Magistratura democratica

Dialogo tra le corti e giurisprudenze a confronto sulla controversa natura delle sanzioni amministrative

di Renato Bernabai
Il testo esamina le diverse posizioni della giurisprudenza nazionale e della Corte Edu in materia di sanzioni amministrative, soffermandosi sul problema della loro qualificazione giuridica, dell’applicabilità del principio del ne bis in idem e di quello della retroattività in mitius delle relative norme.

1. Premessa

È opinione corrente in dottrina che, in tema di tutela dei diritti fondamentali, si vada verso la realizzazione di un sistema giuridico generale e stratificato, alla cui formazione concorrano la normativa primaria interna, quella comunitaria e quella internazionale, cui corrispondono diverse corti di riferimento, con la fusione di orizzonti costituzionali prefigurata dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 53).

Con particolare riguardo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Corte costituzionale, con le pronunce gemelle nn. 348 e 349 del 2007 – rispettivamente, in tema di espropriazione per pubblica utilità e di occupazione acquisitiva –, ha chiarito che le sue disposizioni, così come interpretate dalla Corte Edu, integrano, quali norme interposte, il parametro di cui all’art. 117 Cost., nella parte in cui impone la conformazione ai vincoli internazionali: con riflessi, quindi, su possibili profili di illegittimità delle norme interne. Il giudice, lungi dal disapplicare la norma interna, deve quindi sollevare questione di legittimità costituzionale, in caso di rilevata incompatibilità.

Al riguardo, va ricordato che il 2 aprile 2013 è stato aperto alla firma il Protocollo n. 16, che introduce la inedita possibilità, per i giudici nazionali di ultima istanza, di rivolgersi direttamente alla Corte di Strasburgo per chiedere un parere consultivo o un’opinione non vincolante sull’interpretazione del diritto della Cedu su questioni di principio della Convenzione e dei protocolli.

Si profila, pertanto, il rischio di una triplice pregiudizialità: potendo il giudice di ultima istanza ritenere necessarie, nel corso dello stesso giudizio, sia la pregiudiziale costituzionale, sia quella comunitaria, sia quella convenzionale, con effetti pregiudizievoli sulla durata ragionevole del processo. In più, si prospettano profili di contrasto tra talune affermazioni della Corte europea e principi del nostro ordinamento, anche di rilievo costituzionale, che pongono delicati problemi di composizione e financo di controlimiti da opporre in sede giurisdizionale.

2. La problematica delle sanzioni amministrative

Fondamentale – anche se non radicalmente innovativa – si palesa, sul tema, la sentenza 4 marzo 2014 della Corte Edu, Grande Stevens e altri c. Italia, con cui è stata riconosciuta la violazione dell’art. 6 Cedu (e dell’art. 4 Protocollo n. 7), in tema di abusi di mercato, per contrasto con il diritto al giusto processo e con il divieto del ne bis in idem. Il caso, che ha ricevuto ampia eco nei mezzi di comunicazione, anche per la notorietà dei personaggi implicati, traeva origine da una contestazione di manipolazione del mercato in conseguenza di un comunicato al pubblico, non del tutto veritiero, relativo a una complessa vicenda finanziaria, che non faceva cenno a un progetto di rinegoziazione, al fine – secondo l’addebito – di evitare possibili effetti sul prezzo delle azioni di altra società di primaria importanza.

Ne conseguiva un procedimento amministrativo davanti alla Consob, la cui decisione di condanna era poi ridotta dalla Corte di appello di Torino, con ammende variabili tra 500.000 e 3 milioni di euro (oltre all’interdizione dall’amministrare, dirigere o controllare società quotate in borsa per un tempo compreso tra due e quattro mesi), divenendo, infine, esecutiva a seguito di rigetto del ricorso per cassazione.

A esso faceva seguito un procedimento penale, con condanna in primo e secondo grado, annullata peraltro dalla Corte di cassazione per prescrizione dei reati.

