre difetta una valutazione delle peculiarità del nostro sistema processuale, nel quale qualsiasi patto è controllabile e superabile da parte del giudice.

Per restare nei due esempi sopra citati, nulla avrebbe impedito al giudice, nel caso Fornataro, di disporre la perizia sulla capacità a testimoniare del minore (che all’epoca aveva solo 4 anni), esercitando i suoi poteri di integrazione istruttoria di cui all’art. 441, comma 5, cpp, e rendendo così il procedimento più equo, anche alla luce dei parametri della Carta di Noto; oppure, nel caso Mazzarella, di disporre una perizia trascrittiva delle conversazioni telefoniche oggetto di contestazione.

È anche vero, però, che, se la Corte di Strasburgo avesse sindacato il mancato esercizio, da parte del giudice, del suo potere di integrazione istruttoria, avrebbe sconfinato sul terreno della valutazione della prova, dovendo sostituire la propria valutazione sulla possibilità di decidere “allo stato degli atti” a quella effettuata dai giudici interni.

Si rileva che, invece, in tema di rinnovazione istruttoria in appello, la Corte si è spinta fino a sindacare il mancato esercizio di analogo potere del giudice di appello (quello sancito dall’art. 603 cpp nella sua vecchia formulazione), in casi nei quali egli abbia deciso di non procedere a una rinnovazione dell’istruttoria (vds. infra).

1.5. Il principio di oralità e immediatezza in appello

La Corte di Strasburgo, infatti, ha di recente condannato l’Italia con la sentenza Lorefice c. Italia[27], preceduta di poco dalla novella dell’art. 603, comma 3-bis, cpp[28], perché la Corte d’appello aveva formulato un giudizio di colpevolezza nei confronti del ricorrente, riformando la sentenza assolutoria di primo grado, ritenendo che ciò fosse stato fatto sulla base delle dichiarazioni determinanti di due testimoni, senza procedere alla loro nuova escussione (par. 37). Alcun rilievo ha avuto, per la Corte di Strasburgo, la circostanza che la Corte d’appello avesse riformato la sentenza di primo grado non sulla base della semplice rivalutazione dell’attendibilità intrinseca dei testimoni ma, piuttosto, a seguito di un esame critico e approfondito della struttura della motivazione della sentenza del Tribunale e di una corretta interpretazione delle dichiarazioni testimoniali alla luce degli altri elementi di prova versati in atti, di talché tali dichiarazioni non potevano essere considerate “determinanti”.

Peraltro, la Corte Edu, nel non ammettere deroghe al principio di immediatezza in caso di riforma del giudizio di assoluzione, si discosta da alcune recenti pronunce che sanciscono, invece, il carattere non rigido dello “statuto convenzionale” della rinnovazione istruttoria[29]. Ad esempio, nella sentenza Kashlev c. Estonia, la Corte afferma che la rinnovazione non è necessaria se l’ordinamento ha assicurato al ricorrente «adeguate garanzie contro arbitrarie o irragionevoli valutazioni della prova o ricostruzioni dei fatti» (par. 50), quali l’obbligo di motivazione rafforzata e il ricorso a una giurisdizione superiore (par. 51).

Inoltre, va rilevato che i casi che vengono costantemente citati come «precedenti»[30] non sembrano adattarsi perfettamente al sistema italiano e alle caratteristiche della fattispecie concreta nella vicenda Lorefice.

Per fare solo alcuni esempi, nel caso Manolachi c. Romania, la Corte d’appello aveva ribaltato la sentenza di assoluzione utilizzando le dichiarazioni accusatorie dei due coimputati rese durante le indagini alla polizia, nonostante essi le avessero ritrattate in dibattimento, ammettendo di essere gli autori della rapina, negando che il ricorrente vi avesse preso parte e motivando, peraltro, questo loro comportamento sulla base delle coercizioni fisiche subite dalla polizia durante gli interrogatori. Inoltre, la Corte d’appello aveva escluso la rilevanza delle dichiarazioni dei due testi della difesa, sfruttando formalisticamente l’errore materiale contenuto nella sentenza di primo grado quanto alla data – coincidente con quella della rapina – nella quale essi avevano visto il ricorrente nel proprio domicilio (errore pacificamente avvenuto, in quanto veniva corretto successivamente dalla Corte d’appello, che annullava la sentenza di condanna su richiesta dello stesso ricorrente).

Nel caso Hanu c. Romania, la Corte di Strasburgo aveva esaminato la vicenda di un ufficiale giudiziario imputato di corruzione, abuso di ufficio e falso sulla base di una denuncia presentata da due soggetti che lo accusavano di aver loro chiesto del denaro in cambio di favori, e arrestato nell’ambito di un’operazione sotto copertura organizzata per coglierlo in flagranza. Il Tribunale aveva ritenuto che gli elementi di prova raccolti non fossero sufficienti per fondare una pronuncia di colpevolezza, in quanto l’unica prova “diretta” erano le dichiarazioni dei denuncianti; infatti, gli altri testimoni – tutti de relato – erano i familiari degli stessi denuncianti che avevano appreso i fatti da questi ultimi. Il Tribunale, inoltre, rilevava che non era stata mai prodotta agli atti la registrazione dell’operazione sotto copertura, nonostante più volte richiesta dal ricorrente, che professava la sua innocenza.

