Magistratura democratica

Riflessioni sul tema del pluralismo delle giurisdizioni

di Luigi Rovelli

Partendo dalle riflessioni di Montedoro e Scoditti sul pluralismo delle giurisdizioni, si analizza l’evoluzione storica che ha portato al formarsi di una Costituzione materiale in cui il ruolo della giurisdizione amministrativa si amplia fino alla produzione, su identiche questioni di diritto sostanziale, di “nomofilachie” separate e non comunicanti. Si apre così un problema di bilanciamento fra “specialità” e “uguaglianza di tutti di fronte alla legge”. Dato atto che il problema non è risolvibile con il ricorso ad superiorem, si indica la via più feconda in un processo istituzionalizzato di ricomposizione della cultura giuridica complessiva attraverso momenti di stabile confronto. 

1. Accolgo volentieri l’invito che mi ha rivolto l’amico Scoditti a dare un contributo alla Rivista a me tanto cara su un tema che tocca la relazione storica e l’evoluzione in corso tra giudice ordinario civile e giudice amministrativo e contabile, ma soprattutto fra Consiglio di Stato e Corte di cassazione entro la struttura pluralistica pur presente nel disegno costituzionale, ma certamente accentuata attraverso le “politiche costituzionali” che determinano la Costituzione materiale. Temi tutti la cui altissima rilevanza è purtroppo inversamente proporzionale all’attenzione che vi ha fin qui dedicato la magistratura ordinaria, almeno nelle sue componenti associative.

Montedoro e Scoditti hanno preparato una “introduzione” alla tematica assai interessante di vasta portata e molto compendiosa[1]. Essa parte dalla necessaria indagine storica che ha portato alla distinzione dei sistemi giurisdizionali, distinzione originariamente avvenuta quale riflesso delle differenti situazioni soggettive di diritto sostanziale. Il modello “pluralistico” sostanzialmente previsto dalla Costituzione è divenuto espressione, pure nel primato del potere legislativo, di un assetto istituzionale fondato sulla “condivisione” tra poteri distinti. Ivi si sostiene poi l’ipotesi che sia l’originarietà dei diritti soggettivi, i quali pre-esistono alla loro tutela (mentre gli interessi legittimi conseguono all’esercizio del “potere”) a fondare “l’ordinarietà” del giudice preposto alla loro tutela. Si ammette che l’espansione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo rispetto alla previsione dei Costituenti, quando dettarono l’art. 103, ha corrisposto a un mutamento di «Costituzione materiale», di cui «sono stati protagonisti (…) il legislatore ordinario e il giudice costituzionale»; e si assume anche a tale riguardo che nelle materie astrattamente riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non c’è spazio per la disapplicazione dell’atto – in quanto illegittimo – da parte del giudice ordinario.

Si affronta la questione della nomofilachia di cui Corte di cassazione e Consiglio di Stato sono titolari «nei rispettivi ambiti», e si auspica una convergenza fra le due nomofilachie che deve passare da una «grande e diffusa discussione» estesa a tutti i giudici delle due giurisdizioni, che possa anche sfociare in un nuovo «“concordato giurisprudenziale”» sulla base del noto Memorandum del 15 maggio 2017, ma come sintesi di una stagione di confronto che abbia visto come protagonisti non i soli vertici, ma il «corpo dei magistrati» dei due plessi giurisdizionali. Si allarga, infine, il discorso alla auspicata «nuova centralità del pubblico» che il passaggio pandemico sollecita, per preconizzare una nuova stagione di «amministrativizzazione del diritto».

Ciascuno dei tanti temi oggetto dell’introduzione e delle proposte richiederebbe un’adeguata trattazione compiutamente svolta. Ci si limiterà ad alcune notazioni.

Montedoro e Scoditti sono relatori coltissimi ed equilibrati; colgono pienamente nel segno quando segnalano che la crescente complessità stessa della realtà sociale ed economica porta a esigere organi giurisdizionali differenziati (possibilità riconosciuta dalla Costituzione con riferimento alla giurisdizione del giudice ordinario attraverso il modello delle sezioni specializzate) e specificamente preparati a “conoscere” la realtà materiale di cui trattano; e che la summa divisio è naturalmente quella realizzata dalla tradizione storica che ha portato il Costituente alla scelta dualistica e a riconoscere così la “specialità” di Consiglio di Stato e Corte dei conti, esonerati dalla stessa Costituzione dal compito di adeguamento di cui all’art. 6 delle disposizioni transitorie. Si deve convenire senza riserve nell’auspicio che ogni ricerca di superamento del punto critico che si è formato e che potrebbe portare al formarsi, sulle stesse questioni di diritto sostanziale, di due nomofilachie parallele e non comunicanti, debba passare, prima di tutto, attraverso diffusi confronti anche mediante istituzionalizzati scambi culturali fino a poter dar vita ex re a un tacito “concordato giurisprudenziale”.

Sorprendono, però, alcune forzature che hanno origine soprattutto dalla non del tutto accurata ricostruzione storica, che porta a cancellare o a mettere tra parentesi l’esigenza, se non di “tornare alla Costituzione”, di tornare a confrontarsi con la Costituzione (se vogliamo anche soltanto quella formale) e alle sue matrici; e a riflettere – soprattutto da parte degli appartenenti alla giurisdizione ordinaria – sulle ragioni che hanno portato gradualmente a un evidente e via via crescente décalage del “giudice ordinario” rispetto ai ruoli che i Costituenti intendevano attribuire ai due plessi giurisdizionali. Si potrebbe aprire una riflessione su come mai lo spiraglio offerto dall’art. 103 Costituzione alle “particolari” materie ha avuto, a partire dal d.lgs n. 80/1998, applicazioni normative quasi illimitate; mentre lo spazio aperto dall’art. 113 circa la possibilità per il legislatore ordinario di prevedere l’attribuzione di poteri di annullamento dell’atto amministrativo al giudice ordinario ha trovato effettiva applicazione sostanzialmente soltanto in ordine a sanzioni amministrative e in particolare a quelle conseguenti alla parziale depenalizzazione.

Ne sta derivando una tendenza, espressa peraltro non soltanto da scelte normative ma anche in settori rimasti entro la giurisdizione ordinaria (pensiamo al diritto marittimo), a scelte degli operatori pratici (mediante il ricorso al giudizio arbitrale) che paiono tutte indirizzate verso la residualità e la stessa marginalità della giurisdizione ordinaria civile. Evidentemente un largo settore della stessa società civile dubita, con riferimento a “rapporti complessi”, della piena affidabilità di tale giurisdizione, soprattutto circa la capacità di dare risposte in tempi compatibili con le esigenze della vita economica. Tendenza questa condizionata non solo da un sistema processuale che, nell’affollamento delle pratiche giudiziarie presso la maggior parte dei tribunali e delle corti, vede nella realtà non raggiungibili (perché mancano le condizioni di praticabilità) i benefici derivanti da “oralità, concentrazione e immediatezza”, ma anche dal soffocamento quantitativo cui si va correlando quasi inevitabilmente uno “scadimento qualitativo” non ancora certamente generalizzato, ma inevitabilmente riscontrabile, sia pure episodicamente, in ciascuno dei gradi della giurisdizione. 

