Magistratura democratica

Per un giudice amministrativo veramente speciale

di Marcello Maria Fracanzani

Lo scritto individua la specialità del giudice amministrativo nella tutela dell’interesse legittimo, situazione giuridica soggettiva peculiare, non agevolmente monetizzabile per la pluralità ed eterogeneità degli interessi coinvolti – che la stessa esperienza giuridica europea sta percependo e cercando di proteggere. L’appiattimento storicamente progressivo dell’interesse legittimo sul diritto soggettivo ha finito per creare difficoltà nel riparto e fa perdere al giudice amministrativo la sua peculiarità; in questa prospettiva il Tribunale dei conflitti diverrebbe una camera di compensazione, un luogo di trattativa parapolitica, un organismo di mediazione, secondo schemi che hanno già gettato discredito sulla magistratura in generale. Nella parte ricostruttiva, l’A. propone alcuni esempi di complementarietà fra le giurisdizioni, individuata l’una come specificazione limitata dell’altra che rimane generale. Infine, si individuano nelle esigenze eurocomunitarie di monetizzazione di ogni diritto le ragioni delle difficoltà dell’interesse legittimo, ma anche del diritto soggettivo e del processo in generale, divenuti ostacoli per l’accelerazione economica.

1. Montesquieu a Palazzo Spada / 2. Genus ad speciem / 3. La civilizzazione dell’interesse legittimo / 4. Genus ad speciem vel species eiusdem generis / 5. Per una conclusione

 

1. Montesquieu a Palazzo Spada

Il saggio introduttivo a questo numero della Rivista (G. Montedoro ed E. Scoditti, Il Giudice amministrativo come risorsa), quasi un articolo di fondo, ci propone cose note e altre meno note. Per riflettere sulle prime – che troppo spesso superficialmente diamo per acquisite – e per scrutare le seconde – di cui ci ricordiamo solo quando vengono nominate, ma su cui non si è mai abbastanza riflettuto – è possibile individuare tra le diverse suggestioni alcuni concetti da abbinare in coppie, per collocarli nell’ideale piano cartesiano costruito tra gli assi “giudice ordinario/giudice amministrativo”, luogo dove siamo stati garbatamente condotti (e invitati a muoverci) dai nostri Dioscuri della giurisdizione: gemelli, ma speculari, come i plessi cui appartengono e di cui sono alfieri; diversi, ma uniti nell’interesse comune per la giustizia. E così le coppie si formano, quasi da sole: generale e speciale; diritto soggettivo e interesse legittimo; interesse individuale e interesse pubblico; risarcimento e indennizzo; ma più radicalmente anche “mio e tuo”, “mio e nostro”, … fino a economia e diritto, diritto e potere.

Ma procediamo con ordine.

Che il giudice amministrativo sia un vantaggio per il cittadino e un aumento delle sue garanzie verso gli apparati è affermazione talmente ripetuta da risultare banale; che l’interesse legittimo (qualsiasi cosa sia) ne ampli la tutela è affermazione meno ripetuta, ma altrettanto banale per la sua indeterminatezza nell’oggetto, sia esso l’interesse o la tutela.

Che il giudice amministrativo sia speciale perché è “un giudice nell’amministrazione”, è slogan ripetuto, ma non indagato nella sua ragion d’essere, dunque un buon punto di partenza per le riflessioni che intendiamo proporre alla discussione: un giudice che non appartiene al terzo potere, ma svolge con terzietà all’intero del secondo la delicata funzione di giudicare dei rapporti fra i cittadini e i poteri che (per quanto pubblici o proprio perché pubblici) sono sempre delle costrizioni e, all’esito, dispone gli ordini di fare e non fare nei confronti della p.a., sia derivanti dalle sue sentenze, sia – tramite il giudizio di ottemperanza – derivanti dalle sentenze di altri plessi giurisdizionali e finanche dei giudici privati. È quindi speciale perché attua il principio di divisione dei poteri, evitando che il terzo prevarichi sul secondo ed evitando che il secondo possa affrancarsi da ogni controllo indipendente. È, cioè, concreto attuatore di un principio, quello di Montesquieu, che ha valenza superiore alla Costituzione, innervandola e integrando un presupposto logico perché possa darsi un ordinamento giuridico, cioè un rapporto non dispotico. In questo senso è speciale e, quindi, prezioso[1]

Ma per quanto questo ruolo – il presidio alla tripartizione dei poteri – sia rilevante, non spiega veramente la specialità del giudice amministrativo. Di più. Questa stessa funzione, da sola, rischia di comprometterne l’esistenza: guardiamoci attorno.

In Germania il giudice amministrativo è il giudice del processo dove una parte è la pubblica amministrazione. Se i tedeschi ci riflettessero (e chi scrive continua a divertirsi ricordandoglielo ad ogni occasione), in un medesimo rapporto di diritto/dovere, il giudice è quello ordinario o quello speciale a seconda se una parte sia la p.a. o meno; allora vuol dire che la parte, una delle parti, è speciale e chiede un giudice speciale; il che incide pesantemente – alterandolo – sul contraddittorio, sulla parità delle parti, su quell’equilibrio nel rapporto processuale che serve a ritrovare quell’equilibrio nel rapporto sostanziale che proprio le parti hanno perduto, tanto da adire il giudice per chiedergli di aiutarle a ritrovarlo. Diciamocelo: un giudice speciale dove si va perché una parte è (considerata) speciale, è un giudice sospetto di parzialità, quindi non è indubitabilmente terzo, quindi non è un giudice; è speciale nell’accezione negativa indicata dalla nostra Costituzione quando vieta che ne siano costituiti di nuovi. 

