Magistratura democratica

La maionese impazzita delle giurisdizioni

di Antonio Lamorgese

Il modello di giustizia amministrativa ha subito negli ultimi decenni una trasformazione, sostanzialmente da «dualistico», qual era, a «monistico con prevalenza del giudice amministrativo», quale è diventato, seguendo le definizioni elaborate da Nigro. Ciò è stato reso possibile, a Costituzione invariata, da controverse interpretazioni “evolutive” delle disposizioni costituzionali, favorite da plurimi interventi del legislatore ordinario. Il risultato è un assetto delle giurisdizioni assai poco razionale e comprensibile agli stessi addetti ai lavori per la quantità e tipologia delle eterogenee materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, molto spesso sovrapponibili a (e interferenti con) quelle del giudice ordinario, cui si aggiunge la giurisdizione amministrativa di legittimità in ogni materia. Ciò ha reso sempre più incerta e complessa l’individuazione del giudice competente, destabilizzando la giurisdizione del giudice ordinario, resa sempre più marginale e colpita nella sua identità, e favorendo l’incremento dei ricorsi avverso le sentenze del Consiglio di Stato dinanzi alle sezioni unite per eccesso di potere giurisdizionale. È il costo del pluralismo delle giurisdizioni per come realizzato in Italia, in contrapposizione al disegno dei Costituenti, che avevano indicato all’orizzonte l’unità della giurisdizione come un obiettivo da perseguire.

1. In un film del 1997 intitolato «L’ultima catastrofe», Mr. Bean, improvvisatosi critico d’arte alla cerimonia di inaugurazione di una sala museale che ospitava un celebre quadro, noto come «La madre», di un famoso pittore, subito dopo un violento starnuto vide sul volto della “madre” varie goccioline che scendevano in direzione sparsa danneggiando l’intero quadro. Ed allora preso dal terrore, cercò di asciugare le parti bagnate con un fazzoletto ma ad ogni tentativo i colori inesorabilmente si cancellavano mescolandosi tra loro, accentuando l’effetto di disastro generale.

L’attuale assetto dei rapporti tra le giurisdizioni rassomiglia un po’ al quadro del film di Mr. Bean: un’opera d’arte originariamente pregevole, resa però ormai irriconoscibile (anche e non solo) per i ripetuti interventi operati “sul quadro”, specie nel ventennio 1990-2010 (specie in tema di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo).

Questi maldestri interventi, tuttavia, non avrebbero potuto incidere così pesantemente se il “quadro” non fosse stato realizzato con una tecnica pittorica probabilmente inadeguata, sul genere della battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci e, dunque, inadatta a sfidare il tempo, come invece dovrebbe essere per una carta costituzionale. 

In effetti il “quadro”, quando fu dipinto, soddisfaceva l’esigenza di costruzione di un sistema fondato su categorie giuridiche astratte, ispirato a purezza e armonia dei concetti e anche a ragioni pratiche di equilibrismo tra le istanze corporative provenienti dagli apparati istituzionali. Potrebbe dirsi che lo spirito di Platone – intriso di una impronta filosofeggiante idealistica e astratta che privilegiava lo spirito dei concetti (le Idee) – prevalse su quello di Aristotele – campione della saggezza (e precursore del metodo) sperimentale, basato sulla costante osservazione, analisi e descrizione della realtà (dal mondo reale egli partiva e lì tornava). 

Fuor di metafora, i Costituenti non si curarono molto del modo di “funzionamento” o, meglio, della concreta “funzionalità” dell’organizzazione dell’apparato giurisdizionale e dei rapporti tra le diverse giurisdizioni (artt. 100, 101, 103, 111 Cost.) e una certa vaghezza caratterizza anche altre disposizioni concernenti l’organizzazione giudiziaria. Troppa metafisica e poca fisica, potrebbe dirsi. 

Il concorso di vari fattori – per i ripetuti interventi normativi che hanno inciso su un assetto costituzionale già incerto e in equilibrio precario, destabilizzandolo ulteriormente – ha prodotto il risultato che è sotto gli occhi di tutti. 

Un assetto privo di qualsiasi logica, ormai incomprensibile agli stessi addetti ai lavori, non classificabile sul piano delle categorie, anomalo rispetto agli altri Paesi europei e, quel che è più grave, incredibilmente complesso e imprevedibile ai fini della stessa individuazione del giudice fornito di giurisdizione nella controversia, dei poteri del giudice e dei relativi mezzi di controllo. 

 

2. Come spiegare a un neofita o a un interlocutore straniero che voglia investire o trasferirsi in Italia a quale giudice dovrà rivolgersi in caso di controversia e di quali mezzi di tutela potrà disporre a fronte di decisioni per lui negative? Dovremo consigliargli di seguire prima un corso di studi in giurisprudenza e poi anche in scienze politiche o, meglio, in filosofia politica o teoretica. 