 

2. Dovrò correre anche io, come Renato Rordorf, il rischio di avvertire e far avvertire il “retrogusto acidulo” che traspare da discorsi in cui “pezzi di Stato” portano avanti una a volte anche spocchiosa difesa dei propri “territori” di competenza. Tuttavia il rispetto dell’oggettività, soprattutto dell’oggettività storica, porta a qualche rettifica doverosa rispetto ad opinioni – che vanno diffondendosi – secondo cui, nel sistema costituzionale, ciascuna delle giurisdizioni “superiori” svolge le funzioni di nomofilachia unicamente all’interno della propria giurisdizione; e secondo cui la previsione dell’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario e la stessa scelta della Costituzione – ex art. 111, ultimo comma – di fare della Corte di cassazione il giudice della giurisdizione conseguono alla scelta, contenuta al comma 7 dell’art. 111, di fare della Cassazione il giudice di legittimità, avendo disegnato la Corte stessa “come giudice del provvedimento giurisdizionale e non del rapporto controverso”. Come vedremo, quest’ultima annotazione costituisce il classico esempio di hysteron proteron. È la tecnica del giudizio cassatorio – recepito dal modello francesistico – con il corollario del giudice casseur e titolare del solo compito di juger les jugements – che è stato assunto (originariamente in modo esclusivo, dal 2006 con contaminazioni con il modello della cassazione-revision di derivazione germanica) proprio all’unico scopo di assicurare la nomofilachia (anche con il parziale sacrificio dello ius litigatoris rispetto allo ius constitutionis). Ciò è stato quanto storicamente è avvenuto. È vero, peraltro, che l’uso di quella tecnica non è l’unico modo per perseguire e assicurare la custodia del nomos. L’esperienza del “giudice di ultimo appello”, propria del modello delle cd. “Corti supreme” presenti in molti Stati italiani preunitari – in cui esiste un effetto devolutivo e una prudente apertura al giudizio di fatto – non fu affatto preclusiva del formarsi di “capacità precedenziale” dell’organo, pur non chiuso entro l’ “esclusiva” riflessione giuridica.

La stessa idoneità attuale del Consiglio di Stato alla stabilità della sua giurisprudenza, dovuta anche alla sua organizzazione processuale col recepimento del modello indicato dall’art. 374 del codice di rito civile come novellato nel 2006, è risultata compatibile con un regime che mantiene il mezzo processuale che consente di “scandagliare” il giudizio di fatto (condizione necessaria a mio parere per avere comprensione dei termini di ogni controversia) e che si è così rivelato ugualmente idoneo a perseguire (forse anche più del bene individuale del suum cuique tribuere) il “bene della vita” collettivo, costituito dalla ragionevole stabilità della giurisprudenza. 

Nell’esperienza storica la nomofilachia, pur presa in considerazione come “funzione” nello Stato assolutistico regio entro la figura del Conseil des Parties, inserito nello stesso Conseil du Roi, vede la lontana data di nascita del termine stesso “cassazione” – ecco il demone delle origini – nel decreto del 27 Piovoso 1790, con cui in Francia l’Assemblea generale creò il Tribunal de cassation con lo scopo espresso e dichiarato di reprimere episodi di ribellione alla legge da parte dei giudici.

Eppure è bene ricordare che, anche nella Francia dell’Ancien régime, l’assolutismo monarchico non era riuscito a imporre quello che oggi chiamiamo il principio di soggezione dei tribunali (i parlements locali) alla legge (le ordonnances del sovrano).

Il magistrato giansenista Jean Domat, uno dei massimi civilisti nella Francia del XVIII secolo, rilevava: «noi abbiamo in Francia quattro specie di leggi: le ordinanze e le consuetudini, che sono le nostre leggi proprie, e ciò che osserviamo del diritto canonico e del diritto romano». Con la sostituzione al sovrano per regole dinastiche del sovrano democratico, la Rivoluzione identificava tutto il diritto con la legge “posta”. È stato ricordato che il pur ambiguo Mirabeau, segretamente scrivendo a Luigi XVI dopo i primi successi della Rivoluzione, per incoraggiarlo a non contrastarla, osservava: «confrontate il nuovo stato di cose con l’antico regime; da questo confronto nascono il conforto e la speranza. Non vi sembra nulla essere senza parlements, senza corpi separati? Parecchi periodi di governo assoluto non avrebbero fatto per l’autorità regia quanto questo solo anno di rivoluzione». Osserva Zagrebelsky: «la storia prese un’altra direzione a favore non del re ma del popolo. Ma, quanto alla legge, l’intuizione di Mirabeau fu esatta: la rivoluzione non aveva rotto con l’assolutismo, ma l’aveva portato a compimento»[2].

Il neo-istituito Tribunal de cassation venne inserito entro la stessa assemblea legislativa con la funzione di proclamare, su ricorso della parte o del procuratore della Repubblica, la volontà della legge nel caso controverso. Non può sfuggire che la comunanza di funzioni fra la prerogativa regia, che veniva attuata attraverso il Conseil des parties, inserito entro il Conseil du Roi, e la funzione del Tribunal de cassation, collocato presso l’organo legislativo, pur nella proclamata divisione dei poteri, era quella di assicurare la “soggezione” piena e controllabile della giurisdizione al volere del titolare della sovranità. Anche per questo Alexis de Tocqueville, testimone dell’esperienza americana posta a confronto con quella francese, individuò il limite del legislatore rivoluzionario con l’espressione, mutuata dal Vangelo secondo Marco, che definisce quelle istituzioni come «vino nuovo in otri vecchi».

Certo, a fondamento vi era l’illusione proto-illuministica della capacità della legge di regolare ogni realtà senza mediazione di alcuno, senza bisogno di interpretazione, con i noti corollari del giudice bouche de la loi e della giurisdizione come potere nullo; illusione solo mascherata dall’effimera previsione del référé legislatif che si esprimeva con un décret déclaratoire de la loi.

Ma le utopie si rivelarono presto come tali alla prova dei fatti e, con un senatoconsulto del 1803, il Tribunal, ribattezzato Cour de cassation, muta natura, fuoriesce dal Corps législatif e, come felicemente espresso da Claudio Consolo, tende a divenire da cane da guardia contro i giudici, il loro organo di vertice e di guida: la sede ove l’interpretazione può meglio formarsi e non già essere negata o combattuta.

Restano certamente alcuni profili che collegano ancora la nomofilachia al primato illuministico della legge e all’eredità del Tribunal de cassation. Ma se pure, in un certo senso, come ricordato magistralmente da Pajno, «legge, nomofilachia e Tribunal de cassation costituiscono (…) i tre lati di un unico triangolo»[3], è il ruolo della legge a essere profondamente modificato. Certo, è venuto del tutto meno il mito della legge, che può essere soltanto o applicata o violata, e non ha oggi più spazio una lettura della Corte in chiave di risposta dell’ordinamento ai rischi di ribellione del potere giudiziario al potere legislativo. 

