Magistratura democratica

Alcune chiavi di lettura del sistema Cedu

di Vincent A. De Gaetano
Il saggio propone alcune imprescindibili chiavi di lettura della Convenzione: il principio della sussidiarietà, che fa della Corte Edu un organismo di supervisione piuttosto che di revisione; l’interpretazione della Convenzione; le cosiddette obbligazioni positive dello Stato; il significato autonomo delle parole ed espressioni della Convenzione; il principio della proporzionalità; il cosiddetto margine di apprezzamento.

Come ci fanno ricordare sempre i presidenti della Corte – in questi ultimi sette anni ho prestato servizio sotto la presidenza di quattro eminentissimi giuristi: Jean Paul Costa, Sir Nicolas Bratza, Dean Spielmann e Guido Raimondi –, uno dei ruoli importanti dei giudici della Corte Edu è dialogare con le parti interessate (giudici, avvocati, ong, etc.) delle varie giurisdizioni rappresentate nel Consiglio d’Europa e quindi, per definizione, nella stessa Corte di Strasburgo. È una cosa che, di solito, i giudici delle corti nazionali stentano a fare – e, in alcuni casi, è addirittura proibito farlo –, il giudice restando distaccato dalla discussione pubblica il più possibile. La necessità di questo dialogo – che, preciso, è un dialogo con le parti interessate all’operatività della Convenzione, e non relativo a un caso particolare – deriva dal fatto, spesso dimenticato, che l’obbligo principale di assicurare l’osservanza e l’attuazione dei diritti sanciti dalla Convenzione non ricade sulla Corte Edu o, magari, sul Consiglio d’Europa o sul Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, ma proprio sulle Alte Parti Contraenti. L’art. 1 Cedu, spesso messo un po’ da parte in quanto disposizione non “sostanziale” della Convenzione come sono invece gli artt. da 2 a 14, è chiarissimo: «Le Alte Parti Contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel titolo primo della presente Convenzione». Leggendo tale disposizione insieme all’art. 19[1], che istituisce la Corte, al primo comma dell’art. 35[2], che esige in primo luogo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, e l’art. 13[3], che impone l’obbligo sulle parti contraenti di mettere in atto, nella legge interna, un sistema che dia a una persona che si lamenta di una violazione di un diritto sancito dalla Convenzione un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, tutte queste disposizioni vanno a creare quello che si può ritenere un caposaldo della Convenzione nonché del funzionamento della Corte Edu – ovvero il principio di sussidiarietà.