E infatti, per sapere a quale giudice (tribunale amministrativo o tribunale ordinario) debba rivolgersi per chiedere in giudizio l’annullamento di un qualsiasi atto o provvedimento amministrativo o chiedere il relativo risarcimento del danno, bisognerà informarlo che dovrà prima indagare – senza che la Costituzione e le leggi lo aiutino molto – sulla “natura” o “essenza” di quell’atto impugnato, al fine di verificare se in concreto e in che misura esso sia espressione di un “potere pubblico” in via diretta o “anche solo indiretta o mediata” o se la “norma” di riferimento abbia natura di diritto pubblico o privato. 

Il nostro interlocutore ci chiederà quale sia la definizione di “potere” data dalla nostra Costituzione o da qualche legge ai nostri fini.

Quando gli diremo che una definizione del genere non esiste in nessun testo normativo, ci chiederà, a quel punto già perplesso, di dargli qualche indicazione in più su come orientarsi. 

Noi, per non spaventarlo troppo, non gli parleremo di interessi legittimi e diritti soggettivi, ma gli diremo che potrà riconoscere il “potere” amministrativo dalla presenza di una certa dose di discrezionalità riservata alla pubblica amministrazione: se l’atto è discrezionale, si tratterà probabilmente (ma non sicuramente) di un provvedimento amministrativo da impugnare dinanzi al tribunale amministrativo, altrimenti dovrà rivolgersi al tribunale ordinario. 

Il nostro interlocutore, volendo dimostrare di avere capito la lezione, ci chiederà: “e allora, se una legge stabilisce le condizioni di fatto per l’emissione di un certo provvedimento, quando ci sia solo la necessità di verificare in concreto l’esistenza di tali condizioni, non essendoci discrezionalità, dovrò rivolgermi al tribunale ordinario nel caso in cui, ad esempio, vorrò chiedere il rilascio della cittadinanza italiana per ‘naturalizzazione’?”. 

A quel punto, saremo costretti a deluderlo e a spiegargli che un po’ di discrezionalità c’è pur sempre anche in quel caso, perché bisognerà accertare il livello della sua integrazione in Italia e la presenza di motivi ostativi di ordine pubblico. 

Ma il nostro interlocutore è preparato e ci obietterà che è la legge italiana ad attribuire alle sezioni specializzate in materia di immigrazione, e dunque al giudice ordinario, le controversie in materia di cittadinanza. 

Gli dovremo spiegare che la legge, tuttavia, non attribuisce sempre la giurisdizione ai tribunali ordinari, ma implicitamente solo nei casi in cui (come, ad esempio, per matrimonio) non c’è discrezionalità per l’acquisto della cittadinanza. 

Egli replicherà, spazientito, che il badante extracomunitario di sua madre si è visto riconoscere in Italia dal tribunale ordinario (e non da quello amministrativo come invece accade generalmente in altri Paesi europei) il permesso di soggiorno per protezione umanitaria che presuppone valutazioni ampiamente discrezionali in ordine all’esistenza e al contenuto dell’integrazione sociale, “in comparazione con la situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine”, e all’insussistenza di cause ostative di ordine pubblico. 

Il nostro interlocutore, avendo poi intenzione di avviare un’attività commerciale e, per questa ragione, di acquistare un capannone su un terreno che secondo alcune voci potrebbe essere espropriato per realizzare una rete viaria, ci chiederà conferma sulla competenza del tribunale ordinario a decidere su ogni genere di richiesta di indennizzo o risarcimento, in caso di contenzioso con il comune (come accade in Germania). Dovremo spiegargli che in Italia il sistema è diverso, nel senso che se si tratterà solo di determinare la misura dell’indennizzo dovrà rivolgersi al giudice ordinario, altrimenti se chiederà il risarcimento del danno dovrà rivolgersi al tribunale amministrativo.

“E se poi vorrò chiedere la tutela di un diritto fondamentale, a quale giudice dovrò rivolgermi?” (ci informa che in Germania il giudice competente è quello ordinario, tranne che in presenza di una specifica norma di legge in senso diverso). Dopo avere noi risposto con un “dipende”… egli ci ringrazierà per le utili informazioni che gli avremo dato e ci comunicherà che non investirà né si trasferirà in Italia. 

Noi faremo appena in tempo a dirgli che, se cambierà idea, dovrà anche considerare che, per sapere dinanzi a quale organo giurisdizionale dovrà rivolgersi per impugnare un atto apparentemente amministrativo, dovrà anche indagare, preliminarmente, sulla natura o “essenza” pubblicistica o privatistica dell’ente che lo ha emesso, poiché anche una comune società per azioni potrebbe emettere provvedimenti amministrativi costituenti espressione di potere pubblico. 

Non faremo invece in tempo a illustrargli le diverse forme di tutela concedibili dai diversi organi giurisdizionali, né la diversità dei rimedi impugnatori avverso le relative decisioni: ad esempio, sarebbe stato utile dirgli che le sentenze del Consiglio di Stato che, in sede di giurisdizione esclusiva, negassero il risarcimento del danno reputando che il privato danneggiato, non impugnando l’atto amministrativo, abbia concorso alla causazione del danno ex art. 1227 cc, o le sentenze che rigettassero la domanda risarcitoria per mancanza di prova del danno, senza (ad esempio) esaminare la lista di testimoni presentata dalla parte, non sarebbero impugnabili per cassazione, non essendovi alcun superamento dei “limiti esterni” della giurisdizione, mentre in situazioni del tutto analoghe il ricorso per cassazione sarebbe ammesso se le sentenze impugnate siano emesse dal giudice ordinario o da altri giudici speciali. E tutto ciò, sebbene contro le sentenze del Consiglio di Stato sia ammesso il ricorso per cassazione per «motivi inerenti alla giurisdizione».