Né le cose vanno meglio in Francia. Oltr’alpe l’ordinamento è plasmato – ben prima di De Gaulle – sul secondo potere, che mal tollera ogni intromissione, anche quella del giudice amministrativo. Per mettere in difficoltà un collega francese, basta informarsi innocentemente sul sistema dell’ottemperanza o su chi paghi veramente le “penali” (les astreintes): arriverà a confessarvi che in Francia l’Esecutivo non tollera di essere fermato da un giudice, tantomeno da quello amministrativo, per cui affermerà di aver adempiuto, continuando con una serie di variazioni e atti soprassessori fino a giungere all’elusione del giudicato. Ugualmente, il potere dissuasivo delle “penali” è minimo, perché a pagarle non è il funzionario renitente cui sia riferibile il provvedimento o comportamento lesivo, ma l’ente cui quell’organo si riferisce: né vi è responsabilità contabile vera e propria[2]. Possiamo dire che né i Paesi con ordinamento su modello tedesco, né quelli su modello francese possono vantare un giudice amministrativo veramente speciale, semmai una sezione specializzata, ma non un vero specialista.

 

2. Genus ad speciem

Già gli antichi ammonivano che la specialità ha senso in rapporto a una generalità, non tanto per l’opposizione tra identità e differenza, ma in base alla distinzione fra diversità e comunanza. E allora può essere considerato “speciale” il giudice che, per determinate materie, deroga alla giurisdizione generale: è la materia che fa il tribunale. Sennonché, cominciando a guardare all’Italia, l’art. 133 d.lgs n. 104/2010 (il codice del processo amministrativo) è chiaro, intuitivo e immediatamente condivisibile nel principio della sua lunga e articolata elencazione, dove le materie procedono secondo l’ordine della l. n. 241/1990, giustificandosi il deferimento alla cognizione esclusiva del giudice speciale dei vizi inerenti al procedimento amministrativo. La chiarezza vira in caligine, fino ad assumere i tratti dell’opacità, mano a mano che si procede nell’alfabeto: perché debbono andare esclusivamente al tar gli affari relativi alle lett. t, v e z-quater, solo per citarne alcuni[3]? Anche sulla specialità nella specialità del Tar Lazio vi sarebbe, poi, da ridire[4]. Ma la Consulta ha già detto molto con la sentenza n. 204 del 2004 e non possiamo qui intrattenerci su come sia stato (legalmente) possibile rimagliare quel lungo elenco di materie in giurisdizione esclusiva, già fulminato dal giudice delle leggi: perché non va sottaciuto che l’attuale elenco di materie in giurisdizione esclusiva è più lungo e vasto di quello precedente all’intervento della Corte costituzionale con la sua robusta pialla[5]

In fondo, al pari della deroga fondata su di una parte, sulla natura di una delle parti del processo, come in Germania, anche la deroga fondata sulla materia è un criterio odioso di specialità, in cui si percepisce l’arbitrio legislativo di spostare capricciosamente le controversie da una parte all’altra, da una giurisdizione all’altra[6], a seconda della convenienza o per rammostrare un afflato riformatore atto al compiacimento di questa o quella istituzione sovranazionale da cui ci si attende un finanziamento più o meno a buon mercato. Ma lasciando così sempre più perplesso il cittadino propenso a ritenersi gabbato perché, se la sua causa fosse andata “dall’altra parte”, forse avrebbe avuto esito diverso. E la perplessità è anticamera della sfiducia. 

Il giudice amministrativo italiano è, però, speciale – veniamo a punto – perché c’è l’interesse legittimo da tutelare. Ed è questa una particolarità tutta italiana (forse con assonanze in Spagna). Dove non c’è una chiara distinzione fra diritto soggettivo e interesse legittimo, dove tutto è diritto/dovere, il giudice amministrativo è speciale, ma in un’accezione diversa, come abbiamo visto essere nel modello tedesco.

Non le materie, non le parti, ma la situazione sottesa da tutelare determina (e giustifica) la deroga alla giurisdizione ordinaria, la specialità del giudice amministrativo. Non occorre qui tanto ripercorre la storia dell’interesse legittimo[7], quanto piuttosto richiamarne quel tratto misto, soggettivo e oggettivo, che lo caratterizza: una situazione giuridica soggettiva che guarda al rapporto fra le parti (privata, pubblica o privata funzionalizzata) e che contemporaneamente guarda all’atto, al provvedimento in sé[8]. Da esso, dalla sua struttura, scaturisce un processo che ha un contraddittorio a tre: il ricorrente, il resistente e il controinteressato, comparando i diversi interessi, non necessariamente contrapposti; da esso deriva un processo che vede non il “mio contro il tuo”, ma il “mio contro il nostro”; da esso si giustifica un sistema probatorio dispositivo con metodo acquisitivo[9]; da esso si giustifica il riequilibrio delle parti processuali che erano asimmetriche nel momento sostanziale/procedimentale; da esso deriva il giudizio di ottemperanza (che non può essere semplice esecuzione forzata), fra discrezionalità