Magistratura democratica

I diritti dei detenuti (diversi dalle condizioni di detenzione) ancora non riconosciuti

di Patrizio Gonnella
Il presente contributo ripercorre la giurisprudenza della Corte Edu nei casi in cui ricorrente sia una persona privata della libertà, pur in assenza di norme specifiche presenti nella Cedu. Contro una visione “monadica” della condizione di detenuto, le pronunce della Corte in esame interessano temi e ambiti paradigmatici, selezionati al fine di sostenere la tesi dell’universalità di taluni diritti civili e politici nonché la fondatività costituente della dignità umana.

1. La non menzione della condizione di detenuto nella Convenzione europea del 1950

Non c’è, all’interno della Convenzione europea dei diritti umani del 1950, un riferimento esplicito alla condizione di «persona privata della libertà». Eppure, nel tempo, dalle prigioni di tutta Europa, la Corte Edu è stata raggiunta da decine e decine di migliaia di ricorsi. L’intuizione originaria di non dedicare ai detenuti una norma specifica, bensì di considerarli quali potenziali titolari di tutti i diritti positivizzati nel trattato, ha avuto un effetto significativo, ossia non ha ghettizzato i detenuti all’interno della cornice penitenziaria. I detenuti non sono stati confinati in una sorta di sotto-insieme normativo protetto ed escludente.

Non è ovviamente possibile dimostrare cosa sarebbe accaduto in termini di quantità di ricorsi e di qualità della giurisprudenza della Corte qualora, all’interno della Convenzione, ci fossero state norme ad hoc per i detenuti. Si può, comunque, ragionevolmente sostenere che il principio di universalità dei diritti umani adottato nel 1950 ha favorito il superamento della trattazione dei confini tradizionali del contenzioso giudiziario in ambito penitenziario. In tal modo, l’area dell’approfondimento giudiziario si è allargata fino a ricomprendere diritti e temi non strettamente attinenti ai maltrattamenti da parte dell’istituzione o alle condizioni di vita detentiva, e che sono, di solito, raramente oggetto della supervisione delle corti interne in ambito carcerario. Qualora, ad esempio, le Regole penitenziarie europee fossero state elevate a protocollo addizionale alla Convenzione, probabilmente a Strasburgo sarebbe giunta una mole enorme di ricorsi dalle carceri d’Europa, con una – però – probabile costrizione nei confini tipicamente penitenziari delle Regole del 2006, ossia senza allargamenti verso temi di carattere universale.

Fatta questa premessa, saranno quattro i campi giuridici che prenderò in considerazione per la loro paradigmaticità:

  1. nell’ambito dei diritti politici, il diritto di voto, quale fattore primario di partecipazione alla vita pubblica, e il suo legame indissolubile con la nozione di democrazia;
  2. nell’ambito delle libertà politiche, il diritto al dissenso e alla protesta pacifica, che i detenuti usualmente esprimono attraverso lo sciopero della fame, e che qualifica una società come più o meno tollerante rispetto ai non omologati al potere;
  3. nell’ambito dei diritti civili, i diritti riproduttivi, che connettono il passato del detenuto al suo presente recluso e all’incerto futuro che lo attende;
  4. nell’ambito delle libertà fondamentali in sede giudiziaria, il diritto al silenzio della persona detenuta.

2. Il diritto di voto

L’art. 3 del primo Protocollo addizionale alla Cedu afferma in modo perentorio che «Le Alte Parti Contraenti si impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo». Su cosa si intenda per «popolo», a lungo giuristi, filosofi, storici, antropologi e geografi si sono interrogati. Il suffragio universale è stato la grande conquista delle democrazie liberali novecentesche. La limitazione soggettiva del diritto di voto è stata a lungo fonte di discriminazione, a partire da quella tra donna e uomo.

Può dunque una condizione personale, come quella di prigioniero, determinare la negazione temporanea o addirittura perpetua del diritto di voto? Può uno stato temporaneo di reclusione impedire a un cittadino di sentirsi – attraverso la scelta del corpo legislativo – parte del popolo? L’universalità del diritto di voto è ribadita all’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, che non prevede eccezioni: «Ognuno ha il diritto a prendere parte al governo del suo Paese, direttamente oppure tramite rappresentanti liberamente scelti (…). La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale (…)».La norma è riproposta in forma cogente all’art. 25 del Patto sui diritti civili e politici del 1966.

