Magistratura democratica

Otto anni da agente con la Corte Edu

di Paola Accardo
Il non facile equilibrio tra difesa del sistema interno e rispetto della Cedu per gli Stati che ne sono parte si riflette nella personale esperienza di chi, pur nel diverso e specifico ruolo di agente del governo, riconosce nell’obiettività del giudice una preziosa risorsa di mediazione. I correttivi adottati per superare forti criticità quali l’inefficacia del rimedio interno o il sovraffollamento delle carceri, fonti di contenzioso ripetitivo dinanzi alla Corte Edu, sono esempi significativi di una collaborazione riuscita tra quest’ultima e il Governo nazionale.

1. Ci vuole un certo sforzo di adattamento, per chi ha sempre fatto il magistrato con funzioni giudicanti, per proiettarsi in un ruolo così diverso come quello del co-agente del governo, la cui attività è inserita in un contesto organizzativo complesso, che non ha nulla a che vedere con quello di un ufficio giudiziario.

Eppure, l’esperienza di magistrato appare quella più in sintonia con la funzione di rappresentanza del governo, funzione comprendente non solo la difesa, ma anche il ruolo collaborativo del governo stesso nell’attuazione della Convenzione[1].

È compito della difesa del governo valorizzare gli aspetti positivi del sistema interno e prospettare – all’occorrenza – l’impatto che alcune pronunce possono avere, anche con riflessi negativi su altre posizioni soggettive, non dedotte nel caso sul quale la Corte è sollecitata a pronunciarsi e, nondimeno, tutelate dalla Convenzione.

In sinergia con l’attività di difesa del Governo italiano, è fondamentale altresì l’impegno ad assicurare un costante scambio di informazioni con la Presidenza del Consiglio e i ministeri competenti sulle questioni via via in esame, anche ai fini di segnalare eventuali criticità che possano dar luogo a futuro contenzioso, promuovendo così l’adozione di "misure preventive" a diverso livello.

Il bagaglio di esperienza nell’attività giudicante aiuta certamente a capire le ragioni che possono essere rilevanti, secondo l’angolo di visuale di una corte internazionale quale la Corte Edu, per la difesa del sistema interno, messo in discussione da chi ricorre affermandosi vittima di una violazione della Convenzione. D’altro canto, l’obiettività, acquisita nell’esercizio in passato di un ruolo che, per definizione, deve essere imparziale, aiuta anche in una possibile mediazione per la scelta del più appropriato strumento per superare le criticità, in armonia con il ruolo collaborativo che la Convenzione richiede a ogni Stato aderente.

 

2. Quando, nel giugno 2010, arrivai a Strasburgo, presi atto che l’Italia aveva un elevato contenzioso pendente dinanzi alla Corte Edu, in buona parte costituito da casi ripetitivi sull’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari.

Non era bastato il rimedio interno, istituito con la legge 24 marzo 2001, n. 89 (cd. “legge Pinto”), per attribuire un equo indennizzo alle vittime di una irragionevole durata di procedimenti giudiziari, a risolvere a livello interno almeno l’aspetto compensativo di un’eccessiva durata già subita, perché la nuova via di ricorso nazionale, che avrebbe dovuto erigere una definitiva barriera alla ricevibilità di ricorsi alla Corte Edu ai sensi dell’art. 35 Cedu, rivelava poi una sistematica criticità, soprattutto nella fase di esecuzione dei decreti delle corti d’appello che liquidavano gli indennizzi.

Succedeva, infatti, che gli indennizzi, accordati all’esito del procedimento interno, non venissero poi tempestivamente corrisposti, per la del tutto inadeguata copertura finanziaria prevista in bilancio in un apposito capitolo (n. 1264).

Con il tempo, la situazione si era progressivamente aggravata in quanto i pagamenti, non effettuati per insufficienza di stanziamento, passavano a debito per l’anno successivo, mentre cresceva sempre più il divario tra debito complessivo accumulatosi e stanziamento annuale.