Nel celebre caso Dan c. Moldavia, il ricorrente era il preside di un liceo accusato di concussione e arrestato (o, piuttosto, come dallo stesso affermato, «intrappolato») nell’ambito di un’operazione sotto copertura in cui l’agente provocatore era il suo accusatore e gli unici testimoni erano i poliziotti che avevano organizzato l’operazione, i quali però non avevano visto bene il momento cruciale del passaggio del denaro, rendendo sul punto dichiarazioni contraddittorie. Molte erano le “criticità” da farsi risalire alla fase delle indagini, tra le quali – solo per fare qualche esempio – il fatto che la videoripresa dell’operazione, per ignoti motivi, non aveva registrato proprio il momento di consumazione del presunto reato e il fatto che il principale accusatore, nonché unico testimone diretto, era indagato in due separati procedimenti istruiti dagli stessi poliziotti che avevano organizzato l’operazione sotto copertura. Peraltro, il ricorrente affermava di essere stato maltrattato dalla polizia al momento dell’arresto (doglianza ex art. 3 della Convenzione, ritenuta inammissibile per mancato previo esaurimento dei rimedi interni, in quanto il ricorrente non aveva denunciato i poliziotti). Per tutte queste ragioni, il Tribunale aveva assolto il ricorrente.

Tutti questi casi sono caratterizzati essenzialmente dalla rivalutazione dell’attendibilità intrinseca dei testimoni in fattispecie nelle quali gli unici elementi oggettivi acquisiti durante le indagini non fornivano elementi utili alla tesi accusatoria, in quanto non univocamente conducenti, ed erano anche più che discutibili quanto a modalità di acquisizione. In essi la Corte di Strasburgo afferma che il vulnus al principio della parità delle armi poteva essere sanato mediante una nuova escussione in appello delle fonti dichiarative (non potendo, peraltro, sindacare altri aspetti problematici della procedura in quanto vincolata ai motivi di ricorso). Si tratta, a ben vedere, di fattispecie in cui la riassunzione delle prove testimoniali in appello avrebbe potuto evitare dei veri e propri errori giudiziari.

Qualche perplessità possono destare l’applicazione di questi precedenti al caso Lorefice e l’affermazione della Corte Edu che la valutazione della prova presuppone sempre il “contatto diretto” tra la fonte dichiarativa e il giudice della condanna.

Quest’ultima affermazione, invero, che appare spendibile nei sistemi di common law con giuria popolare, non si attaglia perfettamente al nostro sistema processuale, nel quale la valutazione della prova si fonda per lo più su un ragionamento logico e non sulle percezioni sensoriali del giudice. Peraltro, va osservato che nella fattispecie concreta esaminata nel caso Lorefice, data l’abbondanza di dati oggettivi rivalutati dalla Corte d’appello[31], «l’osservazione del contegno dei testi», verosimilmente, non avrebbe apportato un contributo conoscitivo ulteriore ai giudici del gravame, considerato che il raffronto del dichiarato con il restante compendio probatorio presuppone essenzialmente un sindacato ex actis.

Sul punto, la Corte di Strasburgo potrà eventualmente approfondire ancora la questione, nei casi di recente comunicati al Governo italiano[32], alla luce delle specificità del sistema processuale interno e tenendo conto anche degli altri interessi in gioco, quali, in primo luogo, i diritti delle vittime, che potrebbero essere inevitabilmente frustrati a causa dell’eccessivo allungarsi dei tempi processuali.

2. Prevenzione e libertà personale

La Corte di Strasburgo si è di recente interrogata sulla compatibilità del sistema di prevenzione personale con la Convenzione nel caso De Tommaso c. Italia[33]. Il fatto che la camera inizialmente investita della decisione abbia rimesso la questione alla Grande Camera è, evidentemente, da ricondurre all’esigenza di riconsiderare alcuni principi consolidati e/o di cambiare giurisprudenza sulla materia delle misure di prevenzione personali[34].

La Corte di Strasburgo, com’è noto, ha concluso che le prescrizioni imposte al ricorrente con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale (ad esempio, non rientrare a casa più tardi delle 22 e non uscire prima delle 6, non partecipare a pubbliche riunioni, etc.) non hanno integrato, anche se cumulativamente considerate, una privazione della libertà personale, ma solo una restrizione della libertà di movimento e che la doglianza sollevata ai sensi dell’art. 5 Cedu è incompatibile ratione materiae con la Convenzione.

La Grande Camera, quindi, non ha compiuto con questa sentenza quell’ulteriore passo in avanti, invocato nell’opinione dissenziente del giudice Pinto de Albuquerque, e ha scelto di non discostarsi dai precedenti riguardanti fattispecie analoghe[36].