Il successivo ricorso davanti ai giudici di Strasburgo aveva a oggetto la violazione dell’art. 6 Cedu per contrasto del procedimento amministrativo davanti alla Consob con il principio del giusto processo (sotto diversi profili: mancanza del contraddittorio; mancata pubblicità del procedimento), nonché per violazione del divieto del ne bis in idem, sancito nell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione, data la sostanziale identità di natura, nella specie, della pena per il reato e della sanzione amministrativa (artt. 187- ter e 185, punto 1, d. lgs n. 58/1998).

Nell’accogliere in parte qua il ricorso, la Corte europea ha enunciato i seguenti principi:

  1. le sanzioni derivanti dalla violazione dell’art. 187-ter, comma 1, d. lgs 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico sull’intermediazione finanziaria - Tuf) hanno natura penale ai fini dell’art.6 Cedu;
  2. la Consob non offre le garanzie di imparzialità proprie dell’equo processo penale, perché i ricorrenti non sono stati posti in condizioni di conoscere e di interloquire, né mediante memorie e documenti né tramite audizione orale, relativamente a tutti gli atti istruttori del procedimento amministrativo; inoltre, non c’è stata eguaglianza tra accusa e difesa, è mancata un’udienza pubblica e si è realizzata un’ibrida commistione, nel medesimo organo, di competenze istruttorie e giudicanti;
  3. il successivo procedimento di opposizione, dinanzi alla corte d’appello, è viziato anch’esso dall’assenza di un’udienza pubblica;
  4. il procedimento ex art. 185 Tuf, dopo che vi era stata condanna definitiva per la violazione dell’art.187-ter, ha dato luogo a violazione del divieto del ne bis in idem stabilito all’art. 4 del Protocollo n. 7.

 

Trattandosi di aspetti critici suscettibili di reiterazione casistica, appare opportuno saggiarne la compatibilità con il diritto vivente interno.

3. La concezione sostanzialistica della natura penale delle norme

L’ipostatizzazione del canone di equiparazione della sanzione amministrativa a quella penale, enunciato dalla Corte Edu con riferimento a fattispecie concrete, può portare ad antinomie irriducibili con principi di rango costituzionale, oltre che di consolidata tradizione dogmatica. Tali sono, ad esempio: la riserva assoluta di legge per le norme penali (art. 25 Cost.), che comporterebbe l’illegittimità di ogni sanzione afflittiva di matrice regolamentare; la presunzione di non colpevolezza (pure affermata in Corte Edu, Grayson e Barnham c. Regno Unito, 23 settembre 2008), che, interpretata in tutta la sua estensione, renderebbe illegittima la provvisoria esecutività di condanne pecuniarie, normale in materia extrapenale e vieppiù potenziata, nel diritto amministrativo, al rango di esecutorietà, nei casi previsti dalla legge: con possibilità della stessa pubblica amministrazione di eseguire il proprio provvedimento in regime di autotutela.

Soprattutto, l’assimilazione quoad effectum delle fattispecie punitive comporterebbe, di necessità, il divieto di retroattività della sanzione amministrativa, da un lato; dall’altro, l’opposta retroattività della lex mitior (patrocinata da parte della dottrina), a somiglianza dell’abolitio criminis o dell’attenuazione della pena in senso stretto (art. 2, commi 2 e 3, cp).

Non senza aggiungere che la vis expansiva dell’assimilazione sarebbe potenzialmente in grado di investire anche fattispecie sanzionatorie di tipo civile (astreinte, condanna per lite temeraria ex art. 96 cpc, come pure danni punitivi, qualora riconosciuti ammissibili nel nostro ordinamento) e financo disciplinari.

La portata imprevedibile degli effetti a cascata di questa impostazione concettuale induce a ritenere che la strada da seguire sia, piuttosto che l’equiparazione indifferenziata (che, tra l’altro, segnerebbe, in controtendenza con una politica del diritto evolutiva, un mouvement de pénalisation di segno culturalmente regressivo), la tecnica del distinguishing; ciò senza escludere a priori la rilevanza di aspetti profondamente distintivi tra le fattispecie: ad esempio, la mancanza della pena reclusiva, l’aggravamento da recidiva e, in generale, lo stigma sociale incontestabilmente più grave per il soggetto attinto da condanna penale.