L’idealtipo del diritto interamente posto dal sovrano attraverso la legge ha trovato la sua espressione storica nell’opera del “sovrano democratico” seguita al 1789. Essa vede la più eloquente traduzione letteraria in un testo così celebre da essere diventato mitico, come il Discours preliminaire al Code civil di Portalis. E tuttavia quel testo, inteso a manifestare l’intento dei redattori del Code civil di ritrovare l’uniformità possibile nel momento storico vissuto, manifesta la consapevolezza del grande Conseiller d’État che inevitabilmente le fonti della decisione giudiziaria saranno plurime e non sempre derivabili dalla legge. In quel testo viene derisa l’opinione di coloro «qui osent préscrire impéuriesement au législateur la terrible tâche de ne rien abandonner à la décision du juge». Si aggiunge che «si la prévoyance des législateurs est limitée, la nature est infinie».

Nella formazione della Costituzione la “curvatura” verso la garanzia dello ius constitutionis, retaggio del modello francese, fu eloquentemente patrocinata da Calamandrei e, pure non incontrastata, trovò espressione sia negli artt. 101 e 102 Cost., sia soprattutto nel comma 2 (oggi 7 dell’art. 111 Cost.). Il valore – questo davvero supremo – perseguito è quello dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, uguaglianza garantita da un organo che ha il compito di assicurare, per quanto possibile, che la stessa disposizione non sia interpretata e applicata in modo difforme da giudici diversi. L’art. 65 dell’ordinamento giudiziario, che si vuole scritto da Piero Calamandrei, dopo aver definito la Cassazione organo supremo di giustizia, definisce le funzioni attribuite alla Corte:

- assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge;

- garantire l’unità del diritto oggettivo nazionale;

- vigilare sul rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni e regolare i conflitti di competenza e di attribuzione.

È stato acutamente individuato da Claudio Consolo nel testo dell’art. 65, n. 1, «un singolare, non casuale chiasmo»: quello di assegnare alla Corte non il compito della custodia «della esatta interpretazione e della uniforme osservanza» – espressioni compatibili con il consueto compito giurisdizionale della tutela dei diritti applicando la legge –, ma «uniforme interpretazione... e quasi militarescamente esatta osservanza». L’osservazione vale a sottolineare la accentuata rilevanza della curvatura del disegno della funzione fondamentale della Corte verso la tutela di ciò che chiamiamo lo ius constitutionis. Ma appare possibile invece rilevare con Taruffo che, se l’espressione «esatta osservanza» è chiara eco della teoria formalistica del diritto, quasi a indicare il livello di assoluta certezza del risultato interpretativo correttamente svolto, perché il concetto di esattezza si lega a quello di calcolo, cioè di un’operazione deduttivistica che individua un unico significato esatto ed uno solo, l’altro compito, quello di perseguire «l’uniforme interpretazione», incrina quella premessa e spinge piuttosto verso l’assunzione di scelte ben argomentate e per questo dotate di intrinseca capacità precedenziale. Il fatto che “l’uniformità” sia stata aggiuntivamente richiesta rispetto al testo del precedente regolamento generale giudiziario ha l’effetto di relativizzare il concetto stesso di esattezza, non potendo ciò che è ontologicamente esatto non comprendere in sé l’uniformità, la costanza del proprio predicato.

È degno di nota ricordare che vi fu un tentativo, espresso con l’emendamento dell’onorevole Targetti, di inserire addirittura l’art. 65 nella Costituzione con un testo in cui si aggiungeva che «la legge sull’ordinamento giudiziario regolerà l’istituto della Corte di Cassazione». L’emendamento fu ritenuto superfluo perché l’istituto della Cassazione era quello ben noto e corrispondente al contenuto dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario nel testo allora e tutt’ora vigente. Alla soppressione seguì peraltro l’approvazione dell’emendamento, che ha aggiunto dopo le parole «è sempre ammesso il ricorso in Cassazione» la precisazione «per violazione di legge» che non era contemplata nel testo approvato dalla Commissione dei 75 e che collega espressamente la Corte alla funzione nomofilattica. Si era in seguito sostenuta la tesi stessa della “costituzionalizzazione” dell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario. Ipotesi, questa, seccamente smentita dalla Corte costituzionale con sentenza n. 184 del 1984, per cui «non può riconoscersi ad esso una posizione differenziata da quella di ogni altra norma posta da fonti di pari grado» e cioè quella di legislazione ordinaria. Si può facilmente convenire che si tratta di legge ordinaria, tuttora vigente, ma si aggiunge non tradotta in norme processuali. 

Parrebbe dunque potersi affermare che nell’ordinamento esiste una separazione tra funzione di giustizia e funzione di nomofilachia. Separazione che diventa massima e astrae del tutto la funzione di nomofilachia da quella di giustizia in una norma processuale (l’art. 363 cpc, nel testo novellato nel 2006) che abilita la Suprema corte a pronunziare «nell’interesse della legge» e senza alcun effetto sul provvedimento oggetto del ricorso per Cassazione, il principio di diritto «anche quando il ricorso delle parti è dichiarato inammissibile», ove ritenga la questione «di particolare importanza». Qui si astrae totalmente dalla logica del processo di parti, manca ogni funzione di giustizia, mentre residua e, da sola, giustifica la decisione della Suprema corte, la funzione di nomofilachia. La riforma del 2006, attraverso la rivitalizzazione del ricorso nell’interesse della legge, ha trasformato gli obiter dicta «da solitarie e narcisistiche elucubrazioni del redattore delle sentenze in meditate occasioni, persino solenni, in cui la Corte va a manifestare, su questioni non decisive per il processo ma rilevanti per l’interpretazione della legge, il proprio orientamento con ricercata evoluta enunciazione della giurisprudenza della Corte». Davvero, in tal caso, e soltanto in tal caso, il ricorso è mera “astuzia della ragione” che vale a consegnare la Corte alla funzione disegnata da Calamandrei per cui essa «deve curarsi, più che di risolvere secondo giustizia il caso concreto, di suggerire per il futuro l’interpretazione teorica corrispondente in astratto alla volontà del legislatore» ed è chiaro che la esclusività della funzione di «interpretazione teorica» (non dissimile da quella della dottrina, anche se costruita sopra un caso concreto) è tanto più estesa in quanto la norma abilita alla pronuncia del principio di diritto anche su provvedimenti e materie sottratti alla cognizione del giudice di legittimità. Il risultato di assicurare “nell’interesse della legge” all’ordinamento il principio di diritto con una valenza generale in materia ritenuta dalla Cassazione di particolare importanza, pur in assenza di ogni effetto sul processo, è stato ritenuto dalla Corte costituzionale (alla quale, in quel contesto, era stata rimessa una questione di legittimità costituzionale di una norma legislativa) idoneo a soddisfare il requisito di rilevanza necessario per investire della questione il Giudice delle leggi.

Questo ha un significato istituzionale perché sta a dimostrare che l’incidentalità di una questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Cassazione nel quadro della previsione di cui all’art. 363, va parametrata anche a un “bene della vita”, che non è quello conteso fra le parti nella vicenda processuale da cui la questione ha origine; ma a un “bene della vita” di utilità generale costituito dal principio di diritto da affermarsi, con rilevanza nomofilattica, dalla Suprema corte.