La novità della sentenza De Tommaso, rispetto alla giurisprudenza fino a questo momento costante, risiede piuttosto nell’esame della legittimità delle misure di prevenzione personali da un punto di vista sostanziale, senza ritenere sufficienti le garanzie giurisdizionali del procedimento applicativo, che non sono più considerate una garanzia soddisfacente contro le “ingerenze arbitrarie” nei diritti fondamentali.

La sentenza riconosce, infatti, per la prima volta, la violazione dell’art. 2 Protocollo n. 4 per la mancanza di una adeguata “base legale” dell’ingerenza nel diritto garantito, in linea con i parametri fissati dalla Convenzione.

Il caso De Tommaso pone in primo piano il problema di fondo della prevenzione penale: in assenza della previa commissione di un fatto costituente reato, il giudizio sulla pericolosità è privo di un concreto riferimento che possa offrire una base di oggettività e la necessità di garantire la riserva di legge deve confrontarsi con la difficoltà di enucleare comportamenti tipici, descritti con sufficiente determinatezza, quale presupposto per l’applicazione delle misure di prevenzione personali. Invero, il necessario ancoraggio della prognosi di pericolosità a “elementi di fatto” deve essere necessariamente sempre qualcosa di meno della “prova di un fatto” e la difficoltà consiste non solo nel descrivere il comportamento tipico, ma anche la soglia di pericolosità che esso deve raggiungere per non svuotare e rendere puramente formale la riserva di legge. La Corte di Strasburgo, con questa pronuncia, vuole affermare che le garanzie a tutela dei diritti fondamentali non possono risolversi nella “riserva di giurisdizione” e che la competenza giurisdizionale al fine di legittimare le misure di prevenzione non può essere sopravvalutata in quanto la difficoltà di rendere tassativa la valutazione della pericolosità e l’inevitabile carenza di tipicità non possono trovare soluzione unicamente nella giurisdizionalizzazione del procedimento applicativo.

3. Le prospettive riaperte dalla sentenza GIEM in tema di confisca “sostanzialmente” penale

Nella recente sentenza di Grande Camera GIEM Srl e altri c. Italia[37] sulla confisca urbanistica, come noto, oggetto del contendere era la questione se, ferma restando la necessità di accertare la colpevolezza di colui che subisce la confisca, già enunciata nella pronuncia Sud Fondi[38], il principio nulla poena sine lege di cui all’art. 7 Cedu imponga che la sanzione sia applicata dal giudice penale unitamente alla sentenza di condanna per il reato di lottizzazione abusiva ex art. 44, comma 2, dPR n. 380/2001. In particolare, doveva essere chiarito se la confisca possa essere disposta anche con la sentenza che dichiara estinto il reato per prescrizione. La Corte di Strasburgo, infatti, accedendo alla nota nozione autonoma di sanzione penale, non aveva accettato il fatto che la confisca urbanistica per il diritto interno è una sanzione amministrativa la quale, quando è applicata nell’ambito di un procedimento penale, è assistita da tutte le garanzie che l’articolo 7 riserva alla matière pénale e, nella pronuncia Varvara[39], si era convinta del fatto che la sentenza di prescrizione non poteva (mai) ritenersi una sentenza di “condanna” (par. 61).

Con la sentenza GIEM (par. 261), la Corte di Strasburgo afferma che, quando le giurisdizioni interne hanno condotto un accertamento pieno di tutti gli elementi costitutivi del reato e dichiarano il reato (che sussiste) estinto per prescrizione, tale pronuncia è una condanna a tutti gli effetti, perfettamente conforme ai principi dell’art. 7 della Convenzione. Dunque la confisca urbanistica, disposta all’esito di un tale accertamento, è pienamente legittima.

La Corte Edu, anzi, si spinge anche oltre e afferma che l’art. 7 Cedu non esige affatto che la «pena» sia inflitta nel processo penale, ben potendo essere applicata da autorità amministrative, purché soggette a controllo giurisdizionale (par. 254).

La nozione autonoma di pena ha comportato, invece, la condanna per violazione dell’art. 7 Cedu poiché al giudizio penale, nell’ambito del quale era stata disposta la confisca urbanistica, non avevano preso parte le persone giuridiche proprietarie dei beni, ma esclusivamente il loro rappresentante legale (parr. 265 ss.). Nel nostro ordinamento non è, infatti, prevista la partecipazione degli enti al processo per lottizzazione abusiva, non essendo tale reato compreso nel novero di quelli per i quali è consentito procedere nei confronti degli enti dal d.lgs n. 231/2001.

A questo punto, occorre interrogarsi sugli scenari futuri aperti dalla sentenza GIEM e chiedersi se la Corte di Strasburgo, portando a ulteriori conseguenze la nozione autonoma di pena, andrà a incidere anche sulle altre ipotesi di confisca presenti nel nostro ordinamento, per valutarne la compatibilità convenzionale con le garanzie dei principi di legalità, irretroattività in malam partem, retroattività della lex mitior, divieto di ne bis in idem, presunzione di innocenza.