 

3. L’individuazione corretta del giudice è oggi prevalentemente condizionata dal mero dato fattuale e occasionale della specializzazione dell’avvocato al quale ci si rivolge: se il professionista è un avvocato civilista privilegerà il tribunale ordinario, se è un amministrativista privilegerà il tribunale amministrativo ed entrambi, se sono bravi, avranno ottimi argomenti per convincere il giudice della bontà delle loro scelte, salvo poi convincere il giudice superiore in senso opposto, con l’effetto di far ritornare le parti al punto di partenza vanificando sentenze e assetti di interessi nel frattempo stabilizzati. 

Il sentimento di sconforto ci assale se, poi, guardiamo ai dati sulla celerità di definizione dei processi forniti dalla Commissione europea, in occasione della presentazione annuale dello Eu Justice Scoreboard, dedicato all’amministrazione della giustizia civile e amministrativa nei vari Paesi dell’Unione, da cui risulta che sono pochissimi i Paesi (ad esempio, Cipro e Grecia) che hanno una performance peggiore della nostra in entrambi i settori della giurisdizione. 

 

4. I cantori del pluralismo (e/o dell’unità funzionale) delle giurisdizioni e delle sue virtù si reputano soddisfatti della coerenza metafisica del nostro assetto delle giurisdizioni e della purezza dei concetti fondanti (“interessi legittimi/diritti soggettivi”, “esistenza o inesistenza del potere in astratto o in concreto e anche in via mediata”, “materie nelle quali la pubblica amministrazione agisce come autorità”), ritenuti idonei a garantirne la conservazione, anche nell’ottica rassicurante dell’equilibrio tra i poteri. E lo difendono ad oltranza, minimizzando le gravi disfunzioni che sono sotto gli occhi di tutti, a loro avviso superabili grazie al “dialogo” auspicato tra le giurisdizioni (o forse tra i loro vertici) e agli effetti positivi determinati dall’introduzione (in via giurisprudenziale e poi normativa) di meccanismi diretti a depotenziare la rilevanza delle questioni di giurisdizione nel processo (ad esempio, il giudicato interno e la translatio iudicii). Essi inoltre celebrano la spiccata efficacia della tutela giurisdizionale somministrata dal giudice amministrativo, che si reputa superiore a quella del giudice ordinario, e, per altro verso, sottolineano la posizione di giudice di ultima istanza che è propria del Consiglio di Stato nell’ambito della propria giurisdizione. 

 

5. A proposito del “dialogo” tra le giurisdizioni, occorrerebbe intendersi sul significato dell’espressione: se intesa come incentivazione di (e favore verso) incontri di formazione comune od occasioni di scambio di informazioni, esperienze professionali e per la discussione su temi comuni o di confine, tra i magistrati ordinari e amministrativi, di merito e di legittimità, non si può non essere d’accordo, come già avvenuto sporadicamente in passato. 

Non ritengo invece che siano riproponibili modelli del passato, del genere del «Concordato giurisprudenziale» stipulato dai vertici delle giurisdizioni nel 1929, che si cercò di riproporre nel 2004 con scarsi risultati, al fine di fissare praeter legem regole di riparto della giurisdizione con efficacia semi-vincolante o di orientamento interpretativo, in un sistema democratico di giurisdizione diffusa, qual è il nostro, nel quale le “pattuizioni” tra i vertici delle diverse giurisdizioni – seppur non interferenti con le autonome determinazioni dei collegi delle sezioni unite, che è l’organo cui sono riservate in ultima istanza le decisioni in tema di riparto, eccesso e diniego di giurisdizione – avrebbero ben poca utilità pratica, atteso che ogni giudice sul territorio ha il potere di decidere in autonomia sulla propria giurisdizione. 

La forma più trasparente ed efficace di “dialogo” è, in realtà, quella costituita dai canali “istituzionali”, tra i quali l’incidente di costituzionalità dinanzi alla Corte costituzionale e il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia; inoltre, con la Corte dei conti il “dialogo” è realizzato quotidianamente tramite l’azione requirente del procuratore generale della Corte dei conti presso le sezioni unite della Corte di cassazione.

 

6. È vero che vi è stato, negli ultimi anni, un progressivo depotenziamento delle questioni di giurisdizione nel processo, essendosi assistito a una evoluzione della nozione di giurisdizione: da ambito di attribuzione del potere giurisdizionale (potestà di decidere nella controversia), quale tipica espressione della sovranità statuale, insensibile ai comportamenti e alla volontà degli utenti della giustizia e, in tal senso, misura della “giusta” o “migliore” decisione, a «servizio reso alla collettività» per la «tutela effettiva dei diritti e degli interessi», tra i quali quello ad «avere una valida decisione nel merito in tempi ragionevoli» (Cass., sez. unite, nn. 24883 e 30254 del 2008). 