Perciò – e questa è la prima chiave di lettura – la Corte Edu è una istanza di supervisione, piuttosto che di revisione (come sarebbe, per esempio, una corte d’appello con piena giurisdizione), e con una funzione limitata, anzi direi limitatissima: quella di assicurare che i diritti e le libertà sancite dalla Convenzione vengano osservate nelle varie giurisdizioni. La Corte Edu non ha il compito di armonizzare le leggi o di imporre una particolare scelta legislativa a riguardo di questo o di quel problema da risolversi in modo giuridico. Mi sembra opportuno rilevare questo principio, perché spesso incontro chi – anche tra gli avvocati – afferma che, una volta esaurita la gerarchia delle corti interne, si può sempre far appello a Strasburgo. Certamente la Corte Edu non si è mai considerata una corte d’appello o, come spesso si dice, una corte de quatrième instance. Già dal tempo della vecchia Commissione, ora abolita, si diceva che gli organi della Convenzione non si prestano a rettificare una decisione sbagliata presa dalle corti nazionali, a meno che quello sbaglio non importi di per se stesso una violazione dei diritti o delle libertà sancite dalla Convenzione. Per fare un esempio che sembra ovvio, ma che val la pena ripetere, se un ricorrente si lamenta che è stato violato l’art. 6 Cedu nei suoi confronti soltanto a causa del fatto che tutte le corti – prima istanza, appello e cassazione – hanno mal inteso i fatti o mal interpretato la legge interna, quel ricorso rischia di essere rigettato in limine dal giudice unico come inammissibile ratione materiae. Se, invece, il ricorso si basa – o si basa anche – sul fatto che le sentenze delle corti nazionali difettavano di motivazione o, anche se motivate, che il risultato finale sarebbe stato una flagrante negazione della giustizia, allora si può parlare, almeno prima facie, di una violazione dell’art. 6. Questa espressione «flagrante negazione della giustizia» – che, come alcuni ricorderanno, fu adoperata nella sentenza della Grande Camera nel caso Sejdovic c. Italia[4](a riguardo del processo penale in absentia) – è, a mio parere, uno sviluppo giurisprudenziale importante che ha permesso alla Corte Edu di dare anche una dimensione extra-territoriale all’art. 6 della Convenzione. Come si può immaginare, quando una persona viene estradata su richiesta di un Paese non firmatario della Convenzione, le autorità – per esemplificare – del Regno Unito, della Spagna o della Francia non richiedono che la procedura nel Paese richiedente abbia necessariamente tutte le salvaguardie procedurali esistenti nel Regno Unito, in Spagna o in Francia. Però, se si può provare che nel Paese richiedente il processo penale difetterà in modo tale da dar luogo a una flagrante negazione della giustizia, si potrebbe eccezionalmente avere anche una violazione dell’art. 6 se lo Stato richiesto accordasse la domanda di estradizione. Credo che il caso più clamoroso – che, tuttavia, riguardava un’espulsione, non un’estradizione – sia stato quello di Othman (Abu Qatada) c. Regno Unito[5]. Abu Qatada, che prima si trovava legalmente in Inghilterra, stava per essere espulso verso la Giordania perché il Governo britannico non voleva rinnovare il suo permesso di soggiorno per ragioni di pubblica sicurezza. Nel frattempo, fu processato in absentia da un tribunale militare giordano per atti di terrorismo. In questo processo, che si sarebbe celebrato di nuovo nell’eventualità del suo rimpatrio in Giordania, le prove principali erano state carpite per mezzo di atti di tortura verso terze persone. Abu Qatada contestò davanti ai tribunali inglesi la sua imminente espulsione. La Corte d’appello inglese riconobbe che, se rimpatriato e processato di nuovo usando le medesime prove, ci sarebbe stata una flagrante negazione della giustizia nei suoi confronti. Ma la Corte suprema (allora la House of Lords) ribaltò quella decisione, e dette il nihil obstat all’espulsione. La Corte Edu fu del parere contrario: l’utilizzo di prove contro Qatada, chiaramente ottenute attraverso la tortura di altre persone, minava così radicalmente i valori che sorreggono l’edificio della Convenzione, e il rischio reale dell’uso di tali prove importava una violazione dell’art. 6 nell’eventualità che il rimpatrio fosse stato attuato. Infatti fu soltanto dopo che il Regno Unito ottenne dalla Giordania assicurazioni che quelle prove non sarebbero state usate, che Abu Qatada fu finalmente espulso – e, nel processo che seguì in Giordania, Abu Qatada fu infatti assolto.

Il caso Abu Qatada è un esempio della Corte Edu che, attraverso la giurisprudenza, interpreta la Convenzione – e questo mi porta alla seconda chiave di lettura: l’interpretazione della Convenzione.