Questa norma renderebbe astrattamente possibile alla Corte di cassazione, dopo aver dichiarato inammissibile un ricorso volto a sindacare errores in iudicando o in procedendo di sentenze del Consiglio di Stato, ravvisando tuttavia di particolare importanza la questione pur inammissibilmente proposta, di risolverla anche in contrasto con la sentenza impugnata per dichiarare il “principio di diritto”; e la Corte potrebbe anche essere tenuta a dover provvedere, se ne facesse richiesta il procuratore generale (ex art. 363, primo e secondo comma).

Considero naturalmente malaugurata questa ipotesi perché la Cassazione, in tal modo, andrebbe a trasformare un contrasto di giurisprudenza in conflitto istituzionale senza neanche poter risolvere questo conflitto. La Suprema corte non avrebbe alcun potere di imporre al Consiglio di Stato la propria interpretazione andando ad annullare decisioni prese in contrasto col principio di diritto affermato ex art. 363.

Concludendo sul punto, mi pare si possa osservare che la “funzione correttiva” quale Giudice dell’ultimo grado di giudizio appartenga ugualmente a ciascuna delle tre cd. giurisdizioni superiori, che ad essa funzione sia inevitabilmente connesso il ruolo di custodia del nomos.

Ma ciò non basta per affermare l’equivalenza della Cassazione alle altre due giurisdizioni superiori, pur guarentigiate dall’esenzione di cui all’art. VI delle disposizioni transitorie di attuazione della Costituzione. È sufficiente ricordare che l’avere affidato alla Corte di cassazione il compito di regolatore della giurisdizione corrispondeva all’essere, almeno in quel momento, l’organismo posto in apicibus nell’ordo iudiciorum; ma soprattutto è errato affermare in linea generale che la nomofilachia spetta all’organo di vertice di ciascun plesso giurisdizionale, ciascuno chiamato a dare l’esatta interpretazione della norma di cui si chiede l’applicazione. Non è certamente vero che la Costituzione abbia attribuito alla Cassazione la funzione di nomofilachia con estensione limitata ai campi in cui ha giurisdizione il giudice ordinario. La portata dell’art. 111, n. 7, riferita alla decisione «degli organi giurisdizionali ordinari e speciali», fatta salva naturalmente l’eccezione di cui al comma successivo, è quella di fare della Cassazione il giudice del controllo di legittimità di tutte le sentenze non altrimenti impugnabili emesse dai giudici speciali diversi dai vertici funzionali della giustizia amministrativa e contabile. Con riferimento alla sola giurisdizione civile, rileva per importanza la giurisdizione tributaria. A seguito della revisione avvenuta ex art. 69 l. n. 69/2009 (che ha soppresso il potere del governo di discostarsi dal parere del Consiglio di Stato) si deve ritenere, ancorché rimanga qualche incertezza, che, stante la natura decisoria del provvedimento adottato, il rimedio straordinario possa venire attratto entro il controllo di legittimità di cui al settimo comma dell’art. 111, anche se permangono legittimi dubbi perché, nella sostanza, si tratta di decisioni del Consiglio di Stato. Plurime decisioni della Corte costituzionale hanno valutato il ricorso per cassazione per violazione di legge nucleo essenziale del «giusto processo regolato dalla legge» e considerato coperto da «presidio costituzionale» in questi casi il diritto al processo in Cassazione (Corte cost., nn. 209/2007, 395 /2000, 210/2013); una più risalente sentenza della Corte costituzionale, la n. 50 del 25 marzo 1970, sottolineò «la posizione fatta alla Corte Suprema dall’art. 111 della Costituzione per il quale solo essa è giudice ultimo della legittimità». 

 

3. Come è noto, nel dibattito svoltosi all’Assemblea costituente sul tema del mantenimento del sistema dualistico, ereditato dalla tradizione al di là di un disegno consapevolmente perseguito dal legislatore ottocentesco, per sostituirlo al sistema unitario rispondente al mito della giurisdizione unica, vi fu uno scontro tra i sostenitori del regime unitario, modellato dalla legge del 1865 abolitrice del contenzioso amministrativo e i fautori della tesi contraria, patrocinata fra gli altri da Giovanni Leone, da Costantino Mortati e da autorevolissimi esponenti del Consiglio di Stato, in particolare Aldo Bozzi. Ma è significativo che l’argomento vincente contro i fautori della tesi della “unificazione” (primo fra tutti Calamandrei) fu lo stesso argomento che, come vedremo in seguito, era stato portato da Silvio Spaventa nel celebre discorso di Bergamo e che condusse a dar vita alla legge istitutiva della IV sezione: che cioè l’ambito di competenza del giudice amministrativo “nulla toglie” a quella del giudice ordinario e che, per questa ragione, era ingiustificata del tutto l’idea di sopprimere o trasferire al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie fino ad allora proprie della giurisdizione amministrativa. In tale contesto e date tali premesse, la limitazione contenuta all’ottavo comma dell’art. 111 non era parsa interferire significativamente sulla sostanziale unicità del ruolo nomofilattico in capo alla Corte di cassazione per il carattere limitato – di eccezione rispetto alla regola, secondo l’interpretazione che veniva data al primo comma dell’art. 103 Cost. – dei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sostanzialmente ristretti alla materia del pubblico impiego (paradossalmente, proprio quella materia trasferita col decreto n. 80/1998 al giudice ordinario). Era infatti vigente e veniva in tal modo riproposto l’art. 48 del testo unico n. 1054 del 1924, a tenore del quale la Corte di cassazione può annullare le sentenze del Consiglio di Stato «soltanto per assoluto difetto di giurisdizione». Il limite che veniva posto alla materie eccezionalmente attribuibili al giudice amministrativo non poteva comportare sottovalutazione del rilievo di una possibile nomofilachia separata e interna al processo amministrativo. 

