Magistratura democratica

Giustizia amministrativa e logica del diritto amministrativo (anche alla luce della pandemia)

di Giulio Napolitano

Il giudizio amministrativo, oltre che una tecnica di tutela dei privati, costituisce anche un elemento fondamentale di un più complessivo sistema di controllo dell’attuazione delle leggi affidata all’amministrazione. Quanto più è garantita la terzietà e indipendenza dei giudici, tanto più è assicurato un effettivo controllo di ultima istanza sull’esercizio del potere amministrativo.

1. Garanzia dei privati e protezione dell’interesse pubblico / 2. L’alternativa tra giurisdizione speciale e giurisdizione comune / 3. Il riparto di giurisdizione e i costi della doppia tutela / 4. La terzietà e l’expertise del giudice amministrativo / 5. I calcoli processuali delle parti / 6. La giustizia amministrativa di fronte alla pandemia

 

1. Garanzia dei privati e protezione dell’interesse pubblico 

L’ordinamento predispone un articolato sistema di tutele al fine di garantire la protezione dei destinatari dell’azione amministrativa. Tali tutele sono giurisdizionali (davanti al giudice amministrativo e a quello ordinario) e non (amministrative o alternative). Qualsiasi sia la “sede”, l’assegnazione di strumenti di tutela ai diretti interessati consente di reagire alla violazione di principi e regole che presiedono allo svolgimento dell’attività burocratica e, più in generale, di operare una verifica successiva sulla sua conformità al diritto e, in termini politologici, alle preferenze degli organi elettivi e dei cittadini. 

In questa prospettiva, il sindacato giurisdizionale, oltre che una tecnica di tutela dei privati, costituisce anche un elemento fondamentale di un più complessivo sistema volto a ridurre il rischio di deviazioni e disfunzioni nella fase di attuazione delle leggi. Questa è affidata all’amministrazione per ragioni di efficiente divisione del lavoro; ed è dal suo corretto assolvimento che dipende in larga misura l’effettiva realizzazione delle politiche pubbliche. Di qui sorge la necessità di predisporre adeguati meccanismi di supervisione, basati sull’idea che i singoli interlocutori dell’amministrazione, quando lamentano una lesione dei propri diritti e interessi, possono agire una volta da “segnalatori di allarme”. 

In questa prospettiva, i giudici, nel risolvere le singole controversie, verificano l’osservanza delle norme di regolamentazione dell’azione amministrativa e il rispetto delle disposizioni che, in modo più o meno stringente a seconda dei casi, disciplinano l’esercizio della discrezionalità. A tali fini, controllano che l’amministrazione abbia svolto un’istruttoria adeguata al fine di assumere tutte le informazioni necessarie al corretto esercizio del potere. Le impongono di rivelare tali informazioni allo scopo di poter valutare compiutamente il modo in cui la legge è stata attuata. Garantiscono l’osservanza delle regole del procedimento, che, grazie alla partecipazione dei privati, rendono più efficace il controllo esterno. Verificano che il potere amministrativo sia stato esercito per le finalità previste dalla legge e secondo i criteri e i parametri da essa fissati. Se il diritto amministrativo predispone vari meccanismi per assicurare la corretta attuazione della legge, i giudici chiamati a decidere i ricorsi avverso gli atti e i comportamenti dell’amministrazione, dunque, devono non soltanto tutelare gli interessi giuridicamente protetti dei cittadini, ma anche verificare l’effettivo funzionamento di quei meccanismi. Il privato che si lamenta dell’ingiusta violazione della sua sfera personale o patrimoniale a causa dell’illegittimità o dell’illiceità dell’attività amministrativa, allora, è soltanto uno dei protagonisti della vicenda processuale. La sua azione costituisce anche uno strumento attraverso cui il giudice può esaminare il comportamento del suo antagonista, l’amministrazione incaricata dello svolgimento di funzioni e servizi in coerenza con il “mandato” legislativo. 

Ciò naturalmente non significa voler riproporre l’antica concezione oggettiva, in passato diffusa in molti Paesi dell’Europa continentale, secondo cui il ricorrente privato sarebbe un mero collaboratore ai fini della protezione dell’interesse pubblico. In questa impostazione, lo scopo principale del processo sarebbe il ripristino della legalità violata dall’esercizio non corretto del potere amministrativo. Coerentemente con questo schema, l’accesso al processo può essere consentito in termini anche molto ampi, proprio per facilitare la diffusione del controllo sul comportamento burocratico. Il potere decisorio del giudice, invece, ben può limitarsi all’annullamento del provvedimento difforme, dato che ciò è sufficiente al ripristino della legalità violata e consente un nuovo esercizio del potere amministrativo nell’interesse pubblico. La concezione oggettiva della giurisdizione, tuttavia, ha pressoché ovunque lasciato il passo a quella soggettiva, secondo cui il processo è soprattutto uno strumento di tutela del privato che agisce nei confronti della pubblica amministrazione, laddove egli ritenga che un atto o comportamento di quest’ultima abbia violato i suoi diritti o interessi giuridicamente protetti. In questa diversa prospettiva, diventano fondamentali, come meglio si vedrà innanzi, i principi di pienezza ed effettività della tutela, che richiedono un significativo ampliamento dei poteri decisori del giudice, non più limitati al solo annullamento del provvedimento illegittimo. 

Questo cambiamento di prospettiva emerge chiaramente dal diffuso riconoscimento, già in sede costituzionale, del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione. È quanto dichiarato in modo semplice e piano nella Legge fondamentale tedesca, secondo cui «se alcuno viene offeso nei suoi diritti da parte dell’autorità pubblica, può ricorrere all’autorità giudiziaria» (art. 19, comma 4). Più enfatica la formulazione della norma della Costituzione italiana, ove si afferma chiaramente che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi» (art. 113, comma 1). Anche in Francia, dove pure manca una specifica garanzia costituzionale del diritto di azione del cittadino nei confronti delle autorità pubbliche e la giurisdizione amministrativa è stata per lungo tempo concepita in termini esclusivamente oggettivi, l’ordinamento ha accentuato la dimensione soggettiva della protezione accordata al singolo. Basti pensare all’introduzione del contenzioso di piena giurisdizione, in cui il giudice, oltre a pronunciarsi sulla legalità dell’atto, si pronuncia direttamente sui diritti fatti valere nel processo, con ampi poteri di condanna nei confronti dell’amministrazione e di riforma dei suoi atti. 

A questa evoluzione ha contribuito anche l’ordinamento europeo. Da un lato, il Trattato affida alla Corte di giustizia il controllo di legittimità sugli atti del Consiglio, della Commissione e della Banca centrale europea e degli altri organismi europei (come le agenzie) «destinati a produrre effetti nei confronti di terzi», attribuendo a qualsiasi persona fisica o giuridica direttamente interessata la facoltà di esercitare la relativa azione di annullamento (art. 263 Tfue). Dall’altro, la normativa europea derivata, in un numero sempre maggiore di campi (basti pensare per tutti a quello degli appalti pubblici), richiede agli Stati membri di assicurare il diritto dei cittadini a un ricorso giurisdizionale pieno ed efficace nei confronti degli atti amministrativi nazionali adottati in attuazione di norme e politiche europee. Ciò mira a tutelare le situazioni soggettive protette a livello sovranazionale (come, ad esempio, le libertà di circolazione) e, nel contempo, ad assicurare un’efficace verifica circa la conformità dell’azione amministrativa nazionale al quadro regolamentare europeo. In questa prospettiva, i giudici nazionali costituiscono parte integrante del sistema giurisdizionale europeo, contribuendo all’enforcement di principi e regole comuni. Allo stesso tempo, ne garantiscono l’applicazione uniforme attraverso il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in caso di dubbi interpretativi (art. 267 Tfue). 