Tale evoluzione va vista in modo positivo perché favorisce una maggiore stabilità delle decisioni dei diversi organi giurisdizionali. E tuttavia, da un lato, permane ancora un tasso di instabilità eccessivamente elevato, perdurando la diversità di regime giuridico tra le questioni di giurisdizione e quelle di competenza (l’eccezione di parte e il rilievo d’ufficio del difetto di giurisdizione resta proponibile oltre il limite temporale previsto per le questioni di competenza); dall’altro, questa evoluzione ha creato ulteriori problemi, rispetto ai quali si sarebbe potuto (e si potrebbe) cogliere l’occasione per realizzare una positiva contaminazione tra le diverse giurisdizioni, la quale darebbe concretezza ed efficacia al dialogo tra le Corti spesso retoricamente invocato. 

La limitazione della eccepibilità e rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione, favorendo la formazione del giudicato interno sulla giurisdizione, ha determinato, ad esempio, anche la possibilità che i diversi organi giurisdizionali si trovino a decidere nel merito controversie estranee alla propria giurisdizione. 

Ci si deve chiedere allora se il giudice erroneamente adito possa esercitare anche i poteri di cui non sia ordinariamente munito, in quanto propri di altro organo giurisdizionale che li avrebbe esercitati se fosse stato adito. Se, ad esempio, il tribunale ordinario si trova (a causa di un giudicato interno sulla giurisdizione) a dover giudicare una causa estranea alla propria giurisdizione, potrà annullare il provvedimento amministrativo impugnato costituente espressione diretta di un potere pubblico? Potrà riconoscere la tutela risarcitoria con o senza i condizionamenti di cui all’art. 30 cpa? Analogamente, se il tribunale amministrativo si trova a decidere una causa erroneamente incardinata da un privato per le conseguenze lesive della mancata manutenzione di una strada, provvederà ad attribuire il bene della vita richiesto o si limiterà ad annullare la “determina” o “nota” inviata al privato dall’ente pubblico, dando ulteriore impulso all’iter procedimentale, con l’effetto di rendere incerta nell’an e nel quando la tutela invocata dal privato (costretto eventualmente a passare per le forche caudine del giudizio di ottemperanza)? 

Si dovrebbe pur sempre tenere conto che la «pluralità [delle giurisdizioni] non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale»; «una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta» (in tal senso, Corte cost., n. 77/2007).

 

7. A proposito dei più efficaci poteri di cui si dice essere fornito il giudice amministrativo, sui quali insistono i cantori del pluralismo delle giurisdizioni – poteri che, del resto, non andrebbero in alcun modo persi ma, semmai, valorizzati nella prospettiva della vera unità della giurisdizione –, si dovrebbe pur sempre considerare che l’abito viene scelto in base all’occasione in cui deve essere usato. Se sono ospite a un pranzo nuziale, non mi presenterò con gli stivali da pesca o gli scarponi da sci; analogamente, non userò lo smoking per andare a una scampagnata fuori porta con gli amici. 

Alcuni esempi chiariranno quanto si vuol dire. 

Se certamente mi interessa sapere che il tribunale amministrativo adito ha (o avrebbe, se fornito di giurisdizione in materia) il potere di annullare il diniego di concessione della cittadinanza, mi interessa di più, invero, sapere che detto tribunale abbia il potere (certamente proprio del giudice ordinario se fornito di giurisdizione) di emettere sentenza dichiarativa del mio diritto alla cittadinanza, senza ulteriori valutazioni dell’autorità amministrativa che lo aveva emesso. Analogamente, se i genitori di un alunno disabile, dopo essersi informati (eventualmente previo accesso agli atti e annesso giudizio dinanzi al tribunale amministrativo) che sia operativo il PEI (piano educativo individualizzato), agiscono per ottenere il sostegno scolastico, il tribunale ordinario potrà, anche in via d’urgenza, ordinare direttamente all’amministrazione scolastica di assegnare l’insegnante di sostegno per il numero di ore necessario, senza necessità di ricercare provvedimenti impliciti da impugnare e senza ulteriori valutazioni delle autorità scolastiche. 

Ben diversa è la situazione quando è impugnato l’esito del concorso cui ho partecipato per l’assegnazione di una cattedra universitaria o l’assunzione di un altro impiego pubblico, dove ciò che interessa è che l’amministrazione rivaluti i miei titoli in comparazione con quelli presentati dai concorrenti e, a tal fine, è riconosciuto al giudice amministrativo il potere di annullamento del provvedimento amministrativo per la tutela del mio interesse legittimo. Il giudice ordinario non ha, in tal caso, i poteri adeguati per tutelare l’interesse azionato per la semplice ragione che non ha la giurisdizione per decidere nella fattispecie. Analogamente, l’interesse di una associazione dei consumatori e utenti che voglia opporsi alla chiusura di Piazza Colonna a Roma, resa ormai di fatto inaccessibile alla popolazione a protezione di palazzo Chigi, è di fare annullare il provvedimento che ha determinato questa situazione, non quello di far dichiarare un inesistente diritto soggettivo della popolazione a percorrere quella piazza.