Dall’inizio degli anni novanta, segnato dalla “privatizzazione” e dalla piena apertura alla concorrenza e al mercato, si assiste a un progressivo ampliamento delle materie riservate alla giurisdizione amministrativa esclusiva. Il cambiamento fu epocale e vi corrispose anche in questo caso una duplice lettura della Costituzione da parte degli stessi costituzionalisti che stupì Fabio Merusi «come un romanzo giallo». Effettivamente di questo tipo è stata l’evoluzione che ha portato all’introduzione di plurimi casi di giurisdizione esclusiva, evoluzione svoltasi sul piano della legislazione ordinaria e che ha così rappresentato un vero e proprio mutamento nella Costituzione materiale, avvertibile anche ponendo a confronto sentenze emesse in un quadro di Costituzione formale immutata, ma in periodi storici diversi fra loro, dalla Corte costituzionale. A mo’ di esempio, va richiamata la sopracitata sentenza 25 marzo 1970, n. 50, con cui la Corte costituzionale ebbe a sottolineare «la posizione fatta alla Corte suprema dall’art. 111 della Costituzione per il quale solo essa è giudice ultimo della legittimità». Con la sentenza 11 marzo 1957, n. 41 si descrive il Consiglio di Stato alla luce dell’art. 103 come organo di giurisdizione speciale sopravvissuto all’entrata in vigore della Carta costituzionale anche in vista di una graduale revisione; e con sentenza 15 luglio 1959, n. 48 si ribadisce che Consiglio di Stato e Corte dei conti hanno natura di organi giurisdizionali speciali mantenuti pur dopo l’entrata in vigore della Costituzione perché si era ritenuto di non portare alle estreme conseguenze il principio di unità della giurisdizione affermato dall’art. 102 Cost. Per contro, alcuni decenni dopo, la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 204 del 2004, riconosce al giudice amministrativo «piena dignità di giudice ordinario per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione delle situazioni soggettive non contemplate dal (modo in cui era stato inteso) l’art. 2 della legge del 1865»; Corte cost., n. 140/2007, assegna al giudice amministrativo, quale giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica, «poteri idonei ad assicurare piena tutela e quindi anche la tutela risarcitoria per equivalente o in forma specifica per il danno asseritamente sofferto anche in violazioni di diritti fondamentali in dipendenza dell’esercizio illegittimo del potere pubblico». A sua volta, Corte cost., n. 47/2007, nell’affermare – dandole così solida base giuridica – la translatio iudicii (prima ritenuta in via interpretativa da Cass., sez. unite, n. 4109/2007) sancisce l’incompatibilità con il quadro costituzionale del tradizionale principio di “incomunicabilità di giudici appartenenti ad ordini diversi”, ma afferma pure con chiarezza quanto emerge dall’ultimo comma dell’art. 111, e cioè che quando sussiste la giurisdizione anche esclusiva del giudice amministrativo, la Cassazione non può vincolare il Consiglio di Stato sotto alcun profilo quanto al contenuto di merito o di rito.

Come ha ben rilevato Alessandro Pajno, l’interpretazione e, in massimo grado, l’interpretazione della Costituzione «è vincolata al testo ma deve tener conto del con-testo (…) ; essa è così “al centro di due flussi di influenze che convergono da opposte direzioni provenienti dal testo e dai destinatari del testo”»[4]. Tra la fine degli anni cinquanta e gli anni duemila era davvero cambiato il “contesto”: l’espansione a tutto campo dell’area della giurisdizione esclusiva aveva cambiato la “Costituzione materiale”. Quel Consiglio di Stato che nel 1957 e nel 1959 era un semplice “giudice speciale” mantenuto in vita dalla Costituzione, diviene negli anni 2000 il «giudice naturale dell’esercizio della funzione pubblica» e le «particolari materie» indicate dalla legge come eccezione alla regola dell’esclusione della giurisdizione amministrativa in materia di diritti soggettivi, sono ora largamente rimesse alla discrezionalità del legislatore ordinario.

In via generale, la “Costituzione materiale”, in regime di Costituzione rigida, non può andare a sostituirsi a quella “ formale”, derogandola. Essa può ben muoversi all’interno di “politiche costituzionali” tutte egualmente compatibili con il testo della Legge fondamentale. Lo scrutinio di costituzionalità è stato svolto ed è stato superato con la sentenza n. 204 del 2004, che ha segnato però anche il limite oltre il quale l’attribuzione di giurisdizione esclusiva non può derivare dalla legge ordinaria. Lo spazio riconosciuto dal giudice costituzionale è ben delineato: esso deve riguardare solo gli atti o i comportamenti che siano manifestazione di esercizio di potere autoritativo da parte della p.a. Si deve dunque trattare di un atto espressione di “potere” – come tale connotato da elementi di discrezionalità –, ma anche di potere effettivamente esistente in capo alla p.a. A questo punto, si porrebbero problemi interpretativi davvero assai complessi, non privi di spazi di ambiguità, che qui possono essere solo brevemente indicati.

La conclusione più ovvia sarebbe quella autorevolmente sostenuta, secondo cui il criterio di riparto, piuttosto che basarsi sulle differenti figure soggettive del privato, passa attraverso il medesimo criterio che le sezioni unite della Cassazione, fin dal 1949, avevano indicato: quello fra carenza o cattivo esercizio del potere; anche se la giurisprudenza delle sezioni unite, fissando quel criterio, riteneva che esso dovesse costituire proprio il più affidabile mezzo per diagnosticare la ricorrenza o meno del diritto soggettivo (sussistente solo nei casi di inesistenza del potere), considerando la distinzione fra le due figure soggettive come il criterio accolto dalla Costituzione stessa.

A questa stregua, l’inesistenza del “potere” amministrativo o la contestazione della sua esistenza in capo all’autorità che ha emesso l’atto impugnato, pure quando questo rientri fra le “materie” comprese nella giurisdizione esclusiva, riporterebbe la giurisdizione al giudice ordinario. Sembra però che ciò provi troppo. Bisogna riconoscere che il senso della giurisdizione esclusiva è quello per cui, “in particolari materie” previste dalla legge, benché ricorra in concreto la dipendenza del rapporto di diritto civile dal rapporto amministrativo, la giurisdizione è del giudice amministrativo e non del giudice ordinario. Ciò è tanto vero che è lo stesso cpa a riconoscere che, anche nei casi in cui il “potere” sussiste ma è l’atto amministrativo che prende a bersaglio un diritto soggettivo, il diritto resta tale e non affievolisce determinando la coesistenza di interessi legittimi e di diritti soggettivi. Infatti, l’art. 6 l. n. 205/2000, oggi art.12 cpa, dopo avere nel primo comma devoluto alla giurisdizione esclusiva una vasta categoria di controversie, stabilisce che «le controversie concernenti i diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto». L’uso da parte del legislatore della situazione giuridica soggettiva e non delle diverse forme in cui si articola la giurisdizione nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione vale così a stabilire la piena arbitrabilità di controversie in cui sia parte la p.a. e attribuite dalle regole di riparto alla giurisdizione del giudice amministrativo, quando esse concernono “i diritti soggettivi”. Ciò vale a smentire in re ipsa la tesi secondo la quale la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nelle controversie relative alle vicende conseguenti agli “accordi” di cui all’art. 11 l. n. 141/1990 dimostrerebbe come il soggetto pubblico ivi abbia necessariamente agito nell’esercizio di un potere autoritativo e che quindi, a tale stregua, la posizione soggettiva del privato sia quella di interesse legittimo. Se l’attribuzione di una controversia alla giurisdizione esclusiva comportasse che in quel rapporto, in capo al soggetto privato, non possono configurarsi situazioni soggettive qualificabili come “diritti soggettivi”, si negherebbe perciò stesso la distinzione tra tale forma di giurisdizione e la giurisdizione generale di legittimità; ma soprattutto si escluderebbe la previsione della conferibilità ad arbitri delle controversie sui diritti soggettivi riferita proprio ai “diritti” ricompresi nella giurisdizione esclusiva, arbitrabilità affermata invece dal testo normativo. Se ne deve dedurre che è vero che, solo se la controversia non riguarda l’esistenza del potere dell’amministrazione – nell’attribuzione e nel contenuto – ma solo il quomodo con cui il potere è stato esercitato, è costituzionalmente legittimo, in quella materia, l’esercizio della giurisdizione esclusiva. Ma ciò non dovrebbe riportare il criterio di riparto alle situazioni soggettive del privato, anche se l’ambiguità sussiste. 