Ora, la Convenzione Edu è un trattato internazionale e, come tale, è applicabile a suo riguardo la Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. Una disposizione di questa Convenzione di cui la Corte Edu ha fatto uso in modo assai proficuo è l’articolo 31, par. 1: «Un trattato deve essere interpretato in buona fede in base al senso comune da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo». La Corte, rifacendosi anche al preambolo della Convenzione, già dai primi anni della sua esistenza ha identificato in modo generale l’oggetto e lo scopo della Convenzione come la tutela dei diritti umani dell’individuo e il sostegno e la promozione dei valori e degli ideali della società democratica. Una delle prime sentenze in cui questa interpretazione teleologica fu utilizzata è quella del 21 febbraio 1975 nel caso Golder c. Regno Unito, deciso dall’allora Corte Edu in «seduta plenaria». Questa sentenza è importante anche perché fu la prima a riconoscere i diritti fondamentali dei detenuti con l’abbandono della teoria delle cd. “limitazioni inerenti”, la quale proponeva che l’incarcerazione a seconda della legge comportava automaticamente la perdita di altri diritti e di altre libertà. La Corte Edu riscontrò la violazione dell’art. 6 – il diritto di accesso a una Corte – e dell’art. 8 – il diritto al rispetto della propria corrispondenza. Detenuto nella famigerata prigione di Parkhurst, nell’isola di Wight, il Sig. Golder scontava una condanna di quindici anni per rapina a mano armata e voleva scrivere al suo avvocato per intraprendere un’azione legale per diffamazione a mezzo stampa contro una guardia carceraria. Pochi mesi prima, infatti, c’era stata una sommossa nel carcere e la guardia aveva indicato Golder come uno dei partecipanti alla ribellione. Golder, però, non poteva contattare il suo avvocato a causa dei regolamenti interni delle prigioni in Inghilterra che, a quel tempo, permettevano la comunicazione con gli avvocati solo per i detenuti che ancora dovessero essere processati – gli altri, quelli già condannati, avevano bisogno del permesso del Segretario di Stato per gli affari interni prima di poter comunicare con qualsiasi persona, avvocati inclusi. Nel caso in questione, il Segretario di Stato rifiutò il permesso. La Corte, sotto l’allora presidenza di Giorgio Balladore Pallieri, rifacendosi – come già detto – allo scopo e all’oggetto della Convenzione, mise da parte la teoria delle “limitazioni inerenti”, affermando invece che a essere rilevanti, rispetto alle restrizioni del diritto di un detenuto sulla propria corrispondenza, erano le «necessità ordinarie e ragionevoli» dell’incarcerazione e che, in ogni caso e come regola, i diritti fondamentali dei prigionieri potevano essere limitati soltanto nello stesso modo dei diritti di coloro che erano fuori dalle prigioni. Il ragionamento della Corte nel caso Golder procedette secondo tale logica: anche se è vero che l’art. 6 Cedu non parla espressamente del diritto di accesso a una corte, ma specifica soltantoi requisiti per un equo processo una volta che una corte o un tribunale siano stati aditi, la salvaguardia dei diritti umani dell’individuo e, in particolare, il diritto a un equo processo necessitava, in primo luogo, del riconoscimento del diritto di accedere a una corte. Altrimenti, usando un’espressione che è più di moda oggi, i diritti e le libertà fondamentali, invece di essere pratici ed efficaci, sarebbero teorici o illusori.

Da allora, si parla sovente di un sistema convenzionale che protegge i diritti e le libertà fondamentali in modo efficace – in an effective way. E la Corte, nella sua interpretazione delle varie disposizioni della Convenzione e nella loro applicazione a casi concreti, mantiene al centro questo principio dell’efficacia. Uno Stato firmatario, perciò, non può eludere o sfuggire agli obblighi derivanti dalla Convenzione con una protezione dei diritti e delle libertà superficiale o, addirittura, controproducente. Per esempio: non è sufficiente nominare un avvocato d’ufficio per un processo se quest’avvocato non è veramente in grado di assistere l’imputato (vds. il caso Artico c. Italia[6]); uno Stato firmatario non può, come Ponzio Pilato, “lavarsi le mani” nell’espellere una persona mandandola in un Paese nel quale affronterebbe un reale rischio di trattamento in violazione dell’art. 3 Cedu – in Soering c. Regno Unito[7] (ricordiamo che quel caso fu deciso in base all’art. 3, e non all’articolo 2, la pena di morte non essendo ancora stata, a quel tempo, abolita in Europa), il fenomeno del braccio della morte, che durava anni negli Stati Uniti, fu ritenuto integrare un trattamento inumano o degradante –; l’uso della forza letale da parte di agenti dello Stato deve essere sottoposto a uno scrutinio accurato per mezzo di un’investigazione ufficiale che abbia, almeno, la possibilità di stabilire come siano realmente accaduti i fatti e se l’agente sia o meno colpevole di violare le leggi interne (McCann c. Regno Unito[8]); la protezione accordata alle associazioni dall’art. 11 Cedu non si limita alla fondazione o alla costituzione dell’associazione, come una lettura superficiale del primo comma dell’articolo potrebbe far pensare, ma la medesima protezione deve accompagnare la vita dell’associazione (Partito comunista unito della Turchia e altri c. Turchia[9]). Mi sia permesso citare testualmente, da quest’ultima sentenza:

 

«1. Before the Commission the Government also submitted, in the alternative, that while article 11 guaranteed freedom to form an association, it did not on that account prevent one from being dissolved.

The Commission took the view that freedom of association not only concerned the right to form a political party but also guaranteed the right of such a party, once formed, to carry on its political activities freely.