Per altro verso, va precisato che la giurisdizione del giudice ordinario non è più semiplena come un tempo (ex lege n. 2248/1865, all. E, art. 4), riconoscendosi al giudice ordinario anche il potere di emettere ogni tipo di statuizione necessaria per la tutela del diritto soggettivo (anche ordini di facere), a condizione che abbia la giurisdizione per decidere nella controversia. 

I poteri conferiti a ciascun organo giurisdizionale sono modellati in relazione alla tipologia e agli scopi della giurisdizione cui l’organo appartiene e devono essere valutati quanto alla loro adeguatezza non in astratto, ma per la loro idoneità a soddisfare l’interesse di chi agisce in giudizio (principio di effettività delle tutele). Tanto premesso, è piuttosto curiosa la tesi secondo cui il bagaglio delle tutele somministrabili dal giudice ordinario sarebbe povero rispetto a quello del giudice amministrativo, dopo che lo stesso legislatore – così pronto nel creare sempre nuove materie di giurisdizione esclusiva, sottraendo al giudice ordinario vastissimi settori del più rilevante contenzioso – non gli ha attribuito a sufficienza i poteri (ad esempio, di annullamento dell’atto) che si reputano necessari (ex art. 113, comma 3, Cost.). Per altro verso, nell’ottica dell’effettività della tutela non si dovrebbe limitare lo sguardo ai poteri decisori del giudice in astratto, essendo forse più importanti i poteri istruttori e, soprattutto, l’uso che ne fanno i diversi organi giurisdizionali nei processi civili e in quelli amministrativi.

 

8. La nozione di giurisdizione è duplice: la prima evoca il potere del giudice di decidere sulle domande nella singola controversia, la quale dà luogo a “questioni” di giurisdizione in senso stretto, in termini di riparto o di difetto assoluto di giurisdizione nella controversia o materia (cfr. artt. 37, 41, 362 cpc); la seconda evoca il potere del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, pur muniti di giurisdizione nella controversia, di emettere quella determinata statuizione. 

Nei giudizi dinanzi ai giudici ordinari (e agli altri giudici speciali) si pongono solo “questioni” di giurisdizione nella prima accezione – le relative sentenze, se errate per eccesso, diniego e rifiuto di potere giurisdizionale, sono infatti, di regola, ricorribili per cassazione (non per motivi di giurisdizione ma) per violazione di legge nell’accezione di cui all’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cpc (art. 111, comma 7, Cost.) –; diversamente, le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sono impugnabili per cassazione, non solo, per difetto originario di giurisdizione (quando sia contestata l’esistenza del loro potere di decidere nella controversia), ma anche quando sia contestato il modo in cui hanno esercitato o non esercitato il potere giurisdizionale, al fine di evitare che detti giudici speciali debordino dai cd. limiti esterni della propria giurisdizione (cd. “eccesso di potere giurisdizionale”). Nell’ampia accezione di «motivi inerenti alla giurisdizione» (art. 111, comma 8, Cost.), per i quali tali sentenze sono impugnabili per cassazione, rientrano i vizi inerenti a entrambe le nozioni di giurisdizione. 

Alla Corte di cassazione è affidato il compito di assicurare che tali organi qualificati (Consiglio di Stato e Corte dei conti), esercitando la giurisdizione, non debordino dai limiti delle proprie attribuzioni anche invadendo quelle di altri organi giurisdizionali (ordinari e speciali), della pubblica amministrazione e del legislatore (cd. “eccesso di potere giurisdizionale”), ovvero al fine di assicurare che non rifiutino di esercitare in concreto il potere giurisdizionale che è loro attribuito. 

Il medesimo concetto è espresso dall’art. 65 ord. giud., che affida alla Corte di cassazione il compito di «assicura[re] il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni», la cui vigenza si ricava dal comma 1 della VII Disposizione transitoria della Costituzione, che dimostra il rilievo costituzionale delle norme sull’ordinamento giudiziario, come osservato anche dal Presidente della Repubblica Ciampi nel messaggio alle Camere del 16 dicembre 2004.

 

9. In ogni caso, almeno secondo l’interpretazione corrente, non è ammesso il controllo da parte della Corte di cassazione per violazione di legge sulle sentenze del Consiglio di Stato che giudichino sia su diritti soggettivi nella giurisdizione esclusiva sia su interessi legittimi. Il fatto che una controversia su diritti soggettivi inerisca a una materia affidata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo si reputa sufficiente a precludere il sindacato per violazione di legge (art. 111, comma 8, Cost.). 