Né appare riferibile al legislatore italiano l’eventuale espediente elusivo, pure adombrato in talune enunciazioni teoriche della giurisprudenza di Strasburgo, di una configurazione amministrativa dell’illecito proprio al fine di evitare le accentuate garanzie proprie del processo penale (cd.“truffa delle etichette”): atteggiamento da Stato autoritario che, pur non assente storicamente nella passata normativa italiana (le vecchie misure di confino, irrogate da autorità amministrative per la diffidenza del regime fascista verso la residua autonomia della magistratura), non sembra francamente  ipotizzabile in un moderno Stato di diritto fondato su valori democratici.

In sintesi, la ricorrenza di specifici caratteri comuni non comporta, di necessità, la reductio ad unum della sanzione amministrativa e penale a tutti gli effetti, in virtù di assonanze formali, talvolta ridondanti nella magia delle parole (“afflittività”) – oltre al rilievo che una pluralità di sanzioni (detentiva, pecuniaria, interdittiva) è, spesso, prevista cumulativamente dalla stessa normativa penale, a fini diversi e non sovrapponibili.

Lo stesso approccio sostanzialistico e pragmatico della Corte Edu, peraltro, è d’ausilio nell’evitare derive interpretative eversive dei tradizionali confini tra fattispecie tradizionalmente distinte e di matrice eterogenea, che appaiono imputabili, il più delle volte, a una non disinteressata strategia difensiva in sede processuale.

In ordine al secondo e terzo motivo di condanna sopra indicati, riconducibili alla carenza di garanzie di imparzialità proprie dell’equo processo penale, si osserva che, se le garanzie fossero già assicurate nella fase amministrativa, neppure sarebbe necessaria la successiva fase giurisdizionale.

Al riguardo, l’art. 24 della legge 28 dicembre 2005, n. 262 («Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari») prescrive che «i procedimenti sanzionatori sono svolti nel rispetto dei principi della piena conoscenza degli atti istruttori, del contraddittorio, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie rispetto all’irrogazione della sanzione».

In senso analogo, prescrive l’art. 187-septies, comma 2, Tuf, con riguardo alle sanzioni Consob: «(…) il procedimento è retto dei principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori, della verbalizzazione nonché della distinzione tra funzioni istruttorie e funzioni decisorie»; tuttavia il nuovo regolamento della Consob, emanato con deliberazione del 19 dicembre 2013, n. 18750, non risolve tutte le criticità.

La stessa direttiva comunitaria 2003/6/CE, sugli abusi di mercato (market abuses), contiene, al considerando n. 44, analoghe prescrizioni: «La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea».

 Non sembra, comunque, che la sentenza Grande Stevens ponga, sul punto, difficoltà di adattamento insormontabili, visto che ha ritenuto sufficiente il sindacato giurisdizionale successivo della corte d’appello per ristabilire il rispetto del diritto di difesa: ciò mette al riparo da infrazioni, se anche il principio del contraddittorio resti non pienamente garantito nel procedimento amministrativo.

Un elemento di criticità può essere ravvisato, semmai, nella ritenuta esigenza di un’udienza pubblica, visto il ricorso sempre più frequente, nel sistema processuale italiano, al giudizio camerale. Quest’ultimo, peraltro, rispettando la struttura bilaterale e il diritto alla prova, non lede, di per sé solo, il principio del contraddittorio, come ripetutamente enunciato dalla Corte costituzionale, che ha parlato di un «contenitore neutro», idoneo alla trattazione di diritti soggettivi e della discrezionalità legislativa nella conformazione di modelli processuali (cfr., ex plurimis, Corte cost., 16 aprile 1985, n. 103; Corte cost., 9 gennaio 1997, n. 7; Corte cost., 16 gennaio 2002, n. 35).

4. Ne bis in idem

Il principio del ne bis in idem, comune a ogni ordinamento europeo, è sancito nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo dall’art. 4, par. 1, Protocollo n. 7 («Nessuno può essere perseguito e condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale sia già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva, conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato»).

Se non vi sono contrasti, in sede concettuale, sull’esistenza del divieto, difficoltà non lievi sorgono, invece, dalla delimitazione del suo campo di applicazione.