The Court reiterates that the Convention is intended to guarantee rights that are not theoretical or illusory, but practical and effective (see, among other authorities, the Artico v. Italy judgment of 13 may 1980, Series A no. 37, p. 16, § 33, and the Loizidou judgment cited above, p. 27, § 72). The right guaranteed by article 11 would be largely theoretical and illusory if it were limited to the founding of an association, since the national authorities could immediately disband the association without having to comply with the Convention. It follows that the protection afforded by article 11 lasts for an association’s entire life and that dissolution of an association by a country’s authorities must accordingly satisfy the requirements of paragraph 2 of that provision (see paragraphs 35–47 below)».

Ecco, allora, che se la disposizione della Convenzione sembra limitata a una data situazione, l’interpretazione teleologica fa sì che ricopra anche situazioni necessarie ad attuare una vera ed efficace protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. A quest’ordine di idee la Corte Edu si è ispirata anche nel caso Mamatkulov e Askarov c. Turchia, con sentenza della Grande Camera del 4 febbraio 2005. Il Governo uzbeko fece domanda a quello turco per l’estradizione dei due ricorrenti. La domanda fu accolta e tutti i ricorsi promossi dai ricorrenti dinanzi alle istanze turche furono rigettati. Essi fecero, quindi, ricorso presso la nostra Corte, invocando gli artt. 3 e 6 Cedu; fecero anche domanda per una misura provvisoria ex art. 39 del Regolamento della Corte. Quest’ultimo non fa parte della Convenzione, né specifica quali possano essere le conseguenze se uno Stato non aderisce ai termini della misura provvisoria emanata. In questo caso, la misura provvisoria indicava al Governo turco di non procedere con l’estradizione prima che la Corte Edu avesse avuto la possibilità di esaminare il caso. Il Governo turco ignorò completamente quest’ordine e procedette con la consegna agli uzbechi dei ricorrenti, i quali persero ogni contatto con i loro avvocati in Turchia. La Grande Camera, pur ritenendo che, in base all’informazione acquisita agli atti, non potevano ritenersi violati né l’art. 3 né l’art. 6 della Convenzione, sostenne la violazione dell’art. 34 Cedu. Questa disposizione, di natura in parte procedurale e in parte sostanziale, istituisce il ricorso individuale e il diritto a tale ricorso. L’ultima proposizione dell’articolo prevede che: «Le Alte Parti Contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto». In sostanza, la Corte ritenne che, siccome l’art. 39 del Regolamento è inteso ad agevolare l’esame di un ricorso nell’interesse delle parti, la mancata e deliberata inosservanza di tale misura non poteva che essere d’inciampo per un proprio esame del ricorso e una effettiva protezione dei diritti e delle libertà fondamentali. La Turchia fu condannata al pagamento di 5.000 euro a ciascuno dei ricorrenti per i danni morali, più 15.000 europer le spese di giudizio. Una quasi simile conclusione fu raggiunta, nel settembre 2014, dalla sentenza Trabelsi c. Belgio, dove il Governo belga fu ritenuto di essere in violazione dell’art. 34 per aver ignorato una misura provvisoria, anch’essa riferita a un contesto di estradizione (verso gli Stati Uniti); l’unica differenza è che, in questo caso, per la Corte l’estradizione comportava anche una violazione dell’art. 3 Cedu, non essendovi, dall’altra parte dell’Atlantico, possibilità per una riduzione della pena dell’ergastolo.