Il suffragio universale è intimamente collegato al principio di non discriminazione, all’uguaglianza formale e sostanziale, al rispetto della dignità umana. Il diritto di voto è, però, una scatola vuota se non sono al contempo assicurati la libertà di informazione, il diritto a essere informati, la libertà di coscienza, il diritto a dissentire.

Nelle Regole penitenziarie europee del 2006 non vi è riferimento espresso al diritto di voto dei detenuti. Nei trattati internazionali sui diritti umani, le uniche eccezioni al suffragio universale sono quelle fondate sull’età non adulta o sui vizi di mente degli elettori potenziali. In questi casi, la democrazia viene protetta dalla manipolazioni della volontà. Non vi è riferimento, all’interno del sistema convenzionale Onu, a restrizioni legate alla condizione di detenuto, ex detenuto o di persona condannata in sede penale.

La Corte europea dei diritti umani si è occupata del diritto di voto dei detenuti con una giurisprudenza importante, seppur non sempre coerente. La Corte di Strasburgo ha avuto un contenzioso duro e irrisolto con il Regno Unito a partire dalla sentenza Hirst, del 2005.  Il ricorrente si era rivolto alla Corte in quanto, dopo la sua condanna all’ergastolo, era stato privato del diritto voto. Nel Regno Unito, la negazione del diritto di voto riguarda chiunque subisca una condanna al carcere. La Corte sentenziò in modo inequivocabile, in quella circostanza, che ci fosse «un’automatica e discriminatoria restrizione del diritto di voto del ricorrente a causa del suo solo status di detenuto». Nonostante le sollecitazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, le autorità britanniche tennero il punto e, nel nome della propria sovranità politica nazionale, non modificarono la legislazione in vigore. Il tutto nonostante le condanne, che iniziarono a reiterarsi. Nel caso McHugh e altri c. Regno Unito, del 10 febbraio 2015, ben 1.015 detenuti avevano lamentato, analogamente a Hirst, la violazione dell’art. 3 Protocollo n. 1 addizionale alla Cedu. Essendo il caso identico a quello del 2005, la Corte condannò nuovamente il Regno Unito.

In base a una ricognizione effettuata dallo stesso Consiglio d’Europa, ci sono Paesi dove non esistono limiti di natura giudiziaria all’esercizio del diritto di voto (ad esempio: Danimarca, Spagna, Finlandia, Irlanda, Svezia, Svizzera), Paesi che, all’opposto, negano a tutti i detenuti senza eccezioni il diritto di voto (ad esempio: Bulgaria, Ungheria, Regno Unito e Russia) e infine Paesi, come l’Italia, che hanno adottato una legislazione di compromesso e che legano il diritto di voto alla durata della pena e, di conseguenza, alla gravità del crimine commesso. A proposito dell’Italia, nel 2012, nel caso Scoppola, la Grand Chamber della Corte di Strasburgo, dopo una prima decisione che condannava il nostro Paese, in ultima istanza ha salvato l’Italia dalla condanna, ricordando come agli Stati sia riservato comunque un margine di apprezzamento. Nello specifico italiano, non sarebbe stata messa in discussione «l’integrità e l’effettività di una procedura elettorale volta a determinare la volontà del popolo attraverso il suffragio universale». Nella legislazione italiana il diritto di voto, come pena accessoria, è negato a chi è condannato a pene superiori ai cinque anni – una pena accessoria che accompagna il detenuto anche quando ha finito di scontare la sanzione carceraria. La Corte, pur spingendosi in terreni propri della sovranità penale degli Stati, ha evitato di forzare troppo la mano.

I giudici di Strasburgo, ribadendo il principio sancito nel caso Scoppola, sono giunti a esiti opposti nei confronti dell’Austria (Frodl, 2010), della Russia (Anchugov e Gladkov, 2013), della Turchia (Söyler, 2013; Murat Vura, 2014), della Bulgaria (Kulinsky e Sabev, 2016), della Georgia (Ramishvili, 2018). In tutti questi casi, la Corte ha condannato i rispettivi Paesi, sostenendo vi fosse violazione dell’art. 3 Protocollo n 1. I giudici hanno più volte ripetuto che è inaccettabile una generalizzata cancellazione del diritto di voto, e che fosse eccessivo il margine di apprezzamento riservato allo Stato e troppo severa la legislazione. Così, si è cercato di “salvare capra…” (il diritto di voto dei detenuti come espressione del suffragio universale) “… e cavoli” (la sovranità politica e penale degli Stati-nazione).