In varie materie – tra cui la manipolazione del mercato – vige, infatti, in Italia il principio del cd. “doppio binario”: le condotte possono essere punite sia con sanzione penale, sia con sanzione amministrativa – nel caso Grande Stevens, rispettivamente, ex artt. 185 («Manipolazione del mercato») e 187-ter («Abuso di informazioni privilegiate») Tuf.

La Corte di Strasburgo, svalutando però il nomen iuris in favore di un’interpretazione sostanzialistica, procede ad autonome ridefinizioni, che l’hanno portata a qualificare come «penalty» qualsiasi misura di carattere punitivo capace di incidere pesantemente nella sfera soggettiva degli individui (prassi interpretativa risalente, almeno a partire dalla sentenza Engel c. Paesi Bassi, dell’8 giugno 1976).

In tale cornice concettuale, diventano discriminanti il carattere non meramente risarcitorio, o ripristinatorio, della sanzione e la sua gravità: requisiti, però, da valutare alternativamente, e non cumulativamente.

Sono state ritenute, in tal modo, penali, ex art. 6 Cedu, le sanzioni amministrative pecuniarie previste dalla l. n. 689/1981, perfino con riferimento alle più modeste fattispecie di violazione di norme sulla circolazione stradale (Corte Edu, Varruzza c. Italia, 9 novembre 1999, riguardo a un’ammenda per eccesso di velocità).

In quest’ottica, perfino le sanzioni irrogate dalla Commissione europea sono soggette a una cognizione penetrante (come nel caso KME Germany c. Commissione europea - Cgue, sez. II, 8 dicembre 2011, C-272/09 P). la Corte di giustizia dell’Ue ha statuito, al riguardo, che il giudice non può basarsi sul potere discrezionale di cui dispone la Commissione al fine di rinunciare a un controllo approfondito, in fatto e in diritto, senza astenersi, in particolare, dal controllo dell’interpretazione della Commissione di dati di natura economica e senz’alcuna deferenza giudiziaria: «The judge cannot use the Commission’s margin of discretion as a basis for dispensing with the conduct of an in-depth review of the law and of the facts. The principle of effective judicial protection is a general principle of EU law to which expression is now given by article 47 of the Charter and which corresponds, in EU law, to article 6 of the ECHR».

Siffatto indirizzo giurisprudenziale collide frontalmente con la distinzione, su base rigorosamente formale, imposta nell’ordinamento italiano dal dettato legislativo, costituzionale e ordinario. La distonia oggettiva tra la giurisprudenza europea e la tradizione culturale italiana è suscettibile, infatti, di porre, sotto il profilo in esame del ne bis in idem, problemi non lievi di compatibilità.

Il divieto di concorso reale di sanzioni produrrebbe, infatti, effetti processuali inammissibili nel nostro ordinamento: l’eventuale irrogazione di una sanzione amministrativa dovrebbe, cioè, precludere l’esercizio successivo dell’azione penale per un fatto da considerarsi identico secondo il metro di giudizio della Corte europea, sebbene esso sia prescritto come obbligatorio da norma di rango costituzionale (art. 112 Cost.): così da porre un problema di controlimiti all’eventuale equiparazione, a tutti gli effetti, tra illecito penale e amministrativo con identità di oggetto.

Tanto più che la nuova direttiva 2014/57/UE e il contestuale regolamento (UE) n. 596/2014 vincolano oggi gli Stati membri all’adozione, entro il 2016, di sanzioni penali per i più gravi abusi di mercato commessi con dolo, mentre l’adozione di sanzioni amministrative resta solo facoltativa.

Oltre a ciò, si può osservare, sul punto, come la concezione sostanziale presenti un inconveniente congenito – la valutazione ex post, all’esito di una disamina, caso per caso, della fattispecie all’esame – e un rischio quasi inevitabile, dato dalla difficoltà di assicurare in via preventiva la certezza del diritto, quale solo una predefinizione dell’illecito, in virtù di parametri legali – tipici – può garantire.

La natura casistica (case law) dell’elaborazione concettuale propria della giurisprudenza Edu consente, peraltro, una possibile attenuazione dei contrasti – altrimenti inevitabili, a meno di non violare principi normativi interni, snaturando una dogmatica giuridica tralatizia – mediante la valorizzazione, di volta in volta, di elementi distintivi ravvisabili tra il precedente della Corte europea e il caso concreto all’esame del giudice interno (cd. distinguishing).