Vorrei, ora, proporre la terza chiave di lettura della Convenzione: le cosiddette “obbligazioni positive” dello Stato. Il discorso ci riporta all’art. 1 del trattato, interpretato dalla Corte Edu nel senso che esso impone sia obbligazioni negative sulle parti contraenti, sia obbligazioni positive. Mentre le obbligazioni negative appaiono ovvie (lo Stato, come firmatario, non può uccidere persone, non può torturale, non può tenerle in stato di schiavitù etc.), le obbligazioni positive pongono in rilievo il dovere che lo Stato ha assunto, firmando la Convenzione, di prevenire – per quanto ciò sia ragionevolmente possibile – lesioni dei diritti e delle libertà fondamentali delle persone sottoposte alla sua giurisdizione derivanti da azioni di terze persone. Qui la Corte procede con molta cautela, riconoscendo e rispettando tanto l’autonomia dello Stato quanto la realtà fattuale – è ovvio che lo Stato, per esempio, non può intervenire in prevenzione di ogni omicidio volontario o di ogni atto illecito dannoso o distruttivo della proprietà –, e caso per caso. Nel caso Marckx c. Belgio[10],la Corte riscontrò una violazione del diritto al rispetto della vita familiare non perché lo Stato avesse fatto alcunché per intervenire in quella sfera, ma proprio per il non averlo fatto: la legge belga, a quei tempi, non riconosceva una persona nata fuori dal matrimonio come formante parte della famiglia della madre, ostacolando così una normale vita familiare tra madre e figlio. Il fatto che la legge irlandese non prevedesse alcuna forma di assistenza legale per una donna sottoposta a sevizie da diversi anni, al fine di ottenere la separazione dal marito, fu ritenuto anch’esso lesivo dell’art. 8 Cedu nel caso Airey c. Irlanda[11]. Nel caso X e Y c. Paesi Bassi[12] e, più recentemente, nella sentenza resa dalla Grande Camera nel caso O’Keeffe c. Irlanda[13], fu affrontato il tema dell’abuso sessuale su persone mentalmente incapaci e, rispettivamente, su allievi delle scuole elementari: l’impossibilità, secondo la legge olandese di allora, di procedere contro chi avesse violentato una persona mentalmente incapace, e la mancata attuazione di un sistema atto a prevenire l’abuso sessuale dei minorenni nelle scuole irlandesi negli anni Settanta davano luogo, nel primo caso, a una violazione dell’art. 8 Cedu e, nel caso irlandese, addirittura dell’art. 3 Cedu. Il concetto di obbligazioni positive è, a mio parere, molto utile quando si tratti di situazioni ambientali che possono dar luogo – o hanno dato luogo – a gravi problemi di salute per la popolazione in generale o, anche, per un dato numero di lavoratori in particolare. Uno dei casi più recenti è Brincat e altri c. Malta – Corte Edu, sez. V, sentenza del 24 luglio 2014 – dove la Corte, preso atto del fatto che, per più di quarant’anni, le autorità maltesi non avevano adottato alcuna misura per proteggere i lavoratori del cantiere navale dall’effetto nocivo dell’amianto, ha riscontrato una violazione sia dell’art. 2 sia dell’art. 8 Cedu a danno dei quattro ricorrenti.

Nell’interpretazione e, conseguentemente, nell’applicazione della Convenzione, la Corte Edu ha ritenuto – e questa è la quarta chiave che vorrei proporre – che le parole e le espressioni in essa adoperate non hanno necessariamente lo stesso preciso significato che hanno, o avrebbero, nella legislazione interna delle diverse parti contraenti. La Corte ha ritenuto che, in adesione alla Convenzione e per attuarne lo scopo, alcune di queste parole ed espressioni abbiano autonomo significato. Questo vale, in particolar modo, per l’art. 6, dove un significato “convenzionale” e stato dato alle espressioni «controversie sui diritti e doveri di carattere civile», «accusa penale», «tribunale», «testimoni». Ricordiamo, per esempio, che oggi, a differenza di quanto la Corte riteneva nei primi anni della sua esistenza, le controversie relative alle condizioni di lavoro, al licenziamento, etc., di pubblici ufficiali e dipendenti rientrano nella sfera dei «diritti e doveri di carattere civile», anche se a livello interno avrebbero carattere amministrativo – una delle ultime sentenze in proposito è [GC], Vilho Eskelinen e altri c. Finlandia, 19 aprile 2007. Al contrario, materie come quella fiscale, anche laddove vi siano tribunali involuti – Ferrazzini c. Italia[14] – e procedure sia pure giudiziarie aventi a che fare con l’estradizione, le richieste di asilo o la cittadinanza di una persona, ricadono al di fuori dell’art. 6. Per gli articoli della Convenzione – in particolar modo, gli artt. 5 e 8, nonché l’art. 11 – contenenti le espressioni «regolare», «regolarmente» (nel senso di: “secondo la legge”, “lawful”) e «legge», la Corte ha ritenuto che tali termini sia da attribuire un’interpretazione mista: essi si rifanno, in primo luogo, alla legge interna, la quale peraltro si deve conformare a ulteriori criteri per essere riconosciuta dalla Corte come legge ai fini della Convenzione: deve essere innanzi tutto una legge ragionevolmente accessibile, che offra adeguate garanzie contro eventuali applicazioni arbitrarie e sia redatta in termini chiari o sufficientemente precisi, così da rendere possibile una previsione degli effetti derivanti dalla sua applicazione. Il discorso vale, ugualmente, sia per le disposizioni penali sia per quelle di natura civile. Per esempio, nel caso N.F. c. Italia (sentenza del 2 agosto 2001), la Corte ritenne, con quattro voti a favore e tre contro, che vi fosse stata una violazione dell’art. 11 quando furono intraprese procedure disciplinari contro un giudice membro di una loggia massonica. La Corte era del parere che l’espressione «che non compie i suoi doveri» non dava la possibilità di prevedere il divieto, per un magistrato, di associarsi a tale organizzazione.