Certamente l’idea che, a differenza dei diritti soggettivi che preesistono alla loro tutela, gli interessi legittimi conseguono all’esercizio di un potere che l’amministrazione abbia e non vi preesistono, non è nuova e coglie l’esigenza di ricercare la collocazione degli interessi legittimi dentro il “sistema” del diritto.

E anche qui non può mancare una pur essenziale sintesi del processo storico avvenuto, processo che ha storicamente portato a fondare sia gli spazi per la giurisdizione amministrativa sia la regola di riparto sulla base delle situazioni giuridiche soggettive della parte privata. Ma storicamente, dal punto di vista normativo, dopo la legge abolitrice del contenzioso amministrativo del 1865 non fu stabilito alcun criterio di riparto fra giurisdizioni. Il solo criterio introdotto era quello che stabiliva la materia per l’attribuzione di controversie al giudice ordinario: l’esistenza di «diritti civili o politici». Molte, troppe controversie restavano fuori e non spettavano ad alcun giudice. Non tutte, ma una parte di esse meritava di trovare un’affidabile sede di composizione delle controversie. Come dichiarò Silvio Spaventa (anche nella sua veste di prestigioso uomo politico della “destra storica”) nel discorso di Bergamo del 1980, prima dei lavori parlamentari che condussero alla legge istitutiva della IV sezione, l’intento del legislatore era quello di «non ritogliere nulla all’autorità giudiziaria ordinaria delle attribuzioni che le abbiamo conferito con la legge la quale abolì i nostri Tribunali amministrativi». Il disegno – riassunto nella nota formula di “giustizia nell’amministrazione” – era quello di definire per la quarta sezione un ambito di competenza decisoria che “nulla togliesse” al giudice – allora il solo il giudice ordinario – e che dunque avesse competenza a conoscere e decidere degli “affari” in cui non vi fosse questione di diritti civili e politici, di cui all’art. 3 della legge del 1865.

Si doveva dunque andare alla ricerca (invenire appunto) della situazione soggettiva, diversa dal diritto soggettivo, ma che potesse trovare una differente forma di protezione nell’ordinamento, alla cui titolarità si potesse legare la legittimazione all’esercizio dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo di essa lesivo. E ciò poté avvenire proprio attraverso la creazione ex novo della situazione soggettiva che veniva protetta in quanto dava legittimazione all’esercizio dell’azione di annullamento dell’atto amministrativo ritenuto di essa lesivo. Inoltre l’elaborazione – per l’epoca arditissima (oggi legittimata dall’art. 97 della Costituzione) – di “potere funzionale” aprì la via al sindacato per eccesso di potere e all’elaborazione delle varie figure sintomatiche dello sviamento dell’atto dalla sua causa tipica. L’iniziale collateralità dell’organo rispetto alla pubblica amministrazione è stata necessaria e storicamente strumentale per superare la diffidenza dell’amministrazione verso la funzione stessa del “Giudice” in quanto tale. È del 1931 un saggio di Vittorio Scialoja – Come il Consiglio di Stato divenne organo giurisdizionale – in cui, pure dandosi atto che il riconoscimento legislativo si ebbe soltanto nel 1907, si sottolinea come l’approdo giurisdizionale avvenne «per forza propria dell’organo», per la sua capacità di forgiare concetti destinati poi a diventare categorie paradigmatiche. Si può estendere all’esperienza del Consiglio di Stato italiano quella valutazione che Jean Rivero esprime con riferimento al Conseil d’État francese, e cioè che esso acquistò la «plénitude juridictionnelle» mediante la propria raffinata elaborazione concettuale, capace di imporsi alla stessa “scienza giuridica”, secondo la nota espressione per cui “la doctrine s’est mise à l’école du juge”. 

Palazzo Spada non fu da meno del Palais Royal, anche se ha seguito un proprio originale percorso.

 

4. Va riconosciuto che l’interesse legittimo non può oggi essere identificato in un diritto soggettivo “depotenziato”; né essere riconosciuto soltanto quale interesse occasionalmente protetto; o come esistente, in rerum natura, in uno spazio intermedio tra il diritto soggettivo –quale interesse dotato dall’ordinamento giuridico della propria armatura di protezione – e l’interesse semplice (il gheriglio privo di guscio secondo la metafora di Thon). Certo una risalente e autorevole corrente dottrinale sia di processualisti, sia di amministrativisti, lo riconosce solo come «mero fatto di legittimazione al processo» (Giannini); ovvero come puro potere di azione (Chiovenda). E, come ha rilevato Scoca, la teoria processualistica equivale a negazione dell’interesse legittimo come situazione soggettiva. Neppure forse è del tutto esatto affermare che la civilistica, all’epoca, fosse totalmente priva delle risorse scientifiche idonee a inquadrare siffatta figura. La nozione di interesse legittimo è per sua natura nozione di carattere generale; essa non può assumere rilievo e venire ad esistenza se non di fronte a un “potere” – sia esso pubblico o potere privato – e a un atto di suo esercizio. Al diritto civile era ben nota l’esistenza, accanto alla coppia diritto-obbligo, della coppia potere-soggezione. Ebbene, in via di prima approssimazione e con particolare riferimento agli interessi legittimi che oggi chiamiamo di tipo oppositivo (ma in realtà anche per quelli di tipo pretensivo, in cui l’interesse strumentale, separato da quello finale, esaurisce la tutela con l’annullamento dell’atto), può dirsi che la genialità (il «grande, geniale inganno» secondo l’epigrammatica valutazione di Berti) dei padri fondatori delle categorie del diritto amministrativo è stata quella di cogliere una situazione che la volgata civilistica definiva come situazione soggettiva “passiva” – immagine speculare del potere amministrativo – per individuarne caratteri in cui essa si pone come situazione “attiva” per il soggetto interessato al corretto esercizio di quel potere. Nella giurisdizione amministrativa l’intervento del giudice presuppone la previa mediazione dell’atto amministrativo, in cui è presente una valutazione dell’interesse generale. Ma ciò non vale a dare fondamento all’osservazione per cui l’interesse legittimo è una situazione soggettiva che non preesiste all’esercizio di un potere (osservazione in parte ripresa da Cannada-Bartoli, per cui non si riesce a spiegare la giuridicità della lesione di un interesse che viene tutelato solo dopo il suo sacrificio). Vale l’obiezione di Scoca per cui, se l’atto sfavorevole e illegittimo lede l’interesse legittimo, questa è una situazione soggettiva che è violata dal provvedimento e non nasce da esso. Certo, tuttavia, questa notazione non cancella la problematica se, nel processo amministrativo, valga il principio di atipicità dell’azione e del carattere strumentale del processo rispetto al diritto sostanziale (principio frutto di una fondamentale elaborazione concettuale sulla linea di Klein, Chiovenda, Andrioli e altri eminenti processualisti e che l’art. 24, primo comma della Costituzione ha recepito); o se la posizione sopra scrutinata rappresenti un antistorico ritorno alla situazione presente nel diritto romano classico (e anche presso i Maestri orientali), in cui la tutela giurisdizionale era affidata a un sistema di “azioni tipiche”. La posizione soggettiva del “diritto” non era un prius, ma un posterius rispetto alla creazione del rimedio; la cognitio extra ordinem garantiva la creazione giudiziale di azioni adeguate alle esigenze di tutela: con un po’ di approssimazione si può dire, in tal caso, che davvero il diritto sostanziale consegue alla creazione del rimedio in sede processuale. D’altra parte, con molto ritardo, la civilistica – è del 1967 il volume di Lina Bigliazzi-Geri dedicato alla figura dell’interesse legittimo nel diritto privato – ha recepito tale figura. Ci si può anche interrogare se siano state reperite altrettanto efficaci forme di controllo sugli atti di esercizio del “potere privato”. Una più radicale visione contrastava in linea di principio la sindacabilità stessa ad opera del giudice dei poteri privati. Si può oggi convenire che si tratta di una linea di pensiero “regressiva” anche alla luce del principio costituzionale di solidarietà sociale e dei limiti che l’art. 41 pone alla libertà di iniziativa economica. La via della contaminazione del concetto, riportata nel diritto privato, passa proprio attraverso la problematica cd. dell’abuso del diritto, come limite alla portata del brocardo, per cui “qui suo iure utitur neminem laedit” (problematica riproposta da Francesco Galgano, che si interroga argutamente se può valere la massima con la protasi “qui suo iure abutitur”). La rilevanza del concetto di abuso del diritto non è quindi limitata all’ipotesi normativamente descritta del divieto di atti emulativi. Il suo fondamento è per lo più ravvisato con qualche incertezza, ma non necessariamente in via alternativa o mediante la riconduzione dell’abuso allo schema del vizio causale, per la discrepanza tra la causa tipica e l’intento empirico; ovvero nella violazione del canone di buona fede che permea l’intero arco del rapporto obbligatorio. 