La torsione in chiave sempre più soggettiva dei sistemi di controllo giurisdizionale sulla pubblica amministrazione è poi anche l’effetto dell’influenza esercitata dalle dichiarazioni generali del diritto a un ricorso effettivo e a un giudizio equo e imparziale contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (artt. 6 e 13) e nella Carta dei diritti dell’Unione europea (art. 47). Per effetto di tali dichiarazioni, sono applicabili anche alle controversie tra privati e pubbliche amministrazioni i principi della parità delle armi e del contraddittorio e le garanzie convenzionali della pubblicità del processo e della ragionevole durata delle procedure giurisdizionali. 

L’inevitabile concatenazione tra interessi pubblici e privati, tra esigenze di salvaguardia della legalità dell’azione amministrativa e istanze di protezione dei diritti dei cittadini, contribuisce a spiegare larga parte dell’assetto istituzionale e del concreto funzionamento dei meccanismi di tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione. Questi ultimi, peraltro, vanno valutati non soltanto per la capacità di offrire effettiva protezione ai privati, ma anche per i costi direttamente e indirettamente generati. I costi diretti riguardano sia gli oneri di funzionamento dei relativi apparati giurisdizionali sostenuti dallo Stato, sia le spese legali sopportate dalle parti. I costi indiretti sono dati dall’effetto di incertezza e di blocco che pende su ogni decisione amministrativa e su ogni iniziativa economica ad essa correlata in conseguenza del modo in cui sono regolati l’accesso alla tutela e lo svolgimento del processo. Per questa ragione, si ritiene talora che un’eccessiva disponibilità di protezione giurisdizionale, tanto più se ogni lite è destinata a protrarsi per un arco temporale indeterminato, possa influire negativamente sull’efficienza amministrativa e sulla produzione della ricchezza nazionale. Il rischio allora diventa quello di lasciare spazio a comportamenti opportunistici dei privati, i quali, attraverso il ricorso in sede giurisdizionale o anche la sua semplice minaccia, a volte mirano soltanto a ritardare gli effetti di un provvedimento sfavorevole o a negoziare con l’amministrazione da una posizione di maggiore forza (anche se la giurisprudenza, sempre più spesso, sottolinea la vigenza di un generale divieto di abuso, anche processuale, di ogni situazione giuridica soggettiva, con la conseguenza che azioni o eccezioni proposte in violazione di questo principio dovrebbero essere dichiarate inammissibili). 

Non va infine trascurato che, in un numero non irrilevante di casi, il ricorso alla tutela giurisdizionale è attivato da una pubblica amministrazione contro un’altra. Ciò accade quando la tensione tra interessi pubblici diversi e potenzialmente confliggenti non trova composizione in sede organizzativa o procedimentale, finendo così per determinare l’insorgere di un contenzioso davanti al giudice. Le liti più frequenti tra amministrazioni sono quelle che riguardano le dispute tra diversi livelli di governo (Stato, Regioni, enti locali) e quelle tra organi rappresentativi e autorità indipendenti. In questo genere di casi, emerge dunque con ancora maggior evidenza lo spreco di risorse collettive generato da un sistema amministrativo litigioso al suo interno. Per quanto l’ordinamento non sembri fare differenza in ragione della natura pubblica o privata del ricorrente, ci si può chiedere se tutte le garanzie pensate per la seconda ipotesi debbano valere allo stesso modo anche per la prima o non possano essere diversamente graduate. 

 

2. L’alternativa tra giurisdizione speciale e giurisdizione comune 

I sistemi di tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione sono organizzati diversamente nei vari ordinamenti. Una distinzione tradizionale è quella tra giurisdizione speciale e giurisdizione comune. In molti Paesi dell’Europa continentale, a cominciare dalla Francia, le controversie con la pubblica amministrazione sono riservate a un giudice speciale, il giudice amministrativo, appartenente a un ordine giurisdizionale autonomo e separato da quello da cui dipendono i giudici civili (e penali). È proprio tale giudice ad aver forgiato molti istituti fondamentali del diritto amministrativo e a svolgere ancora oggi un ruolo decisivo ai fini della loro evoluzione. In altri Paesi, come il Regno Unito e gli Stati Uniti, invece, le controversie tra amministrazione e cittadini sono attribuite allo stesso giudice dei rapporti tra privati. Questi, dunque, è maggiormente incline a considerare il diritto amministrativo come un insieme di limitate eccezioni alla normazione comune piuttosto che come un corpo di regole organico e ad essa alternativo. L’idea di fondo è che il potere pubblico debba agire in base alle regole del diritto comune (common law) valide per qualsiasi operatore: dunque, senza beneficiare di alcun privilegio, se non quelli espressamente previsti dalla legge. 

Il sistema a giudice speciale nasce nel segno del legame strutturale con l’amministrazione, nel senso che l’organo preposto al controllo giurisdizionale dell’azione pubblica era inizialmente considerato un semplice corpo ausiliario dello Stato. Il Consiglio di Stato, in Francia e in Italia, in origine, era soltanto un organo consultivo chiamato ad assistere il sovrano nell’esercizio delle sue funzioni, compresa quella di dispensare giustizia. Anche quando, in Italia, dopo l’iniziale scelta in favore della giurisdizione comune (con la l. n. 2248/1865, all. E, di abolizione del contenzioso amministrativo), alla fine del XIX secolo, fu istituita la prima sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato, il suo status era molto diverso da quello del giudice ordinario: basti pensare che i giudici provenivano spesso dai ranghi dall’amministrazione ed erano nominati dal Governo. Non a caso, per almeno un ventennio, la giurisprudenza amministrativa fu molto generosa nel riconoscere all’amministrazione poteri e privilegi che le assicurassero una posizione di supremazia nei confronti dei privati. Lo Stato e i suoi apparati vennero così dotati dei mezzi necessari alla costruzione delle infrastrutture amministrative ed economiche necessarie allo sviluppo della comunità nazionale. 

Le differenze tra sistemi a giurisdizione speciale e sistemi a giurisdizione comune (od ordinaria), peraltro, si sono attenuate nel tempo. Esse appaiono ancora oggi rilevanti sul piano organizzativo e procedurale; non, però, su quello della pienezza e dell’effettività della tutela, ovunque notevolmente accresciute per effetto di significative riforme delle regole processuali e dei poteri del giudice. Sia i sistemi a giurisdizione speciale sia quelli a giurisdizione comune si sono, dunque, evoluti realizzando alcune rilevanti convergenze. 

Da un lato, lo statuto, il modus procedendi e i poteri del giudice speciale sono stati progressivamente assimilati a quelli del giudice ordinario. L’accesso alla magistratura amministrativa avviene per pubblico concorso, così come accade per quella ordinaria: il potere di nomina governativa è ormai molto limitato. Anche la giustizia amministrativa si è dotata di un organismo di autogoverno speculare a quello esistente per la magistratura ordinaria. Le regole del processo sono sempre più simili a quelle vigenti nel processo civile. E il giudice amministrativo può ordinare all’amministrazione obblighi di fare senza, per questo, violare il principio della separazione dei poteri. Questi è così diventato anche un abile ed efficace protettore dei diritti dei privati, elaborando sofisticati standard e strumenti di tutela. Ciò nonostante, non mancano casi in cui ancora oggi è possibile censurare l’eccessiva latitudine del potere di bilanciamento tra interessi pubblici e privati talora conferito al giudice amministrativo: è quanto avvenuto in Belgio con riferimento al meccanismo di “ciclo continuo” (administrative loop) in virtù del quale il Consiglio di Stato era stato autorizzato dalla legge a rimandare indietro all’autorità emanante la decisione impugnata in giudizio dal privato al fine di apportarvi le correzioni suggerite, prevenendone così l’annullamento (meccanismo dichiarato incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 103/2015). 