Ora passerei alle due ultime chiavi di lettura: il principio di proporzionalità e il cd. margine di apprezzamento. Queste due chiavi sono un po’ connesse, anche se teoricamente distinte, e vengono ambedue adoperate laddove la Convenzione permette a uno Stato di interferire con un diritto o con una libertà fondamentale. In assenza di tale facoltà d’interferenza o di limitazione accordata dalla Convenzione, l’esempio classico è dato dall’art. 3 Cedu: non si può ricorrere a mezzi di tortura o a un trattamento inumano o degradante neanche allo scopo di salvare la vita di un terzo, come la Grande Camera ebbe a pronunziarsi, il 1° giugno 2010, sul caso Gäfgen c. Germania. Ci sono, poi, altre disposizioni meno invocate, come ad esempio il divieto di imprigionamento per debiti, il divieto di espulsione di cittadini o il divieto di espulsioni collettive di stranieri (Hirsi Jamaa and Others c. Italia[15]), disposizioni che si trovano tutte nel quarto Protocollo addizionale alla Convenzione. Peraltro, quasi tutte le altre disposizioni sono redatte in maniera da dare la possibilità, in determinati casi, di limitare in qualche modo un diritto o una libertà fondamentale. Questo approccio emerge in modo chiarissimo dalla lettura degli artt. da 8 a 11. Sono, dapprima, presentati il diritto o la libertà in questione con tutte le possibili fattispecie: per esempio, si spiega che il diritto alla libertà di espressione comprende anche la libertà di opinione nonché la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte della autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. In seguito, nel secondo comma dell’art. 10, troviamo che queste libertà possono essere sottoposte a limitazioni e restrizioni, purché concorrano tre condizioni: (1) che queste limitazioni, condizioni o, addirittura, sanzioni siano previste dalla legge (e abbiamo già visto che cosa s’intende per «legge»); (2) che queste limitazioni, condizioni o sanzioni siano tali da essere accettabili in una società democratica; (3) infine, che le stesse siano necessarie per raggiungere uno scopo determinato dallo stesso comma – ad esempio, la protezione della salute o della morale, nonché la protezione della reputazione o dei diritti altrui. È qui che entrano in gioco le ultime due chiavi. Per determinare se una limitazione, condizione o sanzione sia necessaria in una società democratica, la Corte adopera questo test di proporzionalità, e si chiede: c’è un rapporto ragionevole tra l’obiettivo che si vuole raggiungere e i mezzi per raggiungere tale obiettivo? Prendiamo, ad esempio, le restrizioni sul canone di affitto di case o appartamenti. L’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 parla di leggi «per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale». Nel caso Hutten-Czapska c. Polonia – [GC], 19 giugno 2006 – la Corte, pur riconoscendo l’interesse generale della società a disporre di sufficienti abitazioni per persone di medio reddito, fu del parere che, tenuto conto anche del fatto che queste restrizioni risalivano ai tempi del regime comunista e che i proprietari di quelle case percepivano un reddito effettivamente minimo, non c’era stata una distribuzione equa dell’onere sociale e finanziario nella riforma della legge sugli affitti. Cito testualmente, dal par. 225 della sentenza:

«In the light of the foregoing, and having regard to the effects of the operation of the rent-control legislation during the whole period under consideration on the rights of the applicant and other persons in a similar situation, the Court considers that the Polish State has failed to strike the requisite fair balance between the general interests of the community and the protection of the right of property».