Per altro verso, si apre una prospettiva speculare, ancora tutta da esplorare, sulla possibilità di valorizzare la Convenzione e la giurisprudenza della Corte Edu ai fini di un’applicazione evolutiva di istituti di diritto sostanziale; salvo, s’intende, il limite dell’interpretatio abrogans.

Uno spunto stimolante in tal senso è offerto dall’arrêt del 4 dicembre 2013, n.1389, della Corte di cassazione francese (rinomata per il suo tradizionale rigore interpretativo), tramite l’annullamento (d’ufficio) di una sentenza di merito dichiarativa della nullità di un matrimonio contratto tra suocero e nuora, dopo il divorzio di quest’ultima, e durato vent’anni.

Si riportano, di seguito, i passi salienti di tale sentenza (Cour de cassation, première chambre civile), dalla quale si potrebbe trarre esempio per un’ammissibile valutazione, anche officiosa, di vizi di sentenze per violazione della Convenzione.

«Arrêt n.1389 du 4 décembre 2013

“(…) sur le moyen relevé d’office, après avis donné aux parties conformement à l’article 1015 du code de procédure civile,

Vu l’article 8 de la Convention de sauvegarde des droits de l’homme et des libertés fondamentales;

Attendu

- Qu’en statuant ainsi, le prononcé de la nullité du mariage du Mr. Y avec Madame Y revêtait, à l’egard de cette dernière, le caractère d’une ingerence injustifiée dans l’exercise de son droit au respect de sa vie privée et familiale, dès lors que cette union, célebrée sans opposition, avait duré plus de vingt ans, la Cour d’appel a violé le texte susvisé (…)

Par ces motifs casse et annule ()».

È interessante notare come a questa sentenza abbia fatto seguito un comunicato della prima sezione civile, che espressamente chiarisce come, «en raison de son fondament, la portée de cette décision est limitée au cas particulier examiné. Le principe de la prohibition du mariage entre alliés n’est pas remis en question».

Precisazione che, se fatta propria anche da noi, potrebbe consentire, in casi particolari, un’applicazione diretta delle norme convenzionali, senza infirmare, in via generale e astratta, la portata della norma nazionale.

Su questa linea evolutiva sembra essersi mossa, di recente, Cass., sez. I, 30 giugno 2016, n.13435 (in Foro it., 2016, I, c. 2319), che ha revocato ex art. 391-bis cpc una precedente dichiarazione di adottabilità di minore anche sulla base di un forte richiamo alla giurisprudenza della Corte Edu.

Quanto questa strada si palesi impervia è dimostrato, peraltro, dalla vivace reazione critica – ai limiti della polemica – di qualche commentatore, poco incline a contaminazioni comparatistiche.

5. La retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrative

Un consolidato orientamento dottrinale e giurisprudenziale ritiene inapplicabile, in materia di sanzioni amministrative, il principio della retroattività della legge più favorevole al reo, di cui all’art. 2 cp, in forza dell’autonomia reciproca dei due sistemi sanzionatori. Occorre l’espressa previsione di retroattività, quale eccezione alla regola (ravvisabile, ad esempio, nell’art. 3 d. lgs. n. 472/1997, in tema di infrazioni tributarie; nell’art. 23-bis dPR n. 148/1988 in materia valutaria; nell’art. 46 d. lgs n. 112/1999, in tema di concessione del servizio di riscossione; nell’art. 3 d. lgs n. 231/2001, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche): eccezione non ravvisabile nella legge di depenalizzazione 24 novembre 1981, n. 689 («Modifiche al sistema penale»), il cui art. 1 («Principio di legalità»), senza fare alcun riferimento al principio della retroattività della legge più favorevole, si limita a stabilire che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati».

Fuori delle ipotesi espressamente previste valgono, quindi, il principio generale di irretroattività sancito dall’art. 11 delle preleggi, e il divieto di applicazione analogica di cui all’art. 14 delle medesime. La ratio dell’irretroattività della lex mitior è ravvisata nell’esigenza di rafforzare l’efficacia deterrente della sanzione, eliminando ogni aspettativa di elusione per effetto di una più favorevole legge successiva.

