Magistratura democratica

La Corte di cassazione e la Corte Edu

di Renato Rordorf
Nel rapporto tra giudici nazionali – Corte di cassazione compresa – e Corte Edu, permangono ancora delle ambiguità, tra cooperazione e soggezione, nella diversità del rispettivo modus operandi e delle tradizioni giuridiche che lo ispirano. La sola via per affrontare tali difficoltà è lo sviluppo del dialogo tra corti nazionali ed europee: un dialogo al quale è indispensabile l’apporto di protocolli d’intesa che valgano a favorire l’affermarsi di una nomofilachia comune.

1. Premessa

Benché la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia stata ratificata dall’Italia oltre sessant’anni fa, è quasi soltanto nell’ultimo quarto di secolo che i giudici italiani hanno cominciato davvero seriamente a fare i conti con essa; e hanno, perciò, cominciato a fare i conti anche con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, alla quale primariamente compete l’interpretazione della Convenzione. Forse è normale che sia così: l’attitudine del giurista, salvo che per pochi spiragli, è stata tradizionalmente sempre condizionata da un’impostazione di studi prevalentemente ancorata al quadro giuridico nazionale. D’altronde, in epoca moderna, dopo il tramonto dell’ancien régime, il diritto positivo è stato considerato tipica espressione e appannaggio tendenzialmente esclusivo della sovranità politica dello Stato, e ciò ha storicamente comportato una visione dell’ordinamento prevalentemente circoscritta entro l’ambito nel quale la sovranità di ciascuno Stato poteva esercitarsi.

Se è vero che quella tradizionale concezione è oggi in via di superamento e che, nell’epoca definita da Paolo Grossi in termini di «pos-modernità giuridica», il mito dell’onnipotenza del legislatore nazionale va svanendo, resta tuttavia una qualche difficoltà del giurista (e del giudice) a pensare gli strumenti giuridici in chiave sovranazionale, sia pure attraverso la mediazione di una convenzione circoscritta allo spazio europeo, debitamente ratificata dal nostro Parlamento e perciò stesso inserita nel tessuto costituzionale italiano. Non è stato facile abituarcisi, e il farlo tuttora richiede un qualche sforzo di adattamento culturale.

Credo, però, si possa dire che ormai la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e la giurisprudenza della Corte di Strasburgo hanno cominciato a penetrare davvero profondamente nella carne e nel sangue del nostro diritto vivente: la crescente frequenza dei riferimenti alle pronunce della Corte Edu nelle motivazioni delle decisioni dei giudici italiani ne fornisce un’eloquente testimonianza. Anche la Corte di cassazione, com’è naturale, si mostra sempre più attenta a rapportare la propria giurisprudenza a quella elaborata in sede europea, e l’indirizzo assunto dalla Corte costituzionale nel considerare i principi e le regole della Convenzione quali norme interposte – la cui eventuale violazione da parte del legislatore nazionale determina un vizio di costituzionalità, ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost. – ha vieppiù favorito l’espandersi della cd. interpretazione convenzionalmente orientata del diritto interno, ossia lo sforzo di dare alle disposizioni di legge italiana un significato e una portata il più possibile conformi ai principi e alle norme della Convenzione, letti attraverso il filtro della giurisprudenza della Corte Edu.

2. Giudici nazionali e sovranazionali: un rapporto ambiguo

In questo come in molti altri aspetti del rapporto tra dimensione nazionale e dimensione europea, tuttavia, ancora si manifestano talvolta ambivalenze, o vere e proprie ambiguità: la spinta da cui molti sono animati verso il riconoscimento e il rafforzamento di comuni valori di civiltà giuridica si alterna, non di rado, a momenti di diffidenza e persino d’insofferenza. Il giudice nazionale non è ancora del tutto assuefatto all’idea che quanto da lui stabilito possa, in una sede sovranazionale, per certi versi e a determinati fini, essere rimesso in discussione.

D’altro canto, su un piano più generale, è evidente che gli umori “sovranisti” da un po’ di tempo circolanti per l’Europa (e non solo) e la crescente disaffezione di molti per lo stesso progetto di costruzione di una casa comune europea non hanno certo giovato al modo in cui da alcune parti sono viste le giurisdizioni sovranazionali europee; è noto che, tra le ragioni che hanno spinto la Gran Bretagna a uscire dall’Unione europea, vi sia anche una certa qual dose d’insofferenza per l’obbligo di sottostare alle decisioni della Corte di Lussemburgo.