Si verificava così una dispendiosa duplicazione del contenzioso: dapprima dinanzi alle nostre corti d’appello, ai sensi della “legge Pinto”; poi, a seguito di prolungati ritardi nei pagamenti, dinanzi alla Corte Edu. Quest’ultima accordava, oltre agli importi non pagati a livello interno con gli interessi moratori, un ulteriore indennizzo per il ritardo e spese del procedimento.

Altre questioni sulle modalità di calcolo dell’eccessiva durata e sull’ammontare dell’indennizzo avevano, invece, un impatto numericamente più limitato ed erano state in parte superate con l’adeguamento della giurisprudenza interna, nonché a seguito dell’affermarsi di una valutazione un po’ più ampia del margine di apprezzamento riconosciuto ai giudici nazionali, da parte della stessa Corte Edu[2].

 

3. L’insostenibilità della situazione, pesante per il nostro Paese sia in termini di onere economico che di immagine, per l’evidente incongruenza dell’istituzione di un rimedio interno inefficace a risolvere il problema di un ingente contenzioso ripetitivo dinanzi alla Corte Edu (divenuto, a sua volta, fonte di ulteriore contenzioso), era stata stigmatizzata in ripetute risoluzioni ad interim del Comitato dei ministri, ove si proponevano pressanti inviti all’Italia affinché prendesse adeguati provvedimenti, anche di copertura finanziaria[3].

Questa pressante criticità fu prospettata nel febbraio 2012 all’allora ministro della giustizia Paola Severino, che in una successiva visita ufficiale al Consiglio d’Europa assicurò l’impegno per un’azione coordinata ed efficace, che avrebbe portato alla riduzione del contenzioso dinanzi alla Corte Edu.

In effetti, una serie di interventi sulla “legge Pinto”, iniziati con le modifiche introdotte con il dl 22 giugno 2012, n. 83, convertito nella l. 7 agosto 2012, n. 134, proseguiti nella successione di governi e ministri della giustizia, semplificavano e velocizzavano la procedura e, finalmente, risolvevano in via definitiva il problema dell’insufficiente destinazione finanziaria ai pagamenti degli indennizzi liquidati dalle corti d’appello nei procedimenti Pinto.

 Si susseguivano, nel contempo, varie misure di carattere normativo e organizzativo per ridurre l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, che agivano così alla fonte della criticità sotto il profilo degli obblighi derivanti dell’art. 6, par. 1, Cedu. Dei buoni risultati ottenuti in questa direzione, soprattutto in alcuni settori civili, dava atto il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, chiudendo, a partire dal 2016, il monitoraggio dell’esecuzione di molte vecchie sentenze di condanna per violazione dell’art 6, par. 1, Cedu per eccessiva durata del procedimento. Si trattava di ricorsi proposti anteriormente all’istituzione del rimedio interno, per i quali, pur essendo intervenuto il pagamento dell’equa soddisfazione accordata dalla Corte Edu ai ricorrenti (misura individuale di adempimento alla sentenza), continuava ancora il monitoraggio dell’esecuzione da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sulle misure generali per evitare il ripetersi di simili violazioni, cioè sulle misure che riducessero in termini ragionevoli la durata dei procedimenti giudiziari.

 In effetti, erano stati intrapresi vari piani d’azione per ridurre la durata dei procedimenti civili e penali. Nel corso di visite dei ministri della giustizia al Consiglio d’Europa e alla Corte Edu, ripetute più volte dal ministro Andrea Orlando, erano stati debitamente messi in evidenza, dando un segno tangibile dell’impegno italiano, particolarmente mirato alle problematiche del contenzioso a Strasburgo[4].

Per quanto riguarda la giustizia amministrativa, dopo qualche anno, questa cominciava progressivamente a risentire degli effetti positivi della riforma del processo amministrativo intervenuta nel 2010.