L’argomento secondo cui ciò sarebbe stata una scelta dei Costituenti è, tuttavia, troppo debole per essere attendibile a fronte dell’obiezione secondo cui si dovrebbe dimostrare che gli stessi Costituenti potessero anche solo immaginare che il legislatore avrebbe previsto la giurisdizione esclusiva (allora limitata a pochissime fattispecie e a una sola tipologia generale di controversie, quella sull’impiego pubblico), anziché «in particolari materie» (come previsto dall’art. 103, comma 1, Cost.), in materie generalissime o in interi macro-settori dell’ordinamento, come è accaduto (inoltre, la giurisdizione amministrativa è stata dichiarata anche nei casi in cui sia la pubblica amministrazione ad agire in giudizio contro i privati). Ciò ha modificato lo stesso modello costituzionale delle giurisdizioni (seguendo le note ripartizioni di M. Nigro) da «dualistico» qual era (caratterizzato da una «uguaglianza ripartitiva non [con] riferimento ad una valutazione quantitativa, ma [nel senso] che ciascuno dei due ordini di giudici ha competenza per un settore di pari dignità e importanza dell’altro e che fra i due ordini nessuno ha prevalenza o tendenziale capacità generale e nessuno ha posizione marginale o funzioni sostanzialmente eccezionali») a «monistico con prevalenza del giudice amministrativo» quale è diventato.

Durante i lavori preparatori della Costituzione era chiara, invece, la consapevolezza che la limitazione del sindacato di legittimità sulle sentenze amministrative si fondava sul presupposto della eccezionalità delle attribuzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato in materia di diritti soggettivi. Oggi il quadro è completamente mutato.

Il legislatore, inoltre, ha disegnato quelle materie (così numerose che non bastano le lettere dell’alfabeto a menzionarle tutte – vds. art. 133 cpa), con tutta evidenza, scegliendo “fior da fiore” le tipologie di controversie di maggiore rilevanza economica e sociale, per assegnarle a un giudice ritenuto, a torto o a ragione, più affidabile o controllabile, con l’effetto (e lo scopo) di lasciare al giudice ordinario le controversie bagatellari con poche riserve indiane. 

La supposta inerenza di quelle materie all’agire della “pubblica amministrazione-autorità” e da qui la (ritenuta) legittimità costituzionale dell’operazione portata avanti (in relazione all’art. 103, comma 1, Cost.), unita alla retorica della concentrazione della tutela giurisdizionale “a senso unico”, hanno offerto le fragili basi teoriche per la trasformazione del sistema. 

È agevole formulare obiezioni teoriche e pratiche. 

L’idea secondo cui il giudice amministrativo, essendo (in tesi) il giudice del potere pubblico, in tal veste ha (o avrebbe) la giurisdizione a giudicare in tutte le controversie nelle quali la pubblica amministrazione sia titolare di poteri in astratto, non rilevando la natura delle posizioni soggettive contrapposte, è suggestiva ma non condivisibile. 

Enfatizzare la nozione di titolarità o esercizio del “potere anche indiretto o mediato” ai fini processuali – in mancanza, tra l’altro, di appigli testuali nella Carta costituzionale, la quale dà rilievo alle categorie del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo – ha ben poco senso se manca una ben precisa definizione normativa della relativa nozione; inoltre, produce effetti destabilizzanti sul piano del diritto all’accesso alla giustizia, scaricando sui cittadini e sulle imprese l’onere di compiere astratte e complesse valutazioni che poco hanno di giuridico.

Quella tesi è anche contraddittoria, poiché non avrebbe senso altrimenti prevedere «particolari materie» in cui il giudice amministrativo possa conoscere «anche» dei diritti soggettivi, come dispone l’art. 103 Cost., da cui si evince che al di fuori di (o in mancanza di) dette materie, al giudice amministrativo non è consentito giudicare su diritti soggettivi, seppure in presenza di una “pubblica amministrazione-autorità”. 

La verità è che i Costituenti non hanno affatto inteso il giudice amministrativo come giudice unico del potere pubblico, avendo configurato il sistema delle giurisdizioni come dualistico, nel quale è implicita la piena compatibilità tra potere e diritti, come dimostrato dall’esistenza stessa della giurisdizione esclusiva.

L’obiezione pratica è data dalla constatazione che il sistema che si è costruito, fondato sostanzialmente su un criterio di riparto della giurisdizione per “blocchi di materie” (nonostante le indicazioni contrarie di Corte cost., n. 204/2004) che nulla hanno in comune e del tutto eterogenee tra loro, non funziona nella pratica, essendo congegnato in modo da ostacolare – come si è detto – l’accesso alla giustizia, allungare i tempi di definizione delle controversie e rendere il sistema non competitivo a livello internazionale. 

Se lo osserviamo dall’alto, esso apparirà come un vero e proprio labirinto, nel quale troviamo tanti vialetti, tutti di colori diversi, dove il colore è usato a caso, senza alcuna razionalità o per ragioni indicibili.

Un cenno alla Corte dei conti: se la titolarità in capo al pubblico ministero contabile del potere di azione (necessariamente dinanzi alla medesima Corte nelle controversie in tema di responsabilità per danno erariale) agevola l’individuazione del giudice (astrattamente) competente, tuttavia l’estrema (e invero intollerabile) ambiguità della nozione di “danno erariale” – interferente con la nozione civilistica di “danno ingiusto” – alimenta le incertezze applicative, tanto più in considerazione della improvvida estensione di tale giurisdizione in varie direzioni, tra le quali il diritto societario (nonostante l’art. 4 l. n. 70/1975, tuttora vigente, vieti implicitamente di creare nuovi enti pubblici in via interpretativa) e il diritto civile (vds. le azioni a conservazione della garanzia patrimoniale del creditore).