Le situazioni giuridiche non hanno o non hanno necessariamente un fondamento ontologico ma o derivano dal diritto positivo, da cui vengono estratte, o, quando hanno origine da una creazione intellettuale del ceto dei giuristi, assolvono una funzione storicamente determinata e restano ad essa legate. Ma anche esaurita la loro funzione storica, può restare l’utilità del concetto in quanto tale. 

L’uso della “categoria” da parte del Costituente non entifica la figura, né la confina necessariamente entro l’area del diritto pubblico. Esso è valso a semplificare il messaggio normativo scontando quello che si presentava come l’espressione di un vocabolario condiviso e utilizzato a un fine specifico, storicamente realizzato, e da quel momento garantito costituzionalmente: la certezza della sua tutela giurisdizionale. Ma ciò non esclude che l’analisi teorica porti – come ha ben spiegato Lipari, con riferimento a consolidate categorie civilistiche – a una messa a punto delle categorie alle quali quel lessico si è riferito. Come è stato detto da Andrea Federico, la dicotomia, lungi dal fondarsi su una ontologica distinzione tra situazioni soggettive, ha costituito lo strumento argomentativo per giustificare la sottrazione al giudice ordinario della valutazione sull’esercizio del potere dell’amministrazione. Da un lato la nostra Costituzione, agli artt. 24, 103 e 113, assicura la tutela giurisdizionale all’interesse legittimo come al diritto soggettivo; dall’altro, però, l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo garantisce il diritto di accesso alla giurisdizione, fuori dalla materia penale, soltanto nelle «controversie relative a diritti e ad obbligazioni di carattere civile»; e in questa formulazione diritti e interessi legittimi, pur distinti sul piano concettuale, devono poter essere fra loro equiparati.

Sembra potersi concludere, condividendo quantomeno il dubbio sulla perdurante utilità (al di fuori della rilevanza residuale in funzione dell’arbitrabilità di controversie rimesse alla giurisdizione esclusiva che vertano su diritti soggettivi) della distinzione ai fini del riparto tra giurisdizioni, dubbio così espresso da Giovanni Verde: «l’evoluzione successiva all’entrata in vigore della Costituzione e la necessità di rendere il nostro ordinamento omogeneo rispetto a quello degli Stati dell’Unione europea», che non hanno contezza di tale figura, «hanno lentamente condotto all’esaurimento della funzione storica assolta dall’interesse legittimo, che era legata alla possibilità di provocare l’annullamento giudiziale dell’atto illegittimo; e non ad altro»[5]. Resta soltanto il “concetto giuridico” di interesse legittimo, il nudum nomen nella sua essenza logica; ma generalizzabile, quando ne ricorra l’utilità, anche fuori dal diritto pubblico in cui è sorto e in cui pare avere assolto definitivamente la propria funzione. 

 

5. I modelli di giurisdizione che oggi coesistono e che resistono vittoriosamente alle spinte, che pure sono emerse, verso l’unità della giurisdizione e ottengono spazi crescenti per la stessa giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (nonostante l’esigenza di fondo che il giudice deve assolvere non sia più quella, dalle pur nobilissime ascendenze spaventiane, di dare garanzie all’amministrazione rispetto al “potere giudiziario”, ma quella di assicurare alle situazioni giuridiche dei cives una piena tutela giurisdizionale anche nei confronti della p.a.) sono sostanzialmente due e rispondono a esigenze ben differenziate. Come ci ha spiegato Montedoro, da un lato sta il modello cd. separatista – nel quale lo statuto di indipendenza è riconosciuto e regolato nei suoi tratti essenziali a livello di norme dettate dalla Costituzione per i giudici ordinari. Il suo fondamento risiede forse nella convinzione che la “soggezione del giudice alla legge” e l’esclusività di tale soggezione valga ad assicurare il tramite di legittimazione democratica intercorrente fra il giudice e la legge che costituisce la massima espressione della sovranità. Di qui l’impianto calamandreiano del titolo IV dedicato a «La magistratura». La caratteristica di questo impianto si manifesta soprattutto con l’art. 102 («La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario») e in quello che allora era il secondo comma dell’art. 111 e oggi è il settimo più volte sopra ricordato volto a individuare nella Corte di cassazione l’organo chiamato ad assicurare il bene fondamentale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Dall’altro, sta il modello cd. “osmotico” proprio del giudice amministrativo. Osmotico perché in stretto rapporto di osmosi – in virtù sia dell’origine storica sia delle funzioni di generale «organo di consulenza giuridico-amministrativo» che l’art. 100 della Costituzione attribuisce al Consiglio di Stato – con la realtà fenomenologica su cui il giudice amministrativo è chiamato a giudicare. Si può convenire che un avvicinamento è in atto, che il giudice civile, non solo per la rivolta “des faits contre le code”, ma per la crescente valenza delle clausole generali (che secondo Irti «irridono la logica della fattispecie») e la prevalenza, a livello di gerarchia delle fonti, dei “principi” traibili dalla Costituzione e da testi sovranazionali (principi che, secondo la lucida valutazione di Irti, sono «pure essenze assiologiche che si slegano da vincoli ricognitivi e sillogistici»[6], ma che costituiscono “leggi della ragione”, condizione di validità di quelle “leggi della volontà” espresse con le leggi ordinarie) ha cessato da tempo di essere quello che Paolo Grossi chiama l’evirato esegeta consegnatoci dal giacobinismo giuridico.