Dunque, solo nel caso di esclusione generalizzata dal diritto di voto la Corte sostiene vi sia violazione della Convenzione.

Il diritto di voto ai detenuti è una delle frontiere del suffragio universale. Nel 1999, la Corte costituzionale del Sudafrica (August e altro c. Commissione elettorale e altri, CCT 8/99), a proposito del diritto di voto delle persone private della libertà, sentenziò che «il voto di ogni cittadino è simbolo della dignità e identità individuale. Letteralmente ciò significa che ognuno conta». Il diritto di voto è fondato sulla dignità umana. Chiunque sia escluso dalla grande manifestazione elettorale democratica è escluso dalla società politica e, pertanto, privato della dignità umana. Tutti, sostenne la Corte, debbono poter partecipare alle scelte politiche, sia chi ha rispettato le regole sia chi le ha infrante. Nel 2002, nel Canada liberale, c’è stata un’altra sentenza di analoga portata universalista pronunciata dalla Corte suprema (Sauvé c. Canada 3 RCS 519, 2002, CSC 68). Queste le parole scritte dalla presidente della Corte canadese: «La storia della democrazia corrisponde a quella della concessione progressiva del voto. L’idea secondo la quale determinate persone non sono moralmente adatte a votare e a partecipare al processo di elaborazione delle leggi, o moralmente degne di farlo, è antica e desueta». A seguito di questa sentenza, a tutti i detenuti è stato concesso il diritto di voto. Secondo la Corte suprema canadese, tale diritto non può essere ridimensionato – come avviene in Italia – a premio conseguente alla valutazione del comportamento individuale o essere concesso solo a chi abbia commesso reati lievi. Sudafrica e Canada hanno sancito l’universalità del diritto di voto, sottraendolo a logiche meritocratiche e parziali.

La Corte Edu ha fatto un passo in questa direzione – passo fortemente contestato dal Regno Unito, con argomentazioni sovraniste.

3. Il diritto di protesta

L’essere privati della libertà personale rende più complesso l’esercizio del diritto di protesta. Il detenuto è nella disponibilità fisica e psicologica dei suoi custodi. La sua è dunque una condizione di non libertà, che potrebbe produrre un sentimento di insicurezza personale il quale, a sua volta, non facilita l’esercizio del diritto di critica, di dissenso e di protesta. Il prigioniero si può sentire impaurito, minacciato, ricattato e può così decidere di rinunciare a priori ad azioni di protesta, che potrebbero produrre ripercussioni anche violente. Il detenuto sa anche che ogni sua lamentela, opposizione, lagnanza, ribellione individuale (o collettiva, in caso di sua adesione) potrebbe comportare rischi di rappresaglia, di punizioni informali o formali, di trasferimenti in luoghi lontani.

La forza di una democrazia costituzionale sta nel garantire a tutti, a prescindere dallo status o dalla situazione in cui versi la persona, e dunque anche ai detenuti, l’esercizio non-violento del diritto di protesta.

Lo sciopero della fame è una delle tipiche forme di protesta di chi è in prigione. Non sono molte le opportunità, per i detenuti, di poter far uscire la propria voce fuori dal buio e dal silenzio di una cella.

Nella storia della politica, delle conquiste democratiche e dei movimenti di protesta merita una menzione lo sciopero della fame condotto da prigionieri. Esso ha una sua origine storica nelle battaglie nonviolente del Mahatma Ghandi. Il 20 settembre del 1932 Ghandi iniziò lo sciopero della fame mentre era in carcere a Yeravda, in India. Protestava contro la discriminazione elettorale e sociale dei paria. Il digiuno durò per sei lunghi mesi e Ghandi rischiò seriamente di morire. Alla fine, vinse la sua battaglia contro il Governo laburista presieduto da Ramsay MacDonald.

Bobby Sands, militante dell’Ira, morì nel carcere di Maze, a Long Kesh, in Irlanda del Nord, dopo ben sessantasei giorni di sciopero della fame praticato per denunciare il trattamento disumano al quale erano sottoposti i prigionieri irlandesi di fede repubblicana.