 

10. È grave che interi settori del contenzioso sui diritti patrimoniali che trovano la loro disciplina nel codice civile (contratti, obbligazioni, responsabilità extracontrattuale) sfuggano al controllo nomofilattico esercitato dalla Corte di cassazione mediante il sindacato per violazione di legge. Si ritiene possibile, a Costituzione invariata, che l’art. 111, comma 7, Cost. si applichi anche alle pronunce del Consiglio di Stato, quante volte esse risolvano controversie su diritti soggettivi in applicazione delle norme e degli istituti del codice civile.

Vanamente si obietta che tale controllo spetta al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti, quali giudici di ultima istanza nei loro plessi giurisdizionali, configurandosi una duplice o triplice nomofilachia nei medesimi settori dell’ordinamento. E infatti, se per nomofilachia intendiamo la “uniforme interpretazione della legge”, è una contraddizione in termini ritenere che nei medesimi settori dell’ordinamento esistano diversi organismi giurisdizionali di vertice, non comunicanti istituzionalmente tra loro, deputati ad assicurarla. 

Il limite all’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato è circoscritto, in verità, agli interessi legittimi e cioè all’attività autoritativa della pubblica amministrazione, come risulta implicitamente ma chiaramente dai lavori preparatori in sede costituente. La limitazione del ricorso per cassazione fu giustificata in sede costituente sul presupposto che non era opportuno che si prevedesse un sindacato pieno sulle sentenze aventi ad oggetto gli interessi legittimi, una volta conservato in Costituzione il Consiglio di Stato come organo di giurisdizione speciale in quanto ritenuto più idoneo (rispetto al giudice ordinario) a conoscerli, cioè per le controversie riguardanti l’impugnazione degli atti autoritativi del potere amministrativo. 

In altri termini, era chiara l’idea che la esclusione del ricorso per cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato riguardasse i soli interessi legittimi, per la ragione che in tale settore dell’ordinamento la nomofilachia è esercitata dal medesimo Consiglio. 

Ne consegue, allora, che l’esclusione del sindacato per violazione di legge ex art. 111, comma 7, Cost. non ha ragion d’essere quando il giudice amministrativo giudichi sui diritti soggettivi, anche tenuto conto che in seno all’Assemblea costituente non si registrarono interventi a sostegno di tale esclusione.

Le sentenze di qualunque giudice inerenti a diritti soggettivi non dovrebbero sfuggire al sindacato della Cassazione per violazione di legge, costituendo la previsione di cui all’art. 111, comma 8, Cost. una eccezione riguardante i soli interessi legittimi, rispetto a una regola che è in senso opposto (art. 111, comma 7, Cost.).

L’interpretazione qui proposta è idonea a realizzare l’unità (almeno) della giurisdizione civile, intesa oggettivamente come settore o ambito della giurisdizione sui diritti soggettivi, non rilevando in senso contrario che una fetta di questa giurisdizione sia attribuita, ex art. 103 Cost., al Consiglio di Stato, ciò valendo a (e producendo l’effetto di) consentire anche a tale organo (e ai tar in primo grado) di esercitare la medesima giurisdizione “civile” sulla quale è la Cassazione a vigilare ai fini dell’uniforme interpretazione del diritto, a prescindere dall’appartenenza in concreto dell’organo giudicante all’ordine giurisdizionale ordinario o amministrativo. 

Il fatto che, nel caso concreto, sia il secondo a conoscere dei diritti soggettivi non giustifica l’attrazione del prodotto giurisdizionale nell’orbita di quella nomofilachia che il Consiglio di Stato esercita tradizionalmente a tutela dell’interesse pubblico (vds. gli interventi, in sede costituente, di Leone: «[l’orientamento] che si è avuto in sede di Commissione, ma soprattutto in sede di discussione pubblica [fu di] affermare il principio dell’unità della giurisdizione sia in materia civile che penale»; Nobili: «si è voluto affermare il principio che è proprio intorno ad essa [in materia civile e penale] che si vuole formare la unità della giurisdizione»; Rossi: «Non abbiamo potuto accettare il suo punto di vista sistematico [di Mortati] (...) Abbiamo invece accettato il criterio – scaturente da molti emendamenti e ordini del giorno – dell’unicità della giurisdizione»). Evidentemente, la materia civile resta tale anche se una legge la affidi, in tutto o in parte, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 

Una ulteriore indicazione in senso favorevole all’estensione del sindacato di legittimità della Cassazione per violazione di legge sulle sentenze amministrative incidenti su diritti soggettivi proviene dall’art. 113 Cost., secondo cui contro gli atti della pubblica amministrazione, impugnati in sede giurisdizionale, «è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa». 