Così come i giudici amministrativi, con l’ampliarsi rilevantissimo degli spazi di giurisdizione esclusiva, sono stati ammessi, a loro volta, a confrontarsi con il rigore “matematizzante” del codice civile, ma anche a far uso delle ricchissime risorse scientifiche consegnateci dalla tradizione dottrinale civilistica. Ciò che ha consentito agli uni e agli altri, all’interno di procedimenti esegetici e sistematici “definiti” e in qualche modo “controllabili” di produrre un costante adeguamento di gran parte della giurisprudenza civile e amministrativa a situazioni nuove e in continua evoluzione, all’insegna, negli esiti interpretativi più riusciti, del suggerimento che negli anni quaranta impartiva Guido Calogero, secondo cui sia l’intelligenza a creare la logica non viceversa; anche se il controllo di logicità e di coerenza con i testi normativi complessivamente considerati all’insegna del brocardo nisi tota lege perspecta rimane un momento irrinunciabile per esorcizzare quello che Aurelio Gentili indica come il pericolo di libertinismo interpretativo.

Si può anche ben convenire che, ai fini della prefigurazione delle soluzioni per il prossimo futuro, l’alternativa non vada più ricercata all’interno del pur alto dibattito tenutosi all’Assemblea costituente fra i sostenitori dell’unità della giurisdizione (in testa Calamandrei) e i fautori del pluralismo giurisdizionale (fra cui, tra i più eminenti, Costantino Mortati), ma fra modelli in grado di garantire tutele efficienti e non disfunzionali all’ esplicarsi della funzione nomofilattica come la garanzia di uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Il quesito è: fino a che punto può la specialità prevalere sul principio di eguaglianza? 

Con queste precisazioni esistevano e rimangono forti le ragioni per l’esistenza di un giudice speciale per il sindacato sull’esercizio del potere amministrativo. La ragione che ben giustifica il permanere del pluralismo delle giurisdizioni, con riferimento al giudice speciale amministrativo, concerne la salvaguardia – che va riconosciuta – dell’autonomia della pubblica amministrazione e del potere esecutivo, pur entro un quadro di legalità e di tutela delle posizioni soggettive implicate da atti della p.a. E il giudice amministrativo, ben radicato nella storia delle istituzioni, organizzato secondo un modello “osmotico”, trova proprio oggi, tramontata del tutto l’idea della giurisdizione di privilegio e del mero collateralismo, nel suo rapporto di “osmosi”, anche al più alto livello, con le istituzioni rappresentative, e nella diretta conoscenza dei meccanismi di esercizio del potere e dunque in una alta specializzazione tecnica, la giustificazione della sua ragion d’essere come “giudice speciale” ma direttamente riconosciuto come tale dal testo costituzionale. 

 Tutto ciò, ovviamente, nell’auspicio che sia comune alle due giurisdizioni l’interpretazione in bonam partem dell’ambiguo aforisma di Biagio Pascal, per cui «la giustizia deve essere congiunta al potere così che ciò che è giusto possa anche aver potere e ciò che ha potere possa anche essere giusto».

I lavori che si sono svolti sotto l’egida di “Italiadecide”, e ai quali ho personalmente partecipato, hanno visto confrontarsi su queste tematiche magistrati appartenenti alle diverse giurisdizioni. Ed è apparsa comune al sentire di ciascuno dei tre plessi giurisdizionali la difficile tollerabilità che, alla diversità di giurisdizione, possano corrispondere stabili giurisprudenze diverse fra loro quando siano in questione norme di diritto sostanziale identiche. È verificabile come il problema, de iure condito, oggi non trovi soluzione nel ricorso ad superiorem, avendo già la Corte costituzionale con la sentenza n. 204/2004 chiuso ogni spazio all’opzione interpretativa che vede possibile il ricorso straordinario per cassazione in forza del settimo comma dell’art. 111, affermando che: «è sufficiente osservare che è la stessa Carta costituzionale a prevedere che siano sottratte al vaglio di legittimità della Cassazione le pronunce che investono i diritti soggettivi nei confronti dei quali, ma nel rispetto della particolarità della materia il legislatore ordinario prevede la giurisdizione esclusiva». Dunque la via più feconda (forse la sola) passa attraverso un processo di ricomposizione della cultura giuridica complessiva mediante l’organizzazione anche informale di momenti stabili di confronto. Occorre quindi stabilizzare e, se possibile, aumentare i già presenti raccordi organizzativi e dialogici solo troppo parzialmente sperimentati. Quanto alla possibilità che, attraverso riforme legislative – che a mio parere sarebbe “avventuroso” se avvenissero a livello di legislazione ordinaria – volte a regolare forme di partecipazione alle sezioni unite della Cassazione di magistrati provenienti dalle altre due giurisdizioni su temi comuni, reputo che può essere davvero scelta opportuna quella di implementare la valenza coerenziatrice del principale organo di nomofilachia col contributo di saperi propri dei membri di ciascuna giurisdizione; e sarebbe altresì opportuno, una volta abbandonate da ogni parte vocazioni lideristiche, proporsi forme di parziale eterointegrazione reciproca e regolata dalla legge per la decisione su questioni di alto e comune interesse nomofilattico. Non solo il confronto e la reciproca assimilazione dei saperi sarebbero in sé cosa preziosa; ma quel tanto di “competitività” che pur appare esistere fra i componenti dei tre plessi (ma le occasioni di pronunziare su questioni comuni sono molto più rare con riferimento al rapporto tra giudice ordinario e giudice contabile) verrebbe in tal modo indirizzata al fine più proficuo: quello di massimizzare l’apporto culturale di ciascuna componente.

 


1. G. Montedoro e E. Scoditti, Il giudice amministrativo come risorsa, in questo fascicolo.

2. G. Zagrebelsky, Antigone e la legge che smarrisce, La Repubblica, 25 giugno 2003, https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/06/25/antigone-la-legge-che-smarrisce.html.

3. A. Pajno, Nomofilachia e giustizia amministrativa, in Rassegna forense, n. 3-4/2014, p. 642, www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/275510/2014-03.04+I-09+CONGRESSO+NOMOFILACHIA+PAJNO.pdf/4cb7638c-7f8f-4131-825b-235f71542dc4?version=1.0.

4. Cfr. A. Pajno, Giustizia amministrativa e Costituzione: dal giudice speciale al giudice ordinario del potere pubblico, paper, 2 marzo 2020, www.giustizia-amministrativa.it/web/guest/-/pajno-giustizia-amministrativa-e-costituzione-dal-giudice-speciale-al-giudice-ordinario-del-potere-pubblico. 

5. G. Verde, La Corte di Cassazione e i conflitti di giurisdizione (appunti per un dibattito), in Dir. proc. amm., n. 2/2013, p. 367.

6. N. Irti, Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino, 2016, p. 10.