Si pensi, ad esempio, alla confisca “allargata” (art. 12-sexies dl n. 306/92, convertito in l. n. 356/92), qualificata nel diritto interno quale misura di sicurezza patrimoniale, con la conseguente inapplicabilità del principio di irretroattività di cui all’art. 25 Cost. in favore della regola del tempus regit actum di cui all’art. 200 cp, e per la quale la insussistenza del nesso di pertinenzialità tra beni confiscati e reato potrebbe porre anche dei problemi di compatibilità con il principio di proporzionalità.

Per quanto riguarda, poi, le misure di prevenzione patrimoniali, com’è noto, la Corte di Strasburgo ha sempre escluso che avessero natura penale[40]. Vi è da chiedersi se la Corte riterrà, adesso, che si tratti di misure “sostanzialmente punitive”, quindi soggette alle garanzie degli artt. 6 (capo penale) e 7 della Convenzione, e di quelle previste dagli artt. 2 e 4 del Protocollo n. 7. In tal caso, si porrebbe il problema dell’applicazione retroattiva della confisca alle nuove figure soggettive introdotte con successive modifiche normative[41] in relazione a fatti commessi in data antecedente all’intervento legislativo di modifica da soggetti che, fino a quel momento, non potevano esserne destinatari.

Lo stesso dicasi per il principio di applicazione disgiunta, introdotto con le novelle degli anni 2008 e 2009[42], che consente l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali a prescindere dalla contestuale irrogazione di misure personali e dall’attuale esistenza di una pericolosità sociale in capo al proposto. In tal caso, la possibilità di applicare retroattivamente tali norme, senza dubbio più sfavorevoli, anche in relazione a fatti antecedenti al 2008 e 2009, potrebbe porre un problema di compatibilità con il principio di irretroattività della legge penale.

4. La prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale in presenza di conflitti di giurisprudenza

Per quanto riguarda il caso Contrada c. Italia[43], nel quale l’Italia, com’è noto, è stata condannata per la violazione dell’art. 7 della Convenzione per la “mancanza di prevedibilità” del disvalore penale della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa, l’epilogo della lunga vicenda giudiziaria è segnato dalla sentenza della Corte di cassazione[44] che ha dichiarato «ineseguibile e improduttiva di effetti penali» la sentenza di condanna del ricorrente.

La motivazione della Cassazione richiama il precedente Dorigo[45] e riafferma il principio della «efficacia immediatamente precettiva delle norme della Convenzione EDU» e, in particolare, dell’art. 46, secondo il quale «Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti». A sua volta, il precedente Dorigo richiama la pronuncia a sezioni unite nel caso Polo Castro[46] che, già nel 1989, aveva sancito l’avvenuta incorporazione della Convenzione nell’ordinamento giuridico nazionale in forza della clausola di «piena e intera esecuzione» contenuta nella legge n. 848/1955 di autorizzazione alla ratifica.

La suprema Corte, quindi, dà piena e incondizionata esecuzione alla sentenza europea individuando tale rimedio nell’incidente di esecuzione, come nel caso Dorigo. Tale soluzione è apparsa quella più adeguata nonostante – a differenza del caso Dorigo, in cui i giudici europei avevano rilevato violazioni di natura processuale (mancata escussione dei testi) –, in questo caso, la violazione accertata era stata di natura sostanziale, in quanto concernente la base legale della condanna, ritenuta imprecisa e indeterminata, circostanza che aveva determinato l’illegittimità della condanna, con conseguente necessità di rimuoverne gli effetti.

Nel dare esecuzione alla pronuncia europea, la Corte di cassazione non manca, però, di ribadire che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici e che il principio di irretroattività delle norme penali è principio fondante del nostro sistema penale, assistito da garanzia costituzionale». I motivi di disappunto nei confronti della sentenza della Corte di Strasburgo nel caso Contrada sono noti; invero, non può negarsi che, sia pure in presenza di un conflitto sincronico di giurisprudenza, all’epoca in cui il Contrada commise le condotte per le quali è stato condannato, sussisteva già una significativa e risalente elaborazione giurisprudenziale del concorso eventuale nei reati associativi[47]. La prevedibilità della rilevanza penale delle condotte poste in essere non avrebbe potuto essere negata, stante la natura qualificata del soggetto agente, alto funzionario di polizia che svolgeva la sua attività professionale in Sicilia e a Palermo con specifico riferimento ai settori della criminalità organizzata di matrice mafiosa. Egli non poteva non essere consapevole che le sue condotte (ad esempio, fornire notizie riservate su procedimenti penali in corso a soggetti apicali di associazioni di stampo mafioso) fossero penalmente rilevanti. Peraltro, per la tesi negazionista, l’elemento oggettivo e soggettivo del concorso esterno non poteva differire dagli elementi oggettivo e soggettivo caratterizzanti la partecipazione[48], essendo quindi escluso che chiunque potesse ragionevolmente credere che tali condotte fossero penalmente irrilevanti[49].