 

4. L’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari non era, però, un problema esclusivamente italiano; oltre all’Italia e ad alcuni altri Stati membri del Consiglio d’Europa, la stessa Corte Edu aveva iniziato, già da tempi non troppo recenti, a soffrire di questa disfunzione. Orbene, se è vero che la Cedu è intervenuta tra gli Stati che l’hanno stipulata, ai quali si indirizza, mentre la Corte – ai sensi dell’art. 19 della Convenzione – è istituita quale garante finale per assicurare l’adempimento degli impegni che gli Stati stessi hanno assunto, sembrava non troppo coerente con il sistema il fatto che lo stesso organo garante, non riuscisse a gestire adeguatamente i tempi di durata dei procedimenti dinanzi a sé pendenti.

Certo, come è stato da molti osservato, la Corte è progressivamente divenuta essa stessa «vittima del suo successo», quantomeno sotto il profilo dell’enorme carico di lavoro conseguente; di fronte al moltiplicarsi – anno per anno, e da un quarto di secolo – del numero dei ricorsi individuali, non è certamente facile adottare misure adeguate per gestire, in tempi adeguati alle prescrizioni dell’art 6, par.1, l’ondata crescente di contenzioso.

Nel 2011, i procedimenti pendenti dinanzi alla Corte Edu erano oltre 150.000; tra questi, oltre 14.000 erano contro l’Italia.

Per necessità, la Corte e il Governo italiano avrebbero dovuto collaborare nel ridurre il contenzioso pendente per i casi ripetitivi, quali i casi aventi origine dall’inefficacia del rimedio interno – secondo quanto prima ricordato.

Da aprile 2012, era aggiunto al Regolamento della Corte l’art. 62A, che dava la possibilità ai governi di chiudere il contenzioso senza condanna, anche in caso di non accettazione della parte ricorrente di una proposta di regolamento amichevole, tramite una dichiarazione unilaterale di riconoscimento di violazione accompagnata dalla messa a disposizione di un’adeguata riparazione.

 Un primo segnale di incoraggiamento dalla Corte Edu arrivò con la sentenza Gaglione e altri, del 21 dicembre 2010, che definiva 475 ricorsi per lungo ritardo nel pagamento degli indennizzi Pinto con una condanna che accordava un’equa soddisfazione di 200 euro a ricorrente, oltre a 10.000 euro globali per spese. La sentenza, resa peraltro con due espresse manifestazioni dissidenti per quanto concerne l’ammontare dell’equa soddisfazione, valutato come troppo esiguo[5], forniva i parametri per risolvere, con un impegno economico contenuto, un gran numero di ricorsi.

Nacque, così, il primo piano di eliminazione massiccia dinanzi alla Corte Edu del contenzioso ripetitivo, relativo ai ritardi/mancati pagamenti degli indennizzi accordati dalle corti d’appello nei procedimenti ai sensi della «legge Pinto». Il Governo italiano, utilizzando gli elenchi dei ricorsi ripetitivi pendenti con i dati rilevanti predisposti dalla Cancelleria della Corte Edu, in sinergica collaborazione, offriva un regolamento amichevole di importi secondo il parametro della sentenza Gaglione e, in caso di rifiuto del ricorrente, effettuava una dichiarazione unilaterale ai sensi del precedentemente ricordato art. 62A del Regolamento della Corte. Si otteneva, in questo modo, la cancellazione dal ruolo di oltre 6.000 ricorsi nell’arco di tre anni (dal 2014 al 2016).

 

5. Un’altra fonte di contenzioso ripetitivo era causata dal sovraffollamento carcerario, che poneva problemi sotto il profilo dell’art. 3 Cedu, come possibile trattamento disumano e degradante, al di là di una certa soglia minima di spazio.

La Corte, con la sentenza Sulejmanovic c. Italia (ric. n. 22635/03), del 16 luglio 2009, aveva ritenuto che il mantenimento di una persona detenuta, in situazione di insufficienza di spazio individuale a disposizione, concretasse un trattamento disumano e degradante ai sensi dell’art. 3 della Convenzione.

Dopo di ciò, molti altri ricorsi erano stati presentati da persone detenute, che lamentavano condizioni disumane per situazioni di sovraffollamento e inadeguatezza degli istituti penitenziari ai quali erano state assegnate e l’indisponibilità di rimedi effettivi a livello interno.