Se queste difficoltà si sono soprattutto manifestate nel rapporto tra le giurisdizioni nazionali e la Corte di giustizia dell’Unione europea, non v’è da meravigliarsi certo che, quasi per contagio, qualcosa di analogo avvenga anche nei confronti della Corte Edu. Se è vero che diverso è, per il giudice nazionale, il vincolo derivante dalle pronunce delle due corti europee, è vero del pari che l’assai maggiore ampiezza del consesso di nazioni da cui è composto il Consiglio d’Europa concorre, sotto certi profili, a far sentire meno vicina la Corte di Strasburgo, e quindi fa sì che i principi giurisprudenziali da quest’ultima elaborati siano, talvolta, meno immediatamente assimilati a sentiti come propri dal giudice nazionale che vi si debba adeguare.

In questo quadro, composto da luci e ombre, appare oggi quanto mai attuale e importante la relazione funzionale tra la Corte Edu e la nostra Corte di cassazione, cui primariamente compete in ambito nazionale la cura della nomofilachia. Da questo, in larga parte, dipende la possibilità di costruire man mano una nomofilachia europea, e ve ne è gran bisogno, soprattutto in un’epoca che, anche per effetto della sovrapposizione non sempre armonica e ordinata di fonti nazionali e sovranazionali diverse (queste ultime in larga misura di origine giurisprudenziale), vede vieppiù affermarsi un’idea di diritto vivente che largamente si fonda sull’operato dei giudici e che perciò richiede loro un particolare sforzo di razionalizzazione e armonizzazione delle proprie decisioni, in una dimensione che non può essere più soltanto nazionale, ma deve necessariamente aprirsi al più vasto ambito europeo.

Il superamento delle difficoltà in cui la costruzione europea oggi si dibatte passa anche attraverso l’opera comune dei giudici.

La costruzione di una casa comune europea, quale che ne sia il perimetro, non può prescindere dall’individuazione e dal riconoscimento di un nucleo di valori di civiltà condivisi dai quali discendono i diritti fondamentali che, per essere tali, debbono rispecchiarsi tanto nelle costituzioni dei singoli paesi europei quanto in una carta dei diritti a essi comune. Non solo la Carta di Nizza, ma anche e prima ancora la Convenzione europea dei diritti umani svolgono appunto questa funzione. Il legame che deve esistere tra le une e le altre necessariamente implica che coloro i quali sono chiamati a interpretarne le disposizioni (non soltanto di rango costituzionale, ma anche quelle dettate da leggi ordinarie, che dalle norme e dai principi costituzionali dovrebbero essere naturalmente ispirate) debbano tenere reciprocamente conto del modo in cui assolvono tale loro compito.

La necessità di un dialogo permanente – e di uno spirito di dialogo che dev’esservi sotteso – tra giudici nazionali, a cominciare dalla Corte di cassazione, e giudici europei di Strasburgo costituisce, perciò, un presupposto naturale del funzionamento dell’intero sistema ideato dalla Convenzione, prima ancora che il portato di singole disposizioni. Ma non basta invocare lo spirito del dialogo: bisogna porre le premesse perché il dialogo possa davvero svilupparsi ed essere proficuo. Occorre quindi, anzitutto, comprendere dove risiedono le difficoltà e come si può cercare di superarle o, almeno, di attenuarle.

Ho l’impressione che la prima difficoltà sia, in qualche misura, soprattutto (o anche) psicologica. Essa nasce dal fatto che il giudice nazionale – e in primis la Corte di cassazione quale giudice di ultima istanza nell’ordinamento interno – vede se stesso, rispetto alla Corte Edu, in una posizione, per così dire, duplice: da un lato, avverte di essere chiamato anch’egli ad assolvere il fondamentale compito di giudice dei diritti umani, applicando nelle proprie decisioni i principi della Convenzione, interpretando il diritto interno in modo il più possibile conforme a quei principi o altrimenti promuovendo il vaglio di costituzionalità della normativa italiana difforme. In questa logica, il giudice nazionale è il miglior collaboratore dei suoi colleghi di Strasburgo, con i quali egli condivide lo sforzo di conseguire un fine comune. Dall’altro lato, però, la struttura avversariale (e lato sensu sanzionatoria) del processo europeo fa sì che il medesimo giudice nazionale, in quanto organo dello Stato convenuto, si senta spesso egli stesso sotto accusa dinanzi alla Corte Edu, in cui teme di scorgere i lineamenti di un giudice arcigno del quale, talvolta, è spinto a diffidare.