Questi due riferimenti storici spiegano cosa significhi, in un carcere, portare avanti fino alla fine (morte o raggiungimento dell’obiettivo perseguito) lo sciopero della fame: è la forma estrema di protesta attraverso la quale è messo a rischio il proprio corpo. Per questo, la decisione del detenuto va trattata con grande delicatezza, equilibrio e massimo rispetto per la sua libertà di coscienza. Da un lato, vi è la libertà di scelta e di coscienza del detenuto, che comprende la sua decisione discrezionale di sottoporsi a trattamento medico; dall’altro, l’obbligo pubblico di salvaguardia della vita umana di fronte a intenti auto-soppressivi. Il punto di confine tra diritto individuale alla protesta e dovere statale di protezione della vita deve essere individuato con grande circospezione. Non va mai umiliata la libertà di dissenso, va assicurato sostegno medico e psicologico a chi intraprende lo sciopero della fame e/o della sete, vanno ascoltate le ragioni profonde di chi protesta, va previsto un intervento sanitario di alimentazione o idratazione forzata solo nel caso di persona ormai non più capace di intendere e volere. Il detenuto che dichiari di volersi astenere dal cibo non deve essere punito o vessato per questo motivo, né isolato, né ovviamente ammanettato o controllato in modo ossessivo. Ogni coazione fisica, ogni rappresaglia istituzionale (anche solo minacciata) che ha come obiettivo la punizione per la protesta intrapresa, degrada il diritto al dissenso in qualcosa di addirittura illecito; inoltre, ha un effetto dissuasivo verso l’esercizio del diritto di protesta di altri detenuti. Pertanto, la punizione del detenuto che protesta pacificamente è inaccettabile in uno Stato democratico di diritto.

La giurisprudenza della Corte Edu ha dovuto muoversi all’interno di questo corridoio stretto, tra motivazioni giuridiche, etiche e bilanciamenti vari. Nel caso Nevmerzhitsky c. Ucraina, deciso il 5 aprile del 2005, il ricorrente, in sciopero della fame contro i maltrattamenti subiti in carcere, denunciava di essere stato sottoposto ad alimentazione forzata. Denunciava, altresì, che ciò avveniva in modo umiliante e violento, essendo egli ammanettato a una sedia o a un impianto di riscaldamento, nonché costretto a deglutire attraverso un tubo di gomma collegato a un secchio. In questa decisione, la Corte si è soffermata principalmente sulle procedure di alimentazione forzata, ritenute crudeli e disumane e, dunque, violative dell’art. 3 della Convenzione. Secondo i giudici di Strasburgo non era, inoltre, dimostrato da parte del Governo ucraino che fosse necessario, dal punto di vista medico, forzare la volontà del ricorrente alimentandolo contro le sue scelte. La Corte, in tale decisione, non solo ha contestato le modalità di esecuzione dell’alimentazione forzata, ma anche la mancanza di giustificazione medica del trattamento forzato, ritenendolo arbitrario e punitivo. L’alimentazione forzata irragionevole è, per la Corte, solo un modo per interrompere il legittimo diritto di protesta.

Il diritto alla protesta della persona detenuta prende forma e sostanza nella sentenza Ciorap c. Repubblica di Moldavia, del 19 giugno del 2007. La Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’art. 3 della Convenzione, che proibisce la tortura e i trattamenti inumani, crudeli e degradanti. L’alimentazione forzata, secondo la Corte, era del tutto ingiustificata e configurava un vero e proprio maltrattamento. Il Governo aveva fallito nel provare che la vita o la salute del richiedente fossero state in serio pericolo e richiedessero supporto medico. L’alimentazione forzata era solo ed effettivamente mirata a scoraggiarlo dal continuare nella sua protesta.

La protesta nelle carceri, spesso, assume forme collettive e va oltre l’esercizio individuale. Non di rado, accade che i detenuti si organizzino con uno sciopero della fame di massa. Era accaduto in Ucraina nel 2007; la decisione della Corte arrivò sei anni dopo, il 17 gennaio 2013, nel caso Karabet e altri c. Ucraina. I detenuti ricorrenti avevano preso parte a uno sciopero della fame collettivo per protestare contro le loro condizioni di detenzione. Intervennero con la forza i gruppi speciali di polizia e adottarono misure punitive nei confronti dei presunti organizzatori della protesta, trasferendoli in altre prigioni. La Corte ha ritenuto che vi fosse una violazione dell’art. 3 Cedu a causa dei maltrattamenti a cui i detenuti erano stati sottoposti per avere protestato pacificamente.