Nel luglio del 2012, le pendenze su questo oggetto ammontavano a circa 1.200 e la Corte interveniva, l’8 gennaio 2013, definendo sette ricorsi con la sentenza pilota Torreggiani e altri c. Italia (ric. n. 43517/09), che fissava i principi ai quali l’Italia si doveva adeguare per assicurare il rispetto dell’art. 3 Cedu, statuendo espressamente che l’Italia doveva fornire alle vittime della violazione uno strumento efficace di ricorso in prevenzione e in riparazione ella violazione.

La sentenza interveniva quando già il problema del sovraffollamento carcerario era posto alla sofferta attenzione delle massime autorità dello Stato, dando comunque atto, nella motivazione (par. 92), delle misure prese per cercare di arginare la situazione creatasi, comunicate al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Occorreva andare avanti e dotarsi di una via di ricorso interna di carattere preventivo e per la riparazione del pregiudizio subito a causa della detenzione in condizioni di sovraffollamento. La Corte dava un termine a tal fine, accordando solo ai sette ricorrenti l’equa soddisfazione, ma sospendendo l’esame di tutti gli altri ricorsi pendenti e successivamente proposti fino allo scadere del termine per l’istituzione del rimedio interno.

Dopo vari interventi legislativi e strutturali[6], operanti favorevolmente in maniera diretta o indiretta nella progressiva riduzione del sovraffollamento carcerario, con la legge 11 agosto 2014, n. 117, si aveva la definitiva configurazione del rimedio interno preventivo e compensatorio. La Corte Edu poteva dichiarare, così, irricevibili i ricorsi che lamentavano condizioni di sovraffollamento carcerario per l’esistenza del rimedio interno, che doveva essere preventivamente esperito. Il Comitato dei ministri, con risoluzione dell’8 marzo 2016, chiudeva il monitoraggio della sentenza pilota Torreggiani e del precedente Sulejmanovic.

Un’altra consistente porzione di contenzioso ripetitivo dinanzi alla Corte Edu era stata eliminata, mentre il rimedio interno veniva, questa volta, proposto a modello esemplare ad altri Paesi, pure monitorati per sovraffollamento carcerario[7].

Il nostro Paese poteva essere soddisfatto del successo, tenuto conto anche del grande risparmio che il sistema compensatorio, disciplinato dal nuovo art. 35-ter dell’ordinamento penitenziario, realizzava, accordando uno sconto nella pena detentiva ancora da espiare nella misura di un giorno per ogni dieci di detenzione subita in condizioni disumane e, solo in caso d’impossibilità di attuare tale riparazione, un indennizzo di otto euro per giorno passato in condizioni detentive disumane – indennizzo ben più contenuto di quanto aveva accordato la Corte nella sentenza pilota ai sette ricorrenti.

 

6. La riduzione dell’arretrato pendente dinanzi alla Corte Edu è stato uno dei principali obiettivi di Guido Raimondi, suo presidente dal 1° novembre 2015: obiettivo brillantemente raggiunto, come risulta dai più recenti dati statistici, anche grazie alla collaborazione dell’Italia. Basti pensare che, nel 2017, sono stati definiti 4.600 ricorsi contro l’Italia corrispondenti all’8% dell’arretrato totale della Corte.

Un grande lavoro di sinergia tra le amministrazioni coinvolte ha consentito di raggiungere una positiva o, comunque, onorevole chiusura di tanto contenzioso dinanzi alla Corte Edu, grazie al sapiente coordinamento e alle attente determinazioni dell’«Ufficio contenzioso per la consulenza giuridica e i rapporti con la Corte europea dei diritti dell’uomo» del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Il ruolo primario di osservatore rispettoso della Convenzione per lo Stato aderente al sistema Cedu, e quello sussidiario di garanzia svolto dalla Corte Edu richiedono reciproco rispetto e collaborazione. Mi è sembrato giusto ricordare, in questa occasione, alcuni momenti salienti di tale collaborazione, alla quale ho avuto la fortuna di assistere da vicino, cooperando insieme ai colleghi co-agenti che si sono avvicendati durante gli otto anni di mia permanenza nell’incarico: Nicola Lettieri, che ho trovato al mio arrivo a Strasburgo e mi ha subito messo a diposizione la sua grande esperienza, orientandomi nelle nuove funzioni; Silvia Coppari, nel suo pur breve ma incisivo periodo di permanenza; Gianluca Mauro Pellegrini, con il quale si è costituito un tandem di felice sinergia per due anni; infine, Maria Giuliana Civinini, che ha portato un’ondata di dinamismo e innovazione nell’organizzazione dell’ufficio, alla quale va il mio affettuoso augurio di proseguire sempre al meglio.