Le criticità evidenziate in diverse sedi con riferimento a tale pronuncia della Corte di Strasburgo potrebbero costituire, per il giudice europeo, un prezioso stimolo per meglio chiarire i principi affermati con riferimento al concorso esterno in associazione mafiosa e, più in generale, sulla questione della prevedibilità in materia penale, in presenza di conflitti giurisprudenziali.

5. Il contraddittorio sulla qualificazione giuridica del fatto

La questione della prevedibilità – questa volta riferita alla qualificazione giuridica del fatto – è affrontata in una vicenda altrettanto nota, che è stata caratterizzata dalla pronuncia di due sentenze della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia. Si tratta del caso Drassich, nel quale il ricorrente era stato dichiarato colpevole per un reato di falso e diversi episodi di corruzione, sia in primo grado che in appello. Il ricorrente proponeva ricorso per cassazione affermando che, in virtù del riconoscimento delle attenuanti generiche, i reati di corruzione erano estinti per prescrizione. La Corte di cassazione[50] rigettava il ricorso osservando che la corretta qualificazione giuridica dei fatti contestati era quella di «corruzione in atti giudiziari» (di cui all’art. 319-ter cp) e che, quindi, il reato non era prescritto. La Corte di Strasburgo, con la prima pronuncia del 2007[51], affermava la violazione dell’art. 6, parr. 1 e 3, lett. a) e b) della Convenzione, in quanto riteneva che il ricorrente fosse stato definitivamente condannato in Cassazione per una fattispecie che non gli era mai stata formalmente contestata.

La Corte Edu non nega, in linea di principio, che le giurisdizioni interne possano procedere a una riqualificazione giuridica del fatto, ma impone che l’imputato ne venga informato in tempo utile per esercitare il proprio diritto di difesa. Per la Corte europea, in sostanza, sembrerebbe esservi un inscindibile legame tra quaestio facti e quaestio iuris, tale che la modifica del nomen iuris richiederebbe un’operazione di carattere valutativo che va al di là della semplice e automatica sussunzione del fatto nella norma generale e astratta. Nel caso di specie, la riqualificazione era avvenuta in Cassazione, giurisdizione di ultima istanza, non dando all’imputato il tempo di difendersi nel merito.

Per quanto riguarda la fondatezza dei mezzi di difesa che il ricorrente avrebbe potuto invocare se avesse avuto la possibilità di contestare la “nuova accusa” formulata nei suoi confronti, la Corte di Strasburgo concludeva, però, laconicamente che «è plausibile sostenere che tali mezzi sarebbero stati diversi da quelli prescelti per contestare l’azione principale» (par. 40).

La Corte di cassazione individuava nel ricorso straordinario ex art. 625-bis cpp il mezzo idoneo per dare esecuzione alla condanna inflitta dalla Corte Edu e, quindi, revocava la sentenza del 2004 limitatamente ai fatti corruttivi qualificati come «corruzione in atti giudiziari»[52], con conseguente celebrazione di un nuovo giudizio di cassazione, nel quale era consentito all’imputato di interloquire sulla nuova qualificazione giuridica dei fatti contestati. All’esito del nuovo giudizio, nel 2009, il ricorso per cassazione veniva rigettato[53].

Il ricorrente adiva ancora la Corte di Strasburgo, affermando che era stato violato nuovamente l’art. 6 Cedu in quanto non gli era stato garantito adeguatamente il diritto al contraddittorio. Secondo il ricorrente, l’unico rimedio rispettoso del suo diritto di difesa sarebbe stato la riapertura del dibattimento, che gli avrebbe consentito di articolare nuovi mezzi di prova.

La Corte Edu, con la recente sentenza del 2018[54], conclude per la non violazione e mette la parola “fine” alla vicenda affermando che il ricorrente aveva avuto il modo di articolare la sua difesa, quanto meno nel periodo di cinque mesi tra la revoca parziale della condanna e la riapertura del procedimento in Cassazione. Inoltre, la Corte, con riferimento alla questione della impossibilità di discutere “questioni di fatto” in Cassazione (e, quindi, di difendersi nel merito), afferma che il ricorrente non aveva in alcun momento contestato «il modo in cui il Tribunale e la Corte di appello avevano contestato i fatti di causa», né risultava che egli avesse mai chiesto «nuove prove a discarico». Il ricorrente, in altre parole, si sarebbe limitato a chiedere la cassazione senza rinvio della sua condanna, a causa della prescrizione dei reati a lui ascritti. La Corte di Strasburgo, quindi, conclude che «tenuto conto delle questioni all’esame della Cassazione», «non vede per quali motivi la causa avrebbe dovuto essere rinviata dinanzi a un giudice di merito».

Si tratta di argomentazioni decisive e pienamente condivisibili che, peraltro, avrebbero potuto essere sostenute anche nella prima pronuncia Drassich del 2007, nella quale – invece – la Corte Edu aveva omesso di pronunciarsi sul punto affermando sinteticamente che era verosimile che i mezzi difesivi che il ricorrente avrebbe posto in essere, se avesse conosciuto la nuova qualificazione dei fatti, «sarebbero stati diversi da quelli prescelti per contestare l’azione principale». Invero, non è dato sapere quali nuovi mezzi di prova avrebbe proposto il ricorrente se avesse conosciuto “in tempo” la nuova qualificazione giuridica del fatto.