Dunque, l’esercizio del diritto pacifico di protesta spetta anche a chi è privato della libertà. La carcerazione non giustifica compressioni del diritto o punizioni per chi lo esercita. Il detenuto, salvo non si dimostri che la sua volontà non sia integra, non deve subire mai coazione a un trattamento medico. L’alimentazione forzata è quindi inammissibile, se serve a interrompere l’azione pacifica di protesta di una persona cosciente.

Altra questione è quella relativa al fondamento etico dello sciopero della fame come esercizio non violento di pressione politica, usato per il raggiungimento di obiettivi politici o personali.

4. I diritti riproduttivi

In un Paese come l’Italia, che con legge (n. 40/2004) nega ai cittadini liberi la fecondazione assistita eterologa, che ha dovuto attendere il pronunciamento plurimo delle corti interne e sovranazionali per assicurare a donne e uomini maggiore liberalità nella vita riproduttiva, e che nega la possibilità ai detenuti di avere rapporti sessuali con i propri partner, il tema dei diritti riproduttivi per i detenuti riveste un’evidente importanza intrinseca, aprendo a riflessioni giuridiche ed etiche rilevanti.

Un detenuto recluso nelle carceri italiane non ha diritto alla sessualità. Per poter avere rapporti intimi con il proprio partner, dovrà attendere la concessione di un permesso premio, deciso discrezionalmente dal magistrato di sorveglianza dopo avere verificato quale sia il crimine commesso, quanta pena la persona abbia scontato e se ha tenuto un comportamento meritevole di giudizio positivo. Ne deriva che la sessualità (a fini riproduttivi e non) è riservata a poche persone valutate degne di un premio. Il diritto alla sessualità non è codificato nell’ordinamento penitenziario italiano, a differenza di quanto accade in molti Paesi dell’area del Consiglio d’Europa.

Il 4 dicembre 2007, dopo una prima decisione che andava in direzione opposta, la Grande Camera della Corte Edu, nel caso Dickson c. Regno Unito, ha sostenuto che vi fosse una violazione dell’art. 8 Cedu, che stabilisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. Il caso era quello di un detenuto, condannato a scontare quindici anni di carcere per omicidio, cui era stata negata la possibilità di accesso alle pratiche di inseminazione artificiale insieme alla propria moglie, anch’essa detenuta. Avendo la donna un’età tale da rendere quasi impossibili le sue possibilità di procreazione naturale, la Corte dette ragione al ricorrente. Moglie e marito si erano conosciuti in carcere. La vicenda aveva avuto un lungo e complesso percorso giuridico e amministrativo interno. Le autorità inglesi avevano rigettato l’istanza dei ricorrenti, affermando come la sessualità dei detenuti andasse comunque ancorata a valutazioni di meritevolezza, un principio non troppo diverso da quello che governa la negazione della sessualità nelle carceri italiane.

Il caso giunto davanti ai giudici di Strasburgo era, comunque, un caso limite. Riguardava una coppia di detenuti, di età non giovane, uno dei quali condannato per reati molto gravi. Il caso avrebbe facilitato considerazioni negative di tipo morale (del tipo: “non a tutti i detenuti va data l’opportunità di mettere al mondo un figlio, ma solo a chi abbia commesso reati non gravi o a chi si sia ben comportato in prigione”) o di natura pedagogica (“bisogna guardare all’interesse del nascituro, che si troverebbe a essere figlio di due detenuti”). D’altronde, furono queste le valutazioni evidenziate in modo esplicito dalle autorità inglesi nel decidere il rigetto della richiesta dei Signori Dickson. Il caso, nel suo essere una vicenda “di confine”, ha consentito alla Corte di definire il diritto di procreare e di formarsi una famiglia un diritto non comprimibile sulla base di giudizi morali o di prognosi sul benessere futuro dei bambini. D’altronde, una valutazione di questo tipo legittimerebbe pratiche di sterilizzazione forzata.

Quello alla riproduzione è un diritto spettante sia alla persona detenuta che al partner libero (non è il caso Dickson), che intenda avere un figlio dalla prima. Il detenuto non è una “monade sociale”, ma ha relazioni umane e affettive, che vengono compromesse da decisioni che comprimono i suoi diritti.