Dall’altro, anche nell’ambito del giudice comune sono state istituite sezioni specializzate aventi competenza sulle controversie con la pubblica amministrazione o comunque di diritto pubblico. È questa la soluzione da tempo adottata in Germania, dove il pur articolato sistema di corti e tribunali amministrativi operanti a livello statale e federale (con al vertice il Bundesverwaltungsgericht, cioè la Corte amministrativa federale), per legge chiaramente separato dall’amministrazione attiva, costituisce comunque parte integrante di un unico ordine della magistratura. Anche nell’ordinamento inglese, il judicial review su atti e comportamenti dell’amministrazione è oggi riservato a un’apposita divisione della High Court, chiamata Administrative Court, la quale agisce secondo lo speciale rito dell’application for judicial review of administrative action. Si è così indirettamente riconosciuto che un elevato livello di specializzazione è fondamentale per consentire un appropriato sindacato dell’azione amministrativa e un’adeguata protezione degli interessi privati, sebbene nell’esperienza inglese questo rito costituisca un filtro altamente selettivo, limitato a poche decine di casi l’anno. Anche negli Stati Uniti, d’altro canto, pur permanendo una giurisdizione unica, esistono regole processuali differenziate per le azioni nei confronti delle agenzie pubbliche, a conferma del fatto che le tecniche di contestazione del potere assumono ovunque tratti specifici. 

Mentre le differenze funzionali si attenuano fino quasi a scomparire, quelle organizzative rimangono rilevanti. Laddove esistente, infatti, il giudice speciale assume un’autonoma rilevanza giuridico-istituzionale. Nell’ordinamento italiano è la Costituzione a dettare le regole di base concernenti l’organizzazione della giustizia amministrativa. Al vertice è collocato il Consiglio di Stato, definito come «organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione» (art. 100, comma 1, Cost.). Questa disposizione consolida il duplice ruolo del Consiglio di Stato come organo di alta consulenza del Governo e come organo di vertice (cioè come giudice di appello) della giurisdizione amministrativa. Attualmente, quattro sezioni del Consiglio di Stato svolgono le funzioni giurisdizionali, mentre le altre (I, II, sezione atti normativi), svolgono le funzioni consultive. È inoltre prevista l’istituzione in ciascuna Regione di organi di giustizia amministrativa di primo grado (art. 125, comma 2, Cost.). In attuazione di questa disposizione, la l. n. 1034/1971 ha quindi istituito i tribunali amministrativi regionali (tar). I tar si configurano dunque come organi generali di giustizia amministrativa di primo grado, mentre il Consiglio di Stato opera essenzialmente come giudice d’appello. Il corpo dei giudici amministrativi è ormai piuttosto consistente: soltanto i consiglieri di Stato sono un centinaio, cui vanno aggiunti i circa trecentoventi magistrati operanti presso i tar. Essi, tuttavia, devono gestire un contenzioso imponente: circa cinquantamila ricorsi ogni anno. 

Al fine di garantire l’omogeneità degli orientamenti giurisprudenziali e di affermare una sorta di principio del precedente assimilabile a quello proprio della tradizione anglosassone, sulla falsariga di quanto avviene con le sezioni unite della Corte di cassazione, le controversie all’origine di rilevanti conflitti interpretativi possono essere devolute al giudizio dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, composta dal presidente del Consiglio di Stato e da dodici magistrati provenienti dalle sue sezioni giurisdizionali (art. 6, comma 3, cpa). Se però non si riconoscono nelle conclusioni cui è pervenuta l’adunanza plenaria, i giudici di primo grado o le singole sezioni del Consiglio di Stato possono sottrarsi ad esse in modo relativamente facile, anche rifugiandosi nel ricorso al rinvio pregiudiziale alla Corte europea di giustizia. 

Le funzioni di garanzia e autogoverno che la Costituzione affida al Consiglio superiore della magistratura con riguardo alla giustizia ordinaria, civile e penale, sono svolte dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, composto da membri “laici”, nominati dal Parlamento, e “togati”, eletti dagli stessi giudici (art. 7, l. n. 186/1982). È al Consiglio che spetta, tra l’altro, deliberare sull’assegnazione di sedi, funzioni e cause, autorizzare gli incarichi extra-giudiziari e assumere eventuali provvedimenti disciplinari (art. 13, l. n. 186/1982; vds. Cons. Stato, sez. IV, n. 4098/2015). 

 

3. Il riparto di giurisdizione e i costi della doppia tutela 

Tra i sistemi a giurisdizione speciale o separata, quello italiano, anche a causa dell’originaria scelta in favore dell’abolizione del contenzioso amministrativo compiuta nel 1865, si caratterizza per l’adozione di una soluzione temperata che, in realtà, non estromette completamente il giudice ordinario dal contenzioso con soggetti pubblici. Al giudice amministrativo, infatti, spettano non tutte le controversie con la pubblica amministrazione, ma soltanto, come meglio si vedrà tra poco, quelle in cui si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi. 

Il giudice ordinario, pertanto, si pronuncia su tutte le restanti controversie con l’amministrazione aventi per oggetto la lesione di diritti soggettivi, tra cui quelle relative all’accertamento di status, alla tutela di diritti fondamentali, al conferimento di incarichi dirigenziali e allo svolgimento dei rapporti di lavoro con le amministrazioni, all’esecuzione dei contratti pubblici e, più in generale, all’adempimento delle obbligazioni. Per limitarsi a qualche semplice esempio, si rivolgerà al giudice ordinario per ottenere l’accertamento del proprio diritto e la condanna al pagamento di quanto dovuto il proprietario dell’immobile locato a un ente pubblico inadempiente nella corresponsione del canone di affitto; l’appaltatore cui l’amministrazione aggiudicatrice non versa le somme dovute in rapporto alle singole fasi dei lavori; il passante investito da un’autovettura della polizia. 

L’idea di fondo è che il giudice ordinario sia il giudice per così dire “naturale” dei rapporti in cui amministrazioni e privati operano su un piano di parità, come avviene normalmente nei rapporti tra privati. Accade così che alla trasformazione della disciplina sostanziale di determinate materie e relazioni segua anche quella processuale: è quanto avvenuto, ad esempio, con la cd. privatizzazione del rapporto di pubblico impiego, cui ha corrisposto il passaggio della giurisdizione sulle relative controversie dal giudice amministrativo al giudice ordinario (tranne che per le procedure concorsuali di reclutamento rimaste nella giurisdizione del primo, vista la spendita di potere amministrativo). Nell’ambito dei contratti pubblici, è proprio la stipula del contratto a segnare la distinzione tra la fase precedente dell’aggiudicazione, in cui l’amministrazione, nel preferire un operatore a un altro, opera scelte discrezionali (seppure sulla base di criteri oggettivi e predeterminati) la cui legittimità è eventualmente sindacata dal giudice amministrativo, e la successiva fase dell’esecuzione, in cui contraente pubblico e privato hanno diritti e obblighi corrispettivi, sulla cui spettanza in caso di controversia si pronuncerà il giudice ordinario. 

Non sempre, però, partizioni e distinzioni sono così chiare e nette. Talvolta, la giurisdizione del giudice ordinario può sussistere anche in casi di confine, dove i rapporti sono asimmetrici e viene in gioco l’esercizio di poteri amministrativi, come avviene per lo svolgimento di alcune procedure selettive o persino per l’adozione di veri e propri provvedimenti. Così, ad esempio, appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la cognizione delle controversie relative alle procedure d’interpello espletate ai fini della nomina dei direttori dei musei. Tali procedure, anche se aperte a terzi estranei all’amministrazione, non hanno natura concorsuale, essendo finalizzate alla semplice formazione di terne di nominativi, nell’ambito delle quali opera la scelta esclusivamente fiduciaria, secondo i poteri propri del datore privato di lavoro, da parte del ministro o del direttore generale: le relative controversie sono pertanto attribuite alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria (Cass., sez. unite, n. 1413/2019). Analogamente, rientra nella giurisdizione del giudice ordinario l’esame del ricorso contro il diniego da parte del questore del permesso di soggiorno, data la natura fondamentale del diritto alla protezione umanitaria e l’assenza di profili discrezionali in ordine al rilascio o meno del permesso (Cass., sez. unite, n. 30658/2018). 