[1] La Convenzione esordisce, all’art.1, con l’impegno di tutti gli Stati contraenti al riconoscimento dei «diritti» e delle «libertà» fondamentali ivi enunciati a tutti coloro che son soggetti alla loro giurisdizione. L’art 19 istituisce la Corte europea dei diritti dell’uomo, ai fini di «assicurare il rispetto degli impegni» assunti dagli Stati contraenti.

[2] È da ricordare che il problema della liquidazione di indennizzi troppo esigui era stato risolto, con l’intervento a sezioni unite della Corte di cassazione, dalle sentenze nn. 1338-1341 del 2004, che orientavano le corti d’appello sull’allineamento con i parametri della Corte Edu. D’altro canto, quest’ultima, nella sentenza a Grande Camera Cocchiarella c. Italia (ric. n. 64886/01), del 29 marzo 2006, affermava che «quando uno Stato fa il significativo passo di introdurre un ricorso indennitario per rimediare alla violazione di un diritto assicurato dalla Convenzione» – nella specie, alla durata ragionevole del processo – «si deve lasciargli il più ampio margine d’apprezzamento perché possa organizzare il rimedio interno in modo coerente con il proprio sistema giuridico e le sue tradizioni, in conformità con il tenore di vita del Paese». Sulla base di queste considerazioni, la giurisprudenza Cedu si orientò nel considerare sufficiente che il rimedio interno avesse assicurato almeno il 45% di quanto la stessa Corte Edu avrebbe attribuito in assenza del rimedio stesso.

[3] Si vedano le risoluzioni CM/Res(2009)42 e CM/Res(2010)224.

[4] Da una formula organizzativa virtuosa per la rapidità e l’efficienza degli uffici giudiziari, realizzata per il suo distretto dal presidente della Corte d’appello di Torino, Mario Barbuto, sorgeva, nel maggio 2011, il programma «Strasburgo 1», segnalato all’attenzione di tutti i presidenti delle corti d’appello italiane dal ministro della giustizia Severino, con comunicazione del 24 agosto 2012. Nel dicembre 2014, veniva lanciato dal ministro della giustizia Orlando il programma «Strasburgo 2», coordinato da Mario Barbuto nelle sue mutate funzioni di capo Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria. Il progetto organizzativo si inseriva nell’ambito degli interventi con portata deflattiva del contenzioso di cui al dl 12 settembre 2014, n. 132, convertito in l. 12 settembre 2014, n. 162.

[5] Nelle pronunce della Corte Edu è indicato espressamente, in relazione a ciascuno dei capi decisi, se esse sono prese all’unanimità o a maggioranza, con l’indicazione della proporzione numerica, e sono allegate le opinioni convergenti o divergenti (in tutto o in parte) che i giudici abbiano inteso formulare per iscritto.

[6] Gli interventi mantennero una opportuna continuità di azione anche nell’avvicendamento del Ministro della giustizia. Cosi, la Commissione per l’elaborazione degli interventi in materia penitenziaria continuò i lavori intrapresi sotto il ministro Annamaria Cancellieri con il ministro Andrea Orlando, sotto la guida del suo presidente Mauro Palma, che era stato nominato nel giugno 2013 dalla Cancellieri.

[7] Si veda la decisione nei gruppi di casi Ananyev c. Federazione Russa, presa dal Comitato dei ministri il 7 giugno 2017, che al par. 11 invita le autorità sovietiche a ispirarsi al modello italiano.