La decisione della Grande Camera ha sicuramente influenzato il formarsi di una giurisprudenza interna ai singoli Stati. In Italia, con sentenza 20 febbraio 2008, n. 7791, la Cassazione ha affermato che anche il detenuto sottoposto al regime duro di cui all’art. 41-bis, comma 2, dell’ordinamento penitenziario, e dunque soggetto a una carcerazione rigida, può ottenere l’autorizzazione al prelievo di liquido seminale al fine di consentire alla moglie di procreare artificialmente. Pertanto, il diritto alla riproduzione e alla genitorialità spetta anche a chi sia considerato il peggior criminale. Si tratta di un diritto dalla portata universale, che deve essere del tutto sottratto a valutazioni di meritevolezza: lo si è chiarito in sede giurisdizionale europea e nazionale, partendo da casi limite.

5. Il diritto al silenzio

La tortura è un crimine contro l’umanità. L’articolo 3 della Convenzione, così come altri trattati internazionali sui diritti umani, affianca alla proibizione della tortura quella dei trattamenti inumani e degradanti. La radice semantica, filosofica ed etica è la stessa. Secondo la definizione kantiana di “dignità umana”, questa si sostanzia nell’irriducibilità e non degradabilità dell’uomo a oggetto, nel suo mai essere mezzo e sempre fine. La dignità umana kantiana è, dunque, l’umanità. Il trattamento degradante o inumano, così come le radici delle parole suggeriscono, è un trattamento che comunque ha a che fare con la violazione della dignità umana.

Sin dalla Dichiarazione universale dei diritti mani del 1948, la dignità umana è posta a fondamento di tutti i diritti umani. Seppure essa non sia richiamata in modo esplicito nel testo della Cedu, da decenni la Corte di Strasburgo, e precisamente dalla sentenza Tyrer c. Regno Unito, del 25 aprile 1978, ha affermato categoricamente che la dignità umana non può mai essere violata, neanche in tempo di guerra. Non sono dunque ammesse eccezioni alla sua assolutezza. La Corte ha desunto la fondatività costituente dei diritti umani proprio dall’art. 3 Cedu – e, del resto, il successivo art. 15 richiama proprio l’art. 3 tra le poche norme inderogabili del trattato.

Non c’è codice di procedura penale di Paese a forte solidità democratica che non preveda il diritto al silenzio della persona sotto processo. Il silenzio, in tutte le fasi del processo, non può mai essere penalizzato. Esso non è solo parte della strategia processuale: la libertà di tacere fa parte del “contenitore” giuridico più ampio della libertà di esprimersi senza costrizioni o limiti.

Il diritto al silenzio trova posto entro il campo giuridico e semantico della tortura giudiziaria. La confessione estorta con la violenza o la minaccia contribuisce alla configurazione del crimine proprio di tortura. Il diritto al silenzio è dunque posto a protezione dal rischio di essere torturati e si fonda anch’esso sulla nozione giuridica di dignità umana.

L’ergastolo ostativo, nella legislazione italiana, nega il diritto al silenzio. Il silenzio del detenuto, in base a quanto previsto dall’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario, osta alla concessione di benefici penitenziari. Se da un lato, però, dal punto di vista dei principi fondamentali, la collaborazione può giustificare eventuali sconti di pena o facilitazioni di trattamento, dall’altro, invece, la non collaborazione non può legittimare un aggravamento della condizione detentiva sino alla previsione della pena perpetua senza speranza di uscita dal carcere. In questo modo viene violato il diritto sacro al silenzio. Tanto più se il silenzio, qualora rotto – come la storia della criminalità organizzata insegna – mette a rischio la vita propria e dei propri cari. L’ergastolo ostativo viola la dignità umana nel momento in cui nega il diritto al silenzio e degrada la persona a mezzo per il raggiungimento di un fine investigativo.

Su questo argomento, e sul contrasto con l’art. 3 della Convenzione europea, dovrà esprimersi a breve la Corte Edu, nel caso Viola c. Italia. Il grande tema è quello dell’ergastolo senza speranza, che potrebbe essere travolto dal riconoscimento dell’assolutezza del diritto al silenzio, che si fonda sulla primarietà della dignità umana rispetto alla sovranità penale degli Stati.