Nell’ambito di questo esercizio di proporzionalità entra in scena la dottrina del margine di apprezzamento. Come già sottolineato all’inizio del presente contibuto, né la Convenzione né la Corte Edu hanno lo scopo di armonizzare le leggi o di imporre una particolare scelta legislativa in relazione a questo o quel problema da risolversi per via giuridica. Esemplificando: la regolazione dei flussi migratori, le restrizioni imposte ai pubblici ufficiali per ciò che attiene alle comunicazioni con la stampa o quelle destinate, nell’interesse pubblico, agli spot pubblicitari nei giorni prima delle elezioni politiche, e varie altre situazioni possono essere regolate in modo diverso, tenendo conto, fra l’altro, della cultura e delle disposizioni costituzionali di un Paese – l’uso del crocifisso nelle aule scolastiche o nelle aule delle corti, in Francia o in Turchia, sarebbe un anatema. Nell’ambito dell’art. 6, si può menzionare la regolamentazione dell’ammissibilità o inammissibilità delle prove nei processi. Tutti questi sono campi d’azione in cui allo Stato è accordato dalla Corte un più o meno ampio margine di apprezzamento a seconda della disposizione della Convenzione che viene invocata, del contesto sociale, legale ed economico del Paese. Ad esempio, in tema di libertà d’espressione, la Corte spesso si pronuncia nel senso che, in quest’ambito, il margine di apprezzamento dello Stato è abbastanza ristretto. Dove, però, si tratti di una disposizione di legge che dà luogo, anche se indirettamente, a una discriminazione basata sull’origine etnica di una persona, la Corte non riconosce alcun margine di apprezzamento. Ed ecco che si può terminare questa presentazione paragonando due sentenze: nell’una, malgrado il margine di apprezzamento dello Stato in materia di cittadinanza, la Corte si è pronunciata per una violazione dell’art. 14 in combinazione con l’art. 8 ([GC], Biao c. Danimarca, 24 maggio 2016); nell’altra ([GC], Aminal Defenders International c. Regno Unito, 22 aprile 2013), la Corte fu del parere che non vi fosse stata violazione dell’art. 10.Nonostante il largo margine di apprezzamento che uno Stato gode nel regolare l’immigrazione come anche questioni di residenza e di cittadinanza, nel caso Biao, poiché una legge dello Stato – per quanto “ben intenzionata” e dibattuta da tutte le parti sociali ed estensivamente all’interno degli organi legislativi danesi – discriminava indirettamente, sulla base delle origini etniche, i futuri cittadini danesi, la Corte dichiarò l’avvenuta violazione dell’art. 14 in combinazione con l’art. 8. Nel caso Animal Defenders,invece, la proibizione totale di spot pubblicitari privati di natura politica sulle reti televisive fu ritenuta non lesiva dell’art. 10. Solitamente, la Corte non vede di buon occhio le proibizioni assolute – blanket prohibitions –; tuttavia, pur riconoscendo la tendenza ad autorizzare tali spot in vari Paesi europei – magari restringendone la portata durante i giorni che precedono le elezioni politiche –, in questo caso sembra che la Corte sia stata impressionata dal fatto che la legislazione in disamina fosse stata studiata e dibattuta per anni, con varie commissioni reali e proposte alternative – ma il Parlamento di Sua Maestà, finalmente, decise di optare per la proibizione totale. Anche le corti inglesi avevano esaminato minuziosamente la questione, sottolineando, nelle loro decisioni, il problema della possibile distorsione di qualsiasi discorso di natura politica da parte di chi, possedendo fondi illimitati, poteva dominare le reti televisive con questi spot pubblicitari.

Mi fermo qui: credo che abbiamo chiavi a sufficienza per aprire un negozio di ferramenta.

[*] Relazione presentata il 14 ottobre 2017 a Caserta, in occasione della sessione introduttiva di un corso di diritto penale europeo organizzato dall’Università degli Studi della Campania «Luigi Vanvitelli»e dalla Camera penale di Santa Maria Capua Vetere, sul tema: «Procedure e funzionamento della Corte europea dei diritti dell’uomo». Coordinatori principali: prof.ssa Andreana Esposito e avv. Angelo Raucci.

[1] «Per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti Contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli, è istituita una Corte europea dei diritti dell’uomo, di seguito denominata “la Corte”. Essa funziona in modo permanente».

[2] «La Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva».

[3] «Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali».

[4] 1° marzo 2006.

[5] 17 gennaio 2012.

[6] 13 maggio 1980.

[7] 7 luglio 1989.

[8] 27 settembre 1995.

[9] 30 gennaio 1998.

[10] 13 giugno 1979.

[11] 9 ottobre 1979.

[12] 26 marzo 1985.

[13] 28 gennaio 2014.

[14] 12 luglio 2001.

[15] 23 febbraio 2012.