L’irretroattività sarebbe giustificata, inoltre, da esigenze di prevedibilità, certezza e celerità della contestazione e del recupero delle somme. La Corte costituzionale ha sempre ritenuto manifestamente infondata la relativa questione (sentenza 28 novembre 2002, n. 501), con riferimento all’art. 1, comma 2, l. 24 novembre 1981, n. 689 e all’art. 7, comma 13, d. lgs 8 novembre 1997, n. 389 («Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22, in materia di rifiuti, di rifiuti pericolosi, di imballaggi e di rifiuti di imballaggio»), nella parte in cui non è previsto che, se la legge in vigore al momento in cui fu commessa la violazione e quella posteriore stabiliscono sanzioni amministrative pecuniarie diverse, si applichi la legge più favorevole al responsabile. In senso conforme, Corte cost., 24 aprile 2002, n. 140 e Corte cost., 15 luglio 2003, n. 245, ove si statuisce che «in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire, in caso di successione di leggi nel tempo, un vincolo imposto al legislatore nel senso dell’applicazione della legge posteriore più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del limite della ragionevolezza, modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggior o minor rigore, a seconda delle materie».

In senso contrario, altri autori ritengono che la retroattività, prevista in via eccezionale, debba diventare il fondamento di un’interpretazione evolutiva.

La giurisprudenza pretoria della Corte di Strasburgo tende a estendere, come detto, l’applicabilità delle garanzie di matrice penale anche a fattispecie sanzionatorie amministrative, non reputando decisiva la definizione di illecito, penale o amministrativo, attribuita dal singolo ordinamento. In origine, però, la stessa Corte era contraria a estendere le garanzie di matrice penale anche agli illeciti amministrativi (Corte Edu, X c. Austria, ric. n. 2432/65, 7 aprile 1967).

Si è già accennato alle aporie cui condurrebbe un’indiscriminata applicazione della ratio decidendi di un singolo giudizio, elevato a principio generale. Sul punto, si deve altresì osservare che manca, negli illeciti amministrativi, l’indefettibile requisito di tipicità e determinatezza proprio, invece, delle norme incriminatrici.

Nella sentenza Scoppola c. Italia (2) [GC], ric. n. 10249/03, 17 settembre 2009, è stata affermata, in concreto, la retroattività in bonam partem: principio, poi confermato nella decisione Corte Edu, Mihai Toma c. Romania, ric. n. 1051/06, 24 gennaio 2012.

La Corte costituzionale ha, peraltro, fornito una lettura riduttiva della sentenza Scoppola, statuendo che il principio di retroattività sia normalmente collegato all’assenza di ragioni giustificative di deroghe o limitazioni (affermazione basata sull’avverbio «solo», utilizzato dai giudici di Strasburgo in un passaggio della motivazione: «Infliggere una pena più severa solo perché essa è prevista al momento della commissione del reato si tradurrebbe in un’applicazione a svantaggio dell’imputato delle norme che regolano la successione delle leggi penali nel tempo»).

In questo senso, la giurisprudenza di legittimità ha confermato l’inestensibilità automatica di regole dettate in sede penale a sanzioni amministrative irrogate dalla Consob (Cass., sez. I, 2 marzo 2016, n. 4114), che, a mio avviso, si deve tuttora mantenere ferma.

In chiusura di trattazione, occorre fare un cenno anche alla questione della legittimità costituzionale degli artt. 106 cpa e 395 cpc, nella parte in cui non prevedono un’ipotesi di revocazione della sentenza per conformarsi a una pronuncia definitiva della Corte Edu, ex art. 46, par. 1, Cedu, come emendato dal Protocollo n. 14 (vigente dal 1° giugno 2010): e ciò dopo che la Corte costituzionale, con sentenza 7 aprile 2011, n. 113, ha dichiarato illegittimo l’art. 630 cpp nella parte in cui non contempla un caso di revisione volto, specificamente, a consentire la riapertura del processo, quando questa risulti necessaria – ai sensi dell’art. 46, par. 1, Cedu – per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte Edu. Con sentenza n. 123/2017, la Corte costituzionale, rilevato che «nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco», ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme su richiamate.