Il motivo di tale lacuna conoscitiva potrebbe dipendere dal fatto che il nucleo fattuale delle fattispecie di cui agli artt. 319 e 319-bis cp è il medesimo e che quella operata dalla Corte di Cassazione nella prima sentenza del 2004 è stata, effettivamente, una pronuncia di mera rettificazione del capo di imputazione. Tale pronuncia ha comportato una semplice sussunzione del fatto in una diversa norma generale e astratta – in base al principio iura novit curia – e non una violazione del generale principio del divieto di reformatio in peius, posto che tale principio è finalizzato unicamente a conservare integra la misura della pena, né ha compromesso in sostanza il diritto di difesa del ricorrente. Se, invece, vi fosse stato un vulnus del diritto dell’imputato di difendersi nel merito, allora il rimedio non avrebbe potuto essere quello, meramente formale, di cui all’articolo 625-bis cpp, bensì un nuovo giudizio di merito.

6. Il diritto della persona offesa alla ragionevole durata del procedimento penale

Infine, non può mancare qualche breve considerazione sul caso Arnoldi[55], nel quale la Corte di Strasburgo, per la prima volta, afferma che anche il danneggiato dal reato, non costituito parte civile, ha diritto alla ragionevole durata del procedimento penale di cui all’art. 6, par. 1, Cedu.

La vicenda esaminata dalla Corte europea scaturisce dalla denuncia presentata, nell’ottobre 1995, dalla proprietaria di un immobile per la asserita falsità della dichiarazione sottoscritta dal titolare dell’appartamento confinante e da quattro testimoni, avente ad oggetto la data di realizzazione di un comignolo sulla propria proprietà da parte di un vicino. Per effetto di tale dichiarazione giurata, l’amministrazione comunale aveva deciso che l’opera non doveva essere demolita. Dopo i solleciti rivolti dalla denunciante, il pubblico ministero aveva svolto l’interrogatorio delle persone indagate, che si erano avvalse della facoltà di non rispondere. Nel gennaio 2003, a distanza di più di sette anni dal deposito della querela, il procedimento era stato archiviato per prescrizione.

La ricorrente adiva quindi la Corte d’appello di Venezia, ai sensi della “legge Pinto” (l. n. 89/2001), al fine di conseguire la riparazione dei danni materiali e morali sofferti per la durata eccessiva del procedimento penale. La Corte d’appello rigettava il ricorso in quanto la ricorrente, che non si era costituita parte civile, perché non era mai stata esercitata l’azione penale, non poteva lamentare la durata eccessiva del procedimento penale in quanto non aveva mai assunto la qualità di parte.

Adita dalla ricorrente Arnoldi, la Corte di Strasburgo ha affermato, in sintesi, che la questione dell’applicabilità dell’art. 6, par. 1, Cedu non può dipendere dal riconoscimento dello status formale di parte, alla stregua del diritto interno, in quanto lo spirito della Convenzione impone di andare al di là delle apparenze e di cercare la sostanza della situazione concreta.

Pertanto, la Corte ha stabilito che, nell’ordinamento italiano, la posizione della persona offesa in attesa di costituirsi parte civile, in ragione dei poteri che le sono riconosciuti (ad esempio, i poteri ex artt. 90, 90-bis, 335, comma 3-ter, 327-bis, 101 cpp), non differisce nella sostanza, ai fini dell’applicabilità dell’art. 6 Cedu, da quella della parte civile, e quindi ha concluso per la violazione del diritto alla durata ragionevole del procedimento.

Per corroborare tali affermazioni, la Corte Edu ha richiamato i principi fissati nella sentenza Perez c. Francia[56], affermando che l’art. 6 Cedu è applicabile alla persona offesa non costituita parte civile, a condizione che questa intenda ottenere la protezione di un suo diritto civile o far valere il suo diritto al risarcimento nell’ambito del procedimento penale, e che l’esito delle indagini preliminari sia «determinante» per il diritto di carattere civile in causa.

Il pregio della sentenza Arnoldi risiede nell’intenzione, certamente meritevole, di valorizzare la posizione della vittima nell’ambito del procedimento penale e di tutelare anche il suo diritto, al pari di quello dell’imputato, a ottenere una risposta giudiziaria in tempi ragionevoli.

La soluzione adottata non appare, però, del tutto convincente per diversi motivi tra i quali, ad esempio, il fatto che i principi generali sanciti dalla sentenza Perez c. Francia non appaiono perfettamente compatibili con il sistema processuale italiano.

Nel sistema processuale francese, l’esito della procedura penale è “determinante” per la persona offesa a causa della forte preminenza del processo penale sul processo civile, la quale si manifesta nel principio di necessaria sospensione del processo civile e nell’autorità di cosa giudicata della sentenza penale nel processo civile. In base a tali premesse, la Corte Edu afferma che, nel sistema francese, sarebbe un mero «artificio» sostenere che l’esito della procedura penale non sia «determinante» per la persona offesa per il solo fatto della esistenza di una procedura civile, già pendente o potenziale, nella quale questa possa far valere la sua pretesa civilistica (par. 66 della sentenza Perez).

Nel nostro sistema penale, invece, l’esito della procedura penale non può essere considerato “determinante” per la pretesa di carattere civile, in quanto – a differenza del sistema francese – sussiste la completa autonomia tra azione civile e azione penale, non c’è pregiudizialità necessaria del processo penale rispetto a quello civile di danno e la sospensione del processo civile è ipotesi del tutto eccezionale. Durante la fase delle indagini preliminari, il danneggiato può agire solo in sede civile in attesa che, qualora preferisca la sede penale, con l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero e l’individuazione di un imputato nei cui confronti azionare la sua pretesa civilistica, si instauri un processo.

Il legislatore garantisce appieno il diritto di scelta del danneggiato e, qualora preferisca la sede penale per tutelare le proprie istanze risarcitorie e/o restitutorie, gli consente di trasferire l’azione civile nel processo penale, una volta instauratosi (art. 75 cpp).

Peraltro, sebbene l’art. 78 cpp (formalità di costituzione della parte civile) non richieda espressamente l’indicazione del petitum, l’ammissibilità nel nostro sistema della costituzione di parte civile a prescindere da una richiesta risarcitoria è da escludersi in virtù dell’art. 523 comma 2, cpp, che prevede che le conclusioni della parte civile «devono comprendere, quando sia richiesto il risarcimento dei danni, anche la determinazione del loro ammontare». Invero, nel nostro sistema, a differenza di quello francese, la costituzione di parte civile a fini meramente “vendicativi” non è contemplata, essendo mantenuto ben distinto l’interesse pubblicistico alla repressione dei reati da quello privatistico al risarcimento e alle restituzioni, mediante una netta differenziazione tra persona offesa e danneggiato dal reato.

7. Considerazioni conclusive

Il tema della tutela preventiva dei diritti fondamentali e il difficile equilibrio con la tutela della libertà personale; la prevedibilità delle conseguenze penali del fatto e la necessità di chiarie se essa vada declinata come prevedibilità del disvalore penale, secondo un approccio sostanzialistico, o anche come prevedibilità della qualificazione giuridica del fatto, secondo un’impostazione più formalistica; il nodo mai sciolto del bilanciamento tra oralità e immediatezza, da un lato, e ragionevole durata del processo, dall’altro, anche alla luce del nuovo ruolo della vittima nel processo penale; gli imprevedibili scenari aperti dalla dilatazione della nozione autonoma di “materia penale”: si tratta solo di alcuni degli aspetti sui quali si attendono, dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, futuri sviluppi.

[1] La Corte ammette, infatti, che “in talune circostanze” può essere necessario, per le autorità giudiziarie, fare ricorso a deposizioni che risalgono alla fase delle indagini preliminari: si veda, ad esempio, Isgrò c. Italia, ric. n. 11339/85, 19 febbraio 1991, serie A, n. 194-A, § 34.

[2] Si vedano le sentenze Lucà c. Italia, ric. n. 33354/96, 27 febbraio 2001, § 40;  A.M. c. Italia, ric. n. 37019/97, 14 dicembre 1999, § 25; Craxi c. Italia, ric. n. n. 34896/97, 5 dicembre 2002; si veda anche Dorigo c. Italia, ric. n. 33286/96, rapporto della Commissione del 9 settembre 1998, § 43.

[3] Ad esempio, la condanna inflitta nel caso Bracci c. Italia, ric. n. 36822/02, 13 ottobre 2005.

[4] Tra le tante, Carta c. Italia, ric. n. 4548/02, 20 aprile 2006, § 49.

[5] Moumen c. Italia, ric. n. 3977/13, sentenza del 23 settembre 2016.

[6] Cafagna c. Italia, ric. n. n. 26073/13, 12 ottobre 2017.

[7] Dissente sul giudizio di “negligenza” delle autorità italiane nella ricerca del testimone il giudice Wojtyczek (opinione dissenziente, § 4).

[8] Ad esempio, l’impossibilità di natura oggettiva, per morte o sopravvenuta irreperibilità del testimone, su cui si veda: Craxi c. Italia, cit., § 87; si vedano anche le decisioni: Raniolo c. Italia, ric. n. n. 62676/00, 21 marzo 2002; Calabrò c. Italia e Germania, ric. n. 59895/00, 21 marzo 2002; Kostu c. Italia, ric. n. 33399/96, 9 marzo 1999; Halmi e altri c. Italia, ric. n. 9713/03, 18 gennaio 2005; Cipriani c. Italia, ric. n. 37272/05, 9 febbraio 2006. Sulla libera scelta del dichiarante che, legittimamente, si avvale della facoltà di non rispondere, si vedano ad esempio le decisioni: Sofri e altri c. Italia, ric. n. 37235/97, 27 maggio 2003; De Lorenzo c. Italia, ric. n. 69264/01, 12 febbraio 2004; Chifari c. Italia, ric. n. 36037/02, 13 maggio 2004, nonché le sentenze Lucà c. Italia, cit., §§ 38-45 e Carta c. Italia, cit., § 52.

[9] Il riferimento è ai principi enunciati nella sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito [GC], ricc. nn. 26766/05 e 22228/06, 15 dicembre 2011, applicati anche al nostro sistema.

[10] Stoyanov-Kobuladze c. Bulgaria, ric. n. 25714/05, 25 marzo 2014; Colozza c. Italia, ric. n. 9024/80, 12 Febbraio 1985, Serie A, n. 89.

[11] Medenica c. Svizzera, ric. n. 20491/92, 14 giugno 2006, § 55; Craxi c. Italia, cit. § 70; Sejdovic c. Italia [GC], ric. n. 56581/00, 1° marzo 2006, § 86.

[12] Tra le altre: Stoyanov-Kobuladze c. Bulgaria, ric. n. 25714/05, 25 marzo 2014, § 39; Hermi c. Italia [GC], ric. n. 18114/02, 18 ottobre 2006, § 73; Vaturi c. Francia, ric. n. 75699/01, 13 aprile 2006, § 53; Sejdovic c. Italia [GC], cit., § 126; Somogyi c. Italia, ric. n. 67972/01, 18 maggio 2004, §§ 72-73.

[13] Si vedano, ad esempio, le già menzionate: Sejdovic c. Italia [GC], cit.; Somogyi c. Italia, cit.; Hermi c. Italia [GC], cit., Colozza c. Italia, cit.

[14] Dl 21 febbraio 2005, n. 17, convertito in l. 22 aprile 2005, n. 60; l. 28 aprile 2014, n. 67.

[15] Cat Berro c. Italia, ric. n. 34192/07, 25 novembre 2008.

[16] L. n. 60/2005 di conversione del dl n. 17/2005.

[17] Corte di cassazione, sez. unite, 31 gennaio 2008, Huzunenau.

[18] Huzuneanu c. Italia, ric. n. 36043/08, 1 settembre 2016.

[19] Corte cost., 30 novembre 2009, n. 317.

[20] Baratta c. Italia, ric. n. 28263/09, 13 ottobre 2016.

[21] L. n. 67/2014.

[22] Si veda tra le tante: R.R. c. Italia, ric. n. 42191/02, 9 giugno 2005, § 53, e Sejdovic c. Italia [GC], cit., § 86.

[23] Tra le tante: Hermi c. Italia [GC], cit.; Greco c. Italia, ric. n. 70462/13, 28 ottobre 2013; Hany c. Italia, ric. n. 17543/05, decisione del 6 novembre 2007.

[24] La Corte ha costantemente affermato il principio che la rinuncia alle garanzie del contraddittorio deve essere non equivoca, assistita da garanzie commisurate alla sua gravità e non deve confliggere con alcun «interesse pubblico significativo» (le prime sentenze in cui è stato sancito tale principio sono Poitrimol c. Francia, ric. n. 14032/88, 23 novembre 1993, serie A, n. 277-A, § 31, e Häkansson e Sturesson c. Svezia, ric. n. 11855/85, 21 febbraio 1990, serie A, n. 171-A, § 66).

[25] Fornataro c. Italia, ric. n. 37978/13, 26 settembre 2017.

[26] Mazzarella c. Italia, ric. n. 24059/13, 26 settembre 2017.

[27] Lorefice c. Italia, ric. n. 63446/13, sentenza del 29 giugno 2017.

[28] Con l. 23 giugno 2017, n. 103.

[29] Kashlev c. Estonia, ric. n. 22574/08, 26 aprile 2016. Si veda anche Chiper c. Romania, ric. n. 22036/10, 27 giugno 2017 (§§. 50-56).

[30] Tra gli altri, si fa riferimento in modo particolare a: Manolachi c. Romania, ric. n. 36605/04, 5 marzo 2013; Hanu c. Romania, ric. n. 1089/04, 4 giugno 2013; Dan c. Moldavia, ric. n. 8999/07, 5 luglio 2011.

[31] Quali: la sentenza irrevocabile nei confronti del coimputato, le acquisizioni documentali concernenti l’eseguito pagamento del prezzo dell’estorsione, la registrazione audio di un colloquio, le conversazioni telefoniche intrattenute dall’imputato, le dichiarazioni dello stesso imputato, le annotazioni di polizia giudiziaria, i tabulati e le intercettazioni telefoniche, le ulteriori sentenze acquisite. Si veda Cass., sez. I pen., 27 marzo 2013 (dep. 29 agosto 2013), n. 3570, Lorefice.

[32] Tondo c. Italia, ric. n. 75037/14, comunicato il 21 febbraio 2018; Di Febo c. Italia, ric. n. 53729/15, comunicato il 16 febbraio 2018; Tripodo c. Italia, ric. n. 2715/15, comunicato il 19 febbr