Una seconda difficoltà, in certo qual modo più oggettiva, dipende dalla diversa impostazione del giudizio cui sono chiamati il giudice italiano (in specie, il giudice di legittimità) e quello europeo. Essendo figlio di una antica e ben radicata tradizione, propria dei paesi di civil law, il giudice italiano è ancora in larga misura propenso a ricercare soprattutto (se non esclusivamente) nel diritto scritto la chiave di risoluzione delle questioni che è chiamato ad affrontare, operando un confronto tra i tratti salienti della vicenda concreta sottoposta al suo esame e la fattispecie astratta disegnata dal legislatore. Anche quando l’interpretazione della voluntas legis è dubbia e richiede l’opera interpretativa della giurisprudenza per tradursi in norma di diritto vivente, egli si sforza di archiviare la soluzione interpretativa in principi di diritto che tendenzialmente mirano a integrare la disposizione di legge interpretata, restando però anch’essi su un piano di astrattezza e generalità. Il sistema delle massime della Corte di cassazione – che, nel suo insieme, appare quasi come una gigantesca glossa del diritto di produzione legislativa – ne è una chiara testimonianza, e si sa che le massime, pur quando si sforzano di contenere riferimenti al caso di specie, restano sempre tendenzialmente sul piano dell’astrattezza e della generalità. Il giudice della Corte di Strasburgo muove anch’egli, evidentemente, da un dato normativo scritto – quale è la Convenzione dei diritti umani – e lo interpreta, ma in una logica e con strumenti concettuali che inevitabilmente risentono anche (se non principalmente) di una diversa tradizione giuridica, propria dei paesi di common law, largamente improntata alla ricerca e al rispetto del precedente: che raramente si traduce, però, in un principio di diritto astrattamente enunciato, ma (come la logica stessa del precedente suggerisce) comporta una assai maggiore attenzione alle caratteristiche specifiche di ogni concreta vicenda per misurarne la maggiore o minore affinità con il caso da decidere. E, infatti, a differenza di quel che accade da noi, la Corte Edu non dispone di un Ufficio del massimario e non pubblica massime ufficiali.

3. La necessità del dialogo: i protocolli d’intesa

Di queste difficoltà occorre essere ben consapevoli, se si vuole cercare di superarle, e per farlo è indispensabile sviluppare sempre più il dialogo tra giudici nazionali e giudici europei, a cominciare dal dialogo tra la nostra Corte di cassazione e la Corte Edu.

Perché questo dialogo progredisca, è indispensabile alimentarlo attraverso strumenti che non siano la mera applicazione delle regole procedurali da cui è disciplinato l’operare dei giudici nelle diverse loro attività giurisdizionali, ma che valgano a realizzare forme di comunicazione reciproca e riescano a garantire un flusso di informazioni tempestive e agevolmente fruibili dall’una e dall’altra parte.

In questo, io credo, risiedono il significato e il valore del protocollo d’intesa tra la Corte di Strasburgo e la Corte di cassazione italiana, che (inserendola nella Rete delle corti superiori europee dei Paesi aderenti alla Cedu) accentua il carattere, per così dire, corale dell’operare di quest’ultima, favorendone la conoscenza delle specificità di ogni singolo ordinamento nazionale e, perciò, facendo sì che la sua giurisprudenza riesca meglio a esprimere la sintesi dei valori e dei principi fondamentali ai quali sono ispirati gli ordinamenti dei singoli Paesi aderenti alla Cedu. Al medesimo tempo, si consente alla Corte suprema nazionale di sentirsi essa stesa partecipe del processo di elaborazione del diritto vivente sovranazionale e di sentirlo non come un corpo estraneo col quale faticosamente e a malavoglia si deve convivere, bensì come parte integrante del proprio patrimonio giuridico di riferimento.

Naturalmente, occorrerà altro tempo perché questo relativamente nuovo strumento di dialogo e di confronto possa essere messo perfettamente a punto e, senza dubbio, si dovrà ancora lavorare prima di realizzarne a pieno tutte le potenzialità, ma credo che sia questa la strada giusta da percorrere.

Il diritto, oggidì, non è più fatto solo da disposizioni cogenti di legge e non è più solo espressione della sovrastante volontà dello Stato legislatore (ammesso che mai, davvero, così sia stato), ma sempre più è integrato da strumenti complementari (che li si voglia o meno definire di soft law), che nascono dal basso e sono destinati a indirizzare il comportamento degli operatori tutti, compresi i giudici. I protocolli d’intesa, in questo come in molti altri campi, sono ormai sempre più presenti nella “cassetta degli attrezzi” del giurista. Talvolta fanno storcere un po’ il naso ai tradizionalisti, ma assai più proficuo è prenderne atto e cercare di utilizzarli al meglio.