Di questa norma sono possibili due letture: secondo la prima, entrambe le situazioni soggettive (diritti e interessi) sono giudicabili sia presso la giurisdizione ordinaria sia presso quella amministrativa e, quindi, il giudice ordinario può conoscere degli interessi legittimi non già in via eccezionale (come si reputa comunemente), ma in via generale, allo stesso modo in cui il giudice amministrativo può conoscere dei diritti soggettivi in via generale e in qualunque materia. Questa interpretazione urta, tuttavia, con l’art. 103 Cost., il quale autorizza il giudice amministrativo a conoscere dei diritti soggettivi solo «in particolari materie indicate dalla legge», con la conseguenza che il rapporto tra giudice civile e giudice amministrativo si configura in termini di regola/eccezione. 

La seconda lettura, che è la più accreditata, è nel senso che, in via generale, al giudice ordinario spetta la giurisdizione sui diritti soggettivi e al giudice amministrativo quella sugli interessi legittimi. Da questa seconda interpretazione, senz’altro più coerente, si desume un’ulteriore conseguenza: quella dell’unicità della funzione giurisdizionale relativamente alla tutela dei diritti soggettivi, la quale rende costituzionalmente necessario il sindacato pieno di legittimità da parte della Cassazione, ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., anche nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (limitatamente ai diritti soggettivi). Né la Costituzione contiene norme che possano far ritenere che al controllo della Cassazione sfuggono le sentenze che incidono su diritti soggettivi nei confronti delle amministrazioni pubbliche: al contrario, l’art. 113, comma 2, prevede che la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione «non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti».

 

11. Per altro verso, non può essere messa in discussione l’ammissibilità del ricorso per cassazione per cd. “eccesso (o difetto) di potere giurisdizionale” nei casi in cui il Consiglio di Stato e la Corte dei conti abbiano superato i limiti esterni della propria giurisdizione (di legittimità ed esclusiva) di cui siano forniti nella controversia. Tale rimedio (risalente alla legge 31 marzo 1877, n. 3761) serve a garantire la «specialità» di detti organi giurisdizionali nell’ordinamento e, al contempo, l’unità e coerenza dell’ordinamento, al fine di evitare che tali organi qualificati esercitino o invadano attribuzioni altrui, cioè di altri organi giurisdizionali (speciali od ordinario), della pubblica amministrazione o del legislatore.

Si è affermato da un Autore, espressosi in senso critico verso l’utilizzo (invero molto raro) di tale rimedio da parte della Cassazione, che nel Palazzo di Piazza Cavour a Roma aleggi il fantasma di Calamandrei, la cui proposta in sede costituente a favore dell’unità della giurisdizione con al vertice la Corte di cassazione (e contraria alla conservazione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti come organi giurisdizionali) non ebbe successo.

Si potrebbe replicare che a Palazzo Spada aleggiano i fantasmi sia di Rattazzi, cui si deve la legge 20 novembre 1859, n. 3780, che attribuiva al Consiglio di Stato la funzione di giudice dei conflitti, abrogata dalla legge del 1877, sia di Mortati, la cui proposta in sede costituente di sottrarre alla Cassazione la funzione di organo regolatore della giurisdizione rispetto alle sentenze di tutti i giudici speciali, per attribuirla alla Corte costituzionale, ugualmente non ebbe successo. 

In realtà, come sappiamo, il testo costituzionale fu il risultato di un compromesso tra le diverse istanze, già allora ambiguo, ma due punti fermi rimangono.

Il primo è che la proposta di Mortati di conservare e inserire in Costituzione il Consiglio di Stato e la Corte dei conti fu accolta per ragioni storiche e di opportunità, a condizione che rimanesse fermo il controllo della Cassazione anche (e proprio) sull’eccesso di potere giurisdizionale, come risulta chiaramente dai lavori preparatori. Le sezioni unite hanno sempre fatto un uso estremamente limitato di questo istituto, ma nei pochissimi casi in cui ciò è accaduto (in tempi sia passati che recenti) sono state investite, quando non da moniti di possibili conflitti di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, da critiche a dir poco ingenerose. Si ammette in astratto l’esistenza di tale mezzo, ma si vorrebbe che non se ne faccia uso davvero, perché “mai” ricorrerebbero in concreto i presupposti. Un esempio paradigmatico è costituito dall’eccesso di potere giurisdizionale per invasione delle attribuzioni del legislatore, categoria (richiamata anche da Corte cost., n. 6/2018) finora teorica ma non per questo non configurabile in concreto, come accaduto di recente rispetto al legislatore comunitario, in un caso in cui le sezioni unite hanno operato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue, realizzando concretamente l’auspicato dialogo tra le Corti.

Il secondo punto fermo è che il nostro sistema non ha attuato l’unità organica della giurisdizione, ma i Costituenti avevano chiaro che la strada era quella: lo stesso Ruini, pur favorevole alla conservazione delle funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, così si espresse: «Vogliamo dunque andare verso la unicità della giurisdizione». 

Questo è dunque il faro e il criterio interpretativo cui ci si dovrebbe attenere, sempre che si voglia attuare la Costituzione e non modificarla a mezzo di interpretazioni “evolutive”, alla luce di leggi ordinarie, indicate come rappresentative di una Costituzione materiale in senso opposto.