Se, ai fini della soluzione della controversia, il giudice ordinario è chiamato a conoscere anche degli effetti di un provvedimento e quindi a valutare la sua legittimità, in conformità a un’antica regola che risale proprio alla legge abolitrice del contenzioso amministrativo, dovrà farlo incidentalmente e con effetti limitati al singolo giudizio. Ciò significa che il giudice può soltanto disapplicare nel caso concreto l’atto amministrativo ritenuto illegittimo, ma questo continuerà a vivere al di fuori dell’«oggetto del giudizio», costituendo il suo annullamento prerogativa riservata al giudice amministrativo (art. 4 l. n. 2248/1865, all. E). 

Quanto alla giurisdizione del giudice amministrativo, la Costituzione ha consolidato l’assetto affermatosi a partire dalla fine del XIX secolo, stabilendo che «il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi» (art. 103, comma 1, Cost.). Il giudice amministrativo, dunque, si conferma innanzi tutto come il giudice per così dire “naturale” degli interessi legittimi: ad esso spetta la giurisdizione generale di legittimità. Il criterio principale di discrimine tra giurisdizione ordinaria e amministrativa è basato su una distinzione sottile e dall’incerto fondamento teorico, come quella tra diritti soggettivi e interessi legittimi. Il ricorso a tale soluzione, pertanto, è inevitabilmente destinato ad accrescere i costi della tutela giurisdizionale, allocando in capo al privato il difficile onere di individuare il giudice cui rivolgersi e spingendolo talora a una doppia azione per ottenere piena soddisfazione delle proprie pretese. 

Gli interessi legittimi, mai definiti a livello normativo, sono stati a lungo considerati come situazioni giuridiche soggettive meramente strumentali: riferite, cioè, alla sola legittimità dell’azione amministrativa e in particolare dei singoli provvedimenti, senza alcuna diretta correlazione a specifici beni della vita. In questa prospettiva, ad esempio, di fronte a un provvedimento di espropriazione, il privato può ricorrere davanti al giudice amministrativo e non a quello ordinario, perché il diritto di proprietà è stato ormai degradato in un mero interesse alla legittimità dell’atto ablativo. Nel corso del tempo, tuttavia, questa concezione per così dire “minore” degli interessi legittimi è stata superata. La giurisprudenza, inoltre, si è sforzata di elaborare alcuni criteri empirici per rendere più chiara la differenza tra diritti soggettivi e interessi legittimi ai fini del riparto di giurisdizione. Un primo criterio è quello della distinzione tra norme di relazione e norme di azione: le prime definiscono i diritti e gli obblighi delle amministrazioni e dei privati; le seconde regolano il comportamento dell’amministrazione assegnando al singolo un semplice interesse (ancorché giuridicamente protetto) alla sua legittimità. Un secondo criterio contrappone potere vincolato e potere discrezionale: di fronte al primo, vi sono diritti soggettivi; davanti al secondo, interessi legittimi. Un terzo criterio differenzia carenza di potere, che non può intaccare il diritto soggettivo del privato, e suo cattivo esercizio, di cui invece si può contestare esclusivamente l’illegittimità. La giurisprudenza, inoltre, ha individuato all’interno dei diritti costituzionalmente garantiti una categoria di diritti soggettivi incomprimibili (o non degradabili) da parte del potere amministrativo, la cui tutela resta comunque attribuita al giudice ordinario anche in presenza di provvedimenti amministrativi (diritto alla salute, all’ambiente salubre, diritti elettorali). Nonostante questi tentativi di fare chiarezza, le zone grigie rimangono molte e la scelta del foro continua a generare elevati costi e incertezze, come dimostra il frequente contenzioso in materia. 

Il giudice amministrativo, inoltre, può conoscere anche di situazioni giuridiche di diritto soggettivo, ma soltanto «in particolari materie indicate dalla legge» (art. 103, comma 1, Cost.). È questa la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così definita perché in tali casi egli conosce sia di interessi legittimi sia di diritti soggettivi, che vengono così sottratti alla naturale cognizione del giudice ordinario. Rispetto alla giurisdizione generale di legittimità basata sull’incerto criterio della natura della situazione soggettiva, quella esclusiva, costruita sulla falsariga di quella francese per blocchi di materie, semplifica l’individuazione del foro competente e offre una concentrazione delle tutele. Quando sono intrecciati profili di interesse legittimo e diritto soggettivo, infatti, l’interessato trova nel giudice amministrativo una tutela complessiva che gli consente di evitare la spola tra questo, per ottenere l’annullamento dell’atto illegittimo, e il giudice ordinario, per la tutela dei diritti violati. 

Le istanze di semplificazione e di concentrazione, con conseguente riduzione dei costi derivanti dalla doppia tutela, tuttavia, non possono tradursi in un’eccessiva estensione della giurisdizione esclusiva. Si finirebbe così per privare i cittadini della protezione dei diritti soggettivi offerta dal giudice ordinario, tradizionalmente considerata maggiormente garantista ed efficace. Non a caso, la Corte costituzionale ha chiarito che la giurisdizione esclusiva può coprire le sole materie in cui la pubblica amministrazione agisce comunque come “autorità”, cioè come titolare di un potere amministrativo in senso proprio. La tutela dei diritti soggettivi da parte del giudice amministrativo, dunque, in questi casi, sarebbe ammissibile perché ancillare rispetto a quella degli interessi legittimi (Corte cost. n. 204/2004). Il codice del processo amministrativo fa propria questa indicazione ribadendo che la giurisdizione esclusiva si collega comunque a controversie «concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni» (art. 7, comma 1, cpa). 

Nonostante la delimitazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale e recepita dal legislatore, le materie di giurisdizione esclusiva sono molte. Il codice del processo amministrativo ne elenca ben ventisei, tra cui le controversie in materia di urbanistica e di concessione di beni e servizi pubblici e quelle concernenti i provvedimenti delle varie autorità indipendenti (art. 133 cpa). È, in particolare, il grande contenzioso economico a essere sottoposto alla giurisdizione esclusiva. Ciò si deve, sul piano giuridico, alla stretta concatenazione tra diritti e interessi che caratterizza la maggior parte delle misure di regolazione pubblica del mercato. È tuttavia evidente, sul piano della “logica dell’azione collettiva”, l’interesse degli operatori economici a poter contare su un’attribuzione di giurisdizione maggiormente sicura e capace di offrire una tutela concentrata, in tempi più rapidi di quelli registrati quando essi sono costretti a rivolgersi alla giustizia civile. 

Molto limitato è, invece, l’ambito della giurisdizione amministrativa estesa al merito, in cui cioè il giudice è chiamato a valutare non solo la legittimità, ma anche l’opportunità delle decisioni pubbliche. In tal caso, egli può sostituirsi all’amministrazione e adottare un nuovo atto, oppure modificare o ritirare quello impugnato (art. 7, comma 6, cpa). Le controversie sottoposte alla giurisdizione di merito sono tassativamente indicate dalla legge (art. 134 cpa). Le più importanti sono quelle che riguardano l’attuazione delle pronunce giurisdizionali esecutive e quelle relative alla corretta osservanza del giudicato nell’ambito del giudizio di ottemperanza (su cui vds. infra, par. 2.5). Costituiscono, invece, ipotesi più specifiche quelle concernenti le operazioni elettorali; le sanzioni pecuniarie, ivi comprese quelle irrogate dalle autorità indipendenti; i confini degli enti territoriali; il nulla-osta alle proiezioni cinematografiche. La logica è quella di evitare che il giudice si sostituisca all’amministrazione nell’esercizio di valutazioni discrezionali e nell’apprezzamento dell’interesse pubblico. 

Fino ad anni recenti, l’errore sulla giurisdizione, oltre ad aumentare i costi e i tempi della tutela, poteva risultare addirittura fatale, soprattutto se ci si rivolgeva inizialmente e infruttuosamente al giudice ordinario. La pronuncia sul difetto di giurisdizione di quest’ultimo, infatti, interveniva spesso dopo che si era prodotta la decadenza dalla facoltà di proporre ricorso davanti al giudice amministrativo, stante il termine breve per l’impugnazione degli atti amministrativi. La legge oggi supera questo genere di problemi, affermando il principio, già introdotto nella giurisprudenza più recente, della translatio judicii. Ne consegue che, se la giurisdizione è declinata dal giudice ordinario in favore del giudice amministrativo (e viceversa), «sono fatti salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda se il processo è riproposto innanzi al giudice indicato nella pronuncia che declina la giurisdizione entro il termine di tre mesi dal suo passaggio in giudicato» (art. 11, comma 2, cpa). 

Sul riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo decide in ultima istanza la Corte di cassazione a sezioni unite (art. 111, ult. comma, Cost.). Poiché questa rappresenta la struttura di vertice della magistratura ordinaria, il dualismo del sistema italiano non può definirsi perfettamente paritario. Nell’ordinamento francese, invece, l’equilibrio istituzionale tra giudice ordinario e giudice amministrativo è garantito dal fatto che sul riparto di giurisdizione si pronuncia il Tribunal des conflits, composto in misura eguale da giudici ordinari e giudici amministrativi. 

 

4. La terzietà e l’expertise del giudice amministrativo 

Il ruolo del sindacato giurisdizionale va ulteriormente chiarito alla luce di due questioni preliminari, che riguardano il problema della terzietà del giudice e quello della sua expertise

La prima questione è stata sollevata più volte nei confronti del giudice amministrativo, a lungo sospettato di essere troppo contiguo all’amministrazione, soprattutto quando proviene dai suoi ranghi (nei casi, ormai marginali, di nomina governativa), opera al suo interno (ad esempio, nei ruoli di diretta collaborazione con i ministri; in tale evenienza, peraltro, durante il mandato, il giudice è collocato fuori ruolo) o svolge anche funzioni consultive. Su alcuni di questi profili si è pronunciata anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Con la decisione sul caso Procola del 1995, relativamente al Consiglio di Stato del Lussemburgo, ha affermato il difetto di imparzialità in quanto quattro membri su cinque del collegio giudicante avevano partecipato all’attività consultiva in ordine al provvedimento oggetto della controversia. Nella decisione Kleyn del 2003, concernente il Consiglio di Stato olandese, la Corte si è, invece, limitata a rilevare la non coincidenza delle questioni sottoposte al Consiglio rispettivamente in sede consultiva e giurisdizionale. Infine, con la decisione Sacilor Lormines, del 2006, ha escluso che il Conseil d’État francese non sia un giudice indipendente e imparziale, sia quanto allo statuto dei magistrati (in particolare per la nomina governativa di una parte di essi), sia per il cumulo di funzioni giurisdizionali con quelle amministrative in un unico organo. 

Il problema, però, è più generale. Il punto è se il giudice possa davvero verificare la rispondenza dell’azione amministrativa alla legge, senza che tale operazione sia falsata dal prevalere di preferenze personali o politiche diverse da quelle aggregate attraverso il circuito democratico. Di norma, i giudici, a differenza dei politici e dei burocrati, non competono tra loro né per essere rieletti né per essere confermati nell’ufficio. L’accesso avviene per pubblico concorso, salvi i limitati casi di nomina governativa. La carriera è regolata dai principi dell’anzianità e del merito. Quasi tutti gli ordinamenti contemporanei disciplinano la carriera e le incompatibilità del giudice in modo da assicurare il più possibile la rispondenza della funzione e della stessa vita personale a un modello “monastico”. Nell’ordinamento italiano – come prima evidenziato – un apposito organo di garanzia, il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, vigila su eventuali conflitti di interesse: ad esso, tra l’altro, spetta deliberare «sul conferimento ai magistrati (…) di incarichi estranei alle loro funzioni, in modo da assicurare un’equa ripartizione sia degli incarichi, sia dei relativi compensi» (art. 13, comma 2, lett. e, l. n. 186/1982). 

I giudici, pertanto, dovrebbero essere guidati soltanto dal desiderio di servire l’interesse generale alla legalità, cioè al pieno rispetto dei principi e delle leggi che governano la pubblica amministrazione e i suoi rapporti con i privati. Terzietà e indipendenza della magistratura, quella ordinaria così come quella amministrativa, d’altra parte, servirebbero soprattutto a rafforzare il valore del prodotto normativo, assicurando che l’accordo stipulato tra le parti del negoziato politico-legislativo al momento dell’approvazione di una legge sia rispettato anche da chi sarà chiamato ad applicarla in sede amministrativa. Anche a ciò, dunque, servirebbe la garanzia di un giudice neutrale. Quanto più, all’opposto, è consentito ai giudici di essere nominati in altri uffici pubblici, di impegnarsi nella vita politica o di assumere incarichi professionali (ad esempio, quali membri di collegi arbitrali), tanto più vi è il rischio che essi siano coinvolti nell’arena politica o diventino portatori di interessi egoistici, al pari degli altri soggetti operanti nella sfera pubblica. 

Il problema, ovviamente, si pone in termini diversi negli ordinamenti, come quello statunitense, in cui i giudici sono nominati dal potere politico, e nei Paesi, come quelli europei, in cui essi sono selezionati per concorso. Nei primi, d’altra parte, non mancano gli studi che cercano di ricostruire i segnali inviati dalle corti, sulla base della ricostruzione delle rispettive ideologie delle agenzie amministrative e dei giudici e del loro allineamento o meno a quelle del Presidente e del Congresso. Nulla di simile sarebbe immaginabile negli ordinamenti europei, dove i giudici sono funzionari pubblici assunti per concorso, la cui carriera è regolata da procedure burocratiche. A ciò si aggiunga che, laddove il giudice amministrativo è distinto da quello ordinario, di solito egli è meno sindacalizzato del secondo. Qualche indicazione sulle preferenze politiche dei giudici amministrativi potrebbe semmai trarsi dagli incarichi negli uffici di staff dei ministeri (come capi gabinetto o degli uffici legislativi). Nella tradizione amministrativa, tuttavia, tali incarichi hanno carattere prevalentemente tecnico. Lo conferma la frequente permanenza nell’incarico, nonostante il mutamento dei governi e delle maggioranze parlamentari. Ciò consente di attenuare le preoccupazioni circa la faziosità dei giudici, anche se solleva qualche allarme circa l’eccessiva durata dell’incarico extra-giudiziario, che rischia di snaturarne la missione tipica e l’identità professionale (di qui l’indicazione legislativa volta a limitare il periodo di fuori ruolo a un massimo di dieci anni). 

Quanto più le condizioni di funzionamento del modello “monastico” sono rispettate, tanto più i giudici possono effettivamente operare un controllo di ultima istanza sulle modalità di esercizio dell’attività amministrativa, quali interpreti più fedeli e imparziali dell’interesse pubblico. Per “monastico”, peraltro, non deve intendersi “francescano”: è bene, infatti, che i giudici siano adeguatamente remunerati e che, entro limiti ragionevoli e per periodi limitati, possano svolgere anche incarichi pubblici e professionali, se non si vuole esporli al rischio della corruzione e se non si vogliono disincentivare i migliori a intraprendere e proseguire tale carriera. 

Il modo in cui i giudici apprezzano il pubblico interesse può variare anche a seconda dello statuto istituzionale della magistratura, delle modalità di composizione dei relativi organi, della formazione individuale dei singoli magistrati. La provenienza di taluni giudici dai ranghi e dalle scuole dell’amministrazione, come avviene in Francia e, in misura minore, in Italia, ad esempio, potrebbe spiegare la loro maggiore sensibilità ai problemi della cosa pubblica e del suo funzionamento, nonché alle questioni concernenti la carriera dei funzionari pubblici (da ciò, ad esempio, deriverebbe storicamente la creazione giurisprudenziale di uno statuto dell’impiego pubblico più protettivo di quello del lavoro privato). Al contrario, la formazione prevalentemente legalistica delle corti in Paesi come gli Stati Uniti e la Germania avrebbe creato una sorta di “paradiso” del contenzioso, di cui costituisce conferma la maggiore attenzione al rispetto dei diritti procedurali nell’esercizio dell’attività amministrativa. 

La seconda questione che va preliminarmente affrontata riguarda un apparente paradosso: come è possibile che soggetti come i giudici, aventi una preparazione esclusivamente giuridica, siano chiamati a controllare le decisioni di apparati e funzionari in possesso di una specifica expertise tecnico-amministrativa? In proposito, non bisogna dimenticare che il ruolo giocato dall’amministrazione nell’attuazione delle leggi e delle politiche pubbliche si spiega in una logica di efficiente divisione del lavoro, in ragione anche della superiore conoscenza delle problematiche trattate rispetto agli organi di indirizzo politico. Potrebbe, dunque, sembrare contraddittorio che la valutazione dell’interesse pubblico operata dagli uffici cui è assegnato il compito di attuare le leggi in una determinata materia sia messa in discussione ed eventualmente sovvertita da organi giurisdizionali e non amministrativi. 

Naturalmente, l’esistenza di un giudice amministrativo o comunque specializzato riduce i rischi di scarsa preparazione. Focalizzando la sua attenzione sulle controversie tra amministrazioni e cittadini, infatti, egli può sviluppare nel tempo un’approfondita conoscenza dei diversi campi dell’azione amministrativa. Alla formazione di un più adeguato patrimonio informativo, inoltre, possono contribuire anche gli incarichi che periodicamente i giudici assumono nell’ambito dell’amministrazione attiva (ad esempio, come capi gabinetto dei ministeri o commissari di autorità indipendenti), oltre che nell’esercizio dell’attività consultiva presso le apposite sezioni del Consiglio di Stato, come avviene in Francia e in Italia. Infine, il giudice può colmare le sue lacune extra-giuridiche ricorrendo alla nomina di consulenti tecnici d’ufficio quando è necessario per risolvere il caso. Tutto ciò non toglie che il sapere dell’organo giudicante rimanga propriamente giuridico e che la controversia sia prospettata come questione di diritto. Anche se la valutazione richiesta al giudice riguarda la sola legittimità della decisione amministrativa oppure l’accertamento del diritto del privato e non di norma il merito (cioè l’opportunità della scelta pubblica e la sua utilità per l’interesse generale), la sentenza può rappresentare la parola conclusiva sulla vicenda, almeno fino a quando l’amministrazione non eserciterà nuovamente il suo potere (ma comunque sempre in conformità al giudicato). 

Ciò nonostante, il sindacato giurisdizionale può migliorare le decisioni pubbliche, senza tradursi in un’inutile e distorsiva (proprio perché condotta in una prospettiva giuridica) replica dell’azione amministrativa, per almeno tre ragioni. In primo luogo, le regole processuali, garantendo un diritto al contraddittorio più ampio di quello assicurato da molte discipline del procedimento, forniscono alle corti un materiale informativo superiore a quello a disposizione dell’amministrazione al momento della decisione. In secondo luogo, grazie all’autoselezione operata dai ricorrenti, il sindacato giurisdizionale si concentra sugli atti amministrativi che presentano una probabilità di annullamento superiore a quella media: non è certo l’intera azione amministrativa a essere scrutinata. In terzo luogo, le amministrazioni che vogliono evitare la caducazione in sede giurisdizionale dei propri atti saranno incentivate ad aumentare investimenti e risorse per non commettere errori procedurali o di valutazione, innalzando così la qualità dell’istruttoria a vantaggio dell’interesse pubblico. 

 

5. I calcoli processuali delle parti 

La capacità di supervisione del giudice, al fine di assicurare la conformità dell’azione amministrativa al mandato legislativo e alle preferenze collettive, in ogni caso, dipende dalla struttura degli incentivi delle parti processuali. Il discorso vale in particolare, anche se non soltanto, per i privati. Sono loro, infatti, nel tutelare i propri diritti e interessi, a lanciare il “segnale d’allarme” su eventuali violazioni di legge e a consentire così l’attivazione del sindacato giurisdizionale: ma a quali condizioni lo faranno davvero? 

Per rispondere a questo interrogativo bisogna tener presente che anche nel processo amministrativo, così come in quello civile, operano diversi soggetti (i ricorrenti, l’amministrazione convenuta, i controinteressati, i rispettivi difensori), le cui decisioni, a cominciare da quella di agire o meno in giudizio, possono essere ricostruite attraverso lo studio delle reciproche interazioni strategiche. Naturalmente, non sempre le decisioni dei privati dipendono da una valutazione razionale. Ad esempio, chi è pregiudizialmente ostile a qualsiasi intrusione amministrativa tenderà a impugnare ogni provvedimento di cui sia destinatario, anche se pienamente consapevole di avere torto; all’opposto, chi ritenga compito del buon cittadino conformarsi alle decisioni amministrative rinuncerà a impugnarle anche quando sia convinto della loro illegittimità e abbia buone opportunità di ottenerne l’annullamento. 

I termini delle interazioni strategiche nell’ambito del processo amministrativo, comunque, sono parzialmente diversi da quelli che si determinano all’interno del processo civile. In entrambi i processi, l’attore o il ricorrente, nel decidere se agire o meno, dovrà valutare le probabilità di un esito positivo del processo e i presumibili costi del giudizio. 

Tra questi ultimi figurano anche quelli relativi al versamento del cd. contributo unificato (la tassa richiesta al momento della presentazione del ricorso davanti al giudice amministrativo), il cui livello è cresciuto notevolmente negli ultimi anni. In proposito, si è sollevato il dubbio che un suo ammontare eccessivamente elevato, anche a causa del possibile cumulo degli obblighi di versamento in caso di presentazione di motivi aggiunti, possa di fatto compromettere il diritto alla tutela giurisdizionale protetto dalla Costituzione e dal diritto europeo in materia di appalti pubblici (Trga Trento, ord. n. 23/2014). Chiamata a pronunciarsi in proposito, tuttavia, la Corte europea di giustizia ha chiarito che le norme europee in materia nonché i principi di equivalenza e di effettività della tutela non ostano a una normativa nazionale come quella italiana che impone il versamento di tributi giudiziari, anche multipli, come il contributo unificato, all’atto di proposizione di un ricorso in materia di appalti pubblici dinanzi ai giudici amministrativi o per poter dedurre motivi aggiunti relativi alla medesima aggiudicazione. La percezione di tali tributi, anzi, «contribuisce, in linea di principio, al buon funzionamento del sistema giurisdizionale, in quanto essa costituisce una fonte di finanziamento dell’attività giurisdizionale degli Stati membri e dissuade l’introduzione di domande che siano manifestamente infondate o siano intese unicamente a ritardare il procedimento» (Cgue, C-61/14, 6 ottobre 2015). 

Non va, poi, trascurato il crescente ricorso da parte del giudice amministrativo all’istituto della condanna alle spese quale rimedio utile per sanzionare l’esercizio abusivo del diritto di azione. In questo modo, «la responsabilità processuale aggravata si sostanzia in una forma di danno punitivo teso a scoraggiare l’abuso del processo e a preservare la funzionalità del “sistema giustizia” con la censura di iniziative giudiziarie avventate o meramente dilatorie» (Cons. Stato, sez. VI, n. 5537/2016). Si noti, peraltro, che anche l’amministrazione formalmente vittoriosa in giudizio può essere condannata a pagare le spese di lite, per violazione del generale canone di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, cpc e del divieto di ostacolare la sollecita definizione del giudizio (art. 2, comma 2, cpa), se tace una circostanza che, ove immediatamente rilevata, avrebbe evitato l’instaurazione del giudizio e il suo prolungamento per molti anni (Cons. Stato, sez. IV, n. 2142/2018). 

Per il potenziale convenuto, a sua volta, la perdita attesa è tanto maggiore quanto più sono elevate la probabilità di soccombenza, l’entità della controversia e le spese giudiziali. Nel processo amministrativo, tuttavia, le valutazioni della parte pubblica convenuta possono mutare significativamente. Da un lato, l’amministrazione può restare indifferente all’esito della controversia non subendone direttamente (né come apparato, né a livello personale) le eventuali conseguenze negative. Dall’altro, essa non sostiene in proprio le spese di difesa, perché queste sono a carico della fiscalità generale, in tutti i casi in cui il patrocinio è assicurato da un organo pubblico a ciò preposto (talvolta, peraltro, all’amministrazione è richiesto di versare un contributo forfettario). Nell’ordinamento italiano, ad esempio, spetta all’avvocatura dello Stato la rappresentanza in giudizio di tutte le amministrazioni statali, anche a ordinamento autonomo (art. 1 rd n. 1611/1933). Questo elemento, a sua volta, influisce sul calcolo del potenziale ricorrente, potendolo incentivare alla proposizione del ricorso, visto che, anche in caso di esito negativo, le spese sostenute dall’amministrazione resistente di cui egli dovrà farsi carico, proprio in ragione dell’assistenza gratuita fornita dall’Avvocatura dello Stato, sono più basse di quelle sostenute nei processi tra privati (fermo restando quanto prima osservato in ordine alla tendenza al continuo aumento del contributo unificato richiesto per la presentazione del ricorso e della condanna alle spese). 

A condizionare le scelte processuali è anche il grado di ottimismo delle parti circa l’esito del futuro giudizio, che può dare luogo a forme di “strabismo prospettico”, tali per cui la valutazione soggettiva delle parti è distorta a proprio favore (ad esempio, a causa di condizioni di asimmetria informativa). Di questa deformazione è di solito vittima l’amministrazione, cui è di norma preclusa ogni prognosi circa l’eventualità di una sconfitta processuale. Poiché l’intera azione amministrativa è preordinata all’assunzione di una decisione legittima, l’amministrazione è per così dire tenuta a postulare l’esito favorevole del processo. Sono pertanto eccezionali i casi in cui quest’ultima, riconosciute le violazioni commesse nel proprio operare, procederà all’annullamento d’ufficio dell’atto illegittimo o deciderà di addivenire a una soluzione transattiva con il ricorrente. A prescegliere questa opzione, tuttavia, l’amministrazione può essere indotta dalla disposizione che prevede l’irrogazione da parte del giudice di una sanzione pecuniaria calcolata su un multiplo del contributo unificato a carico della parte soccombente: non soltanto quella che ha agito, ma anche quella che ha «resistito temerariamente in giudizio», cioè l’amministrazione che ha emanato l’atto palesemente illegittimo e fino all’ultimo l’ha difeso nel processo (art. 26, comma 2, cpa). 

I termini della scelta strategica circa la decisione di ricorrere contro l’amministrazione e le sue decisioni possono ulteriormente approfondirsi in relazione al caso in cui venga in questione la legittimità di un atto generale, con cui sono dettate regole rivolte a una pluralità di destinatari: si pensi alla definizione di vincoli tariffari, standard qualitativi e obblighi di informazione che devono essere osservati da tutte le imprese operanti nel mercato. I destinatari di tali prescrizioni, allora, devono decidere se conformarsi ad esse o se presentare un ricorso mirante al loro annullamento, denunciandone l’asserita illegittimità. Le due decisioni sono strettamente legate l’una all’altra. Se, infatti, la misura regolatoria rimane in vigore, chi non la rispetta a un certo punto sarà sanzionato. In questo caso, l’interazione strategica riguarda il gioco tra i diversi destinatari della medesima prescrizione pubblica, piuttosto che i rapporti tra privati e amministrazione. Da un lato, la strategia dell’obbedienza può generare diversi costi che, se non sostenuti dall’operatore concorrente, si traducono in un vantaggio competitivo per quest’ultimo. Dall’altro, la presentazione del ricorso anche da parte di un solo soggetto può determinare la sospensione dell’applicazione della regola nei confronti di tutti i suoi destinatari, anche di quanti non hanno agito in giudizio. In tutti i casi in cui la violazione non risulti costosa, ad esempio perché non immediatamente sanzionata, la strategia dominante per ciascun operatore sarà quella di non conformarsi alla regola, per evitare di dare un vantaggio competitivo all’altro operatore, che, non adempiendo, non deve sostenere i relativi oneri. Ogni soggetto, dunque, sarà indotto ad agire in giudizio perché l’iniziativa almeno rinvia, ad esempio in caso di esito positivo del ricorso cautelare, la necessità di ottemperare alla prescrizione amministrativa. 

L’assunto secondo cui i destinatari della regola ricorreranno sempre, tuttavia, potrebbe risultare scarsamente realistico. Se pure è nell’interesse comune che essa sia impugnata, ciascuno di loro preferirebbe non promuovere l’azione in prima persona. Se uno soltanto presenta il ricorso, tutti ne beneficiano, ma senza pagarne i costi, anche in termini di reputazione e di buone relazioni con l’autorità pubblica. Sorge così un tipico problema di free-riding, il cui esito paradossale potrebbe consistere in una passività generalizzata, in cui tutti finiscono per subire una decisione negativa senza impugnarla in giudizio. Il problema, tuttavia, può risolversi attraverso la costituzione di un’associazione di categoria, che, a quel punto, promuoverà l’azione per conto di tutti gli associati. Vi può essere poi una pressione sociale a sostenere ciascuno la propria quota di costi, quando i destinatari della regola sono relativamente pochi e si conoscono tra loro. 

Anche in assenza di questi meccanismi di coordinamento, peraltro, è ben possibile che, nonostante i reciproci bluff, almeno un destinatario alla fine decida di agire in giudizio. D’altra parte, se la prescrizione amministrativa ha un notevole impatto economico sull’attività dei privati, presentare ricorso al giudice amministrativo può convenire, anche se le probabilità di un esito favorevole sono relativamente ridotte, qualsiasi sia il livello delle spese legali e dei costi reputazionali. Basterà, infatti, vincere anche solo una volta per ripagarsi di tutti i contenziosi persi. 

I termini dell’interazione processuale diventano ancora più complessi quando entrano in gioco non soltanto i destinatari diretti della regolamentazione, come le imprese, ma anche i suoi beneficiari finali, ad esempio utenti e consumatori. Anch’essi, naturalmente, possono agire in giudizio qualora ritengano che le prescrizioni pubbliche, invece di contrastare il potere di mercato degli operatori, siano troppo deboli e dunque inadeguate a proteggere i loro interessi. Il costo del contenzioso, tuttavia, per tali soggetti può risultare eccessivamente oneroso, in considerazione del ridotto vantaggio individuale che deriva anche dall’eventuale esito positivo del giudizio (un risparmio in tariffa difficilmente compenserà le spese legali). L’azione da parte di associazioni rappresentative pone rimedio a questo problema, ma genera problemi di fedeltà e di coordinamento. In un contesto cooperativo, poi, non contestare la regola di compromesso tra le esigenze dei regolati e le aspettative dei beneficiari potrebbe essere la soluzione migliore, anche se non si tratterà necessariamente della strategia dominante.

 

6. La giustizia amministrativa di fronte alla pandemia

Chiarite la funzione della giustizia amministrativa nella logica del diritto amministrativo e le dinamiche che ne governano il quotidiano funzionamento, può essere interessante verificare come essa stia reagendo a uno shock esterno di portata dirompente come la pandemia da Covid-19. I dati, come illustrato nella relazione del presidente del Consiglio di Stato, evidenziano la notevole capacità di adattamento della giustizia amministrativa. Nel periodo che va dal 1° marzo 2020 al 31 dicembre 2020, la giustizia amministrativa ha definito 47.869 procedimenti in primo grado e 11.078 in secondo grado. Di questi ultimi, 2.095, circa il 20%, sono passati in decisione senza discussione orale. Si noti che l’output ha superato l’input sia in primo grado (47.869 decisioni a fronte di 34.895 ricorsi) sia in secondo grado (11.078 decisioni a fronte di 9.135 appelli). 

Decisivo a tal fine è stato il fatto che il processo telematico fosse già da tempo proficuamente utilizzato nella giustizia amministrativa, anche se naturalmente le restrizioni imposte dalla necessità di limitare i contagi hanno costituito uno straordinario fattore di accelerazione. Il legislatore ha potuto così introdurre uno speciale regime processuale basato sulla previsione dell’udienza da remoto, in cui i difensori intervengono in collegamento audio-video. Il sacrificio della “teatralità” della discussione (e della “convivialità” forzata dalle talora lunghe attese per la “chiamata”) è stato ampiamento compensato dagli incrementi di efficienza e di puntualità, dalla moltiplicazione delle opportunità partecipative dei difensori (in passato costretti a difficili scelte tra udienza in contemporanea in sedi diverse), dall’abbattimento delle spese di trasferta.

Per assicurare il tempestivo sindacato giurisdizionale sugli atti dei pubblici poteri emanati per far fronte all’emergenza, è stato quindi necessario estendere il ricorso alla tutela immediata, con una inevitabile espansione quantitativa delle decisioni adottate d’urgenza in via monocratica. 

Il giudice amministrativo si è così tempestivamente pronunciato su vari profili di limitazione delle attività private (ma in taluni casi anche di loro espansione: ad esempio, in relazione all’occupazione di suolo pubblico in favore dei gestori di attività di somministrazione di alimenti e bevande), gestione dei servizi diagnostici; accordi tra fondazioni IRCCS e società private per la validazione di test sierologici e molecolari per la diagnosi di infezione da SARS-Cov-2, visite domiciliari ai pazienti; affidamento di contratti pubblici per forniture sanitarie di emergenza. Più in generale, ha definito i rapporti tra autorità centrali e comunali nell’azione di contenimento dell’epidemia e il regime di accesso ai verbali del comitato tecnico scientifico;

Negli altri ordinamenti il contenzioso e i criteri di decisione sono stati sostanzialmente simili. 

In Francia, ad esempio, il Consiglio di Stato, nell’esaminare le misure di confinamento adottate dal Governo, pur negando che fossero affette da alcuna manifesta violazione di legge, ha tuttavia ritenuto che le eccezioni fossero formulate in modo ambiguo e, pertanto, risultassero inidonee a dare un messaggio univoco alla popolazione quanto alle finalità perseguite. Di conseguenza, ha invitato il Governo a chiarirne la portata ovvero a riesaminarle (Conseil d’État, juges des référés, ordinanza 22 marzo 2020, n. 439674). Sempre il Consiglio di Stato francese ha ordinato di cessare immediatamente la sorveglianza mediante i droni sulla città di Parigi, ritenendo che essa determinasse una grave violazione della riservatezza della vita privata, tanto più stante la mancanza di un intervento normativo preventivo (Conseil d’État, ordinanza 18 maggio 2020, n. 440442).

Più di recente, durante la seconda ondata della pandemia, il Conseil d’État ha rigettato il ricorso proposto da cittadini e associazioni contro l’imposizione del coprifuoco notturno e di una serie di ulteriori limitazioni alla libertà di circolazione e alla libertà personale. Ad avviso del Consiglio, infatti, la proporzionalità di una misura emergenziale si apprezza solo tenendo conto delle conseguenze sui destinatari e dell’appropriatezza per raggiungere lo scopo perseguito. In tale ambito, pertanto, le libertà fondamentali invocate dai ricorrenti devono necessariamente conciliarsi con altri diritti fondamentali, tra i quali per primo il diritto al rispetto della vita umana (Conseil d’État, 28 ottobre 2020, n. 445487). 

Da ultimo, il Conseil d’État ha ritenuto che la chiusura al pubblico di musei, cinema e teatri rappresenti una grave violazione delle libertà fondamentali, e in particolare della libertà di espressione e libera comunicazione delle idee, della creazione artistica, dell’accesso alle opere culturali, dell’impresa e del commercio e dell’industria, nonché del diritto al libero esercizio di una professione. Per questo motivo, tale misura è stata ritenuta eccezionalmente legittima soltanto nella misura in cui è proporzionata all’esigenza di salvaguardia della salute pubblica e, dunque, ha carattere temporaneo e ancorato a precisi dati e presupposti (Conseil d’État, 23 dicembre 2020, n. 447698).

Nel Regno Unito, la England and Wales Court of Appeal, decidendo sul ricorso proposto avverso i regolamenti emanati in risposta alla pandemia Covid-19 del 26 marzo 2020, con i quali è stato introdotto il lockdown in Inghilterra, da un lato, ha negato la sua ammissibilità, sul presupposto che le censure non fossero adeguatamente motivate e non rivestissero più un interesse attuale, stante l’intervenuta abrogazione dei regolamenti; dall’altro, ha affermato la spettanza del potere regolamentare in capo al Governo sulla base della legge sulla sanità pubblica – Control of Disease Act – del 1984, come modificata dalla legge sull’assistenza sociale e sanitaria del 2008 – England and Wales Court of Appeal (Civil Division), decisione [2020] EWCA Civ 1605, 1° dicembre 2020.

Negli Stati Uniti, soltanto in un caso la Corte suprema è arrivata a sospendere una misura anti-Covid, quella adottata lo scorso 6 ottobre dal governatore di New York Andrew Cuomo, recante l’«Iniziativa per l’azione sui nuovi cluster» codificata dall’Ordine esecutivo n. 202.68. Le misure, infatti, avevano un carattere particolarmente afflittivo per i servizi di culto, l’accesso ai quali era limitato a dieci persone. Al contrario, alcune attività commerciali ritenute “essenziali” potevano rimanere aperte senza restrizioni quantitative predeterminate. Nell’ordinanza, la Corte ha ritenuto che i ricorrenti avessero adeguatamente dimostrato la violazione di un «requisito minimo di neutralità» nominando specificamente entità religiose per restrizioni pur consentendo attività secolari classificate come «essenziali». In secondo luogo, la Corte ha osservato che «la perdita delle libertà del Primo Emendamento, anche per periodi di tempo minimi, costituisce indiscutibilmente un danno irreparabile». Infine, la Corte ha ritenuto che lo Stato di New York non avesse dimostrato che il rimedio cautelare avrebbe danneggiato il pubblico, in quanto non aveva fornito alcuna prova circa il fatto che la partecipazione ai servizi religiosi avesse provocato la diffusione della malattia (Corte Suprema degli Stati Uniti, Roman Catholic Diocese of Brooklyn, New York c. Andrew M. Cuomo, 12 novembre 2020). 

L’analisi comparata mostra dunque come, al di là delle differenze istituzionali e organizzative tra i vari sistemi di sindacato giurisdizionale sull’azione dei pubblici poteri, mezzi di tutela e criteri di decisioni siano sostanzialmente omogenei. Il giudice ha ovunque assunto il ruolo di arbitro nel difficile bilanciamento tra esigenze di sicurezza e salvaguardia della salute e salvaguardia dei diritti fondamentali, effettuando, come sottolineato dal presidente del Consiglio di Stato «un sapiente dosaggio dei princìpi di ragionevolezza, di proporzionalità e di precauzione, in forza dei quali ogni restrizione deve essere limitata allo stretto necessario sotto il profilo spazio-temporale ed essere proporzionata e adeguata all’obiettivo».

Tornando in conclusione all’Italia, si può esprimere l’auspicio che, con il graduale ritorno alla normalità, non vengano dispersi i benefici derivanti dalla straordinaria accelerazione della digitalizzazione, anche in termini di velocizzazione dei processi e dei giudizi e di razionalizzazione e puntualità delle udienze. Allo stesso tempo, bisognerà cogliere l’occasione per rafforzare gli strumenti di sanzione delle pratiche dilatorie delle parti e delle liti temerarie, con soglie automatiche e adeguate di risarcimento del danno. Di fronte a molteplici casi di abuso del processo, andrebbe poi introdotta una più accurata perimetrazione della legittimazione ad agire delle associazioni portatrici di interessi diffusi. Per le controversie tra pubbliche amministrazioni, in particolare tra diversi livelli di governo, che costituiscono una parte non irrilevante del contenzioso pendente davanti al giudice amministrativo, infine, si potrebbero prevedere forme di mediazione e arbitrato affidate a organismi paritetici in misura più ampia ed efficace di quanto non accade per i ricorsi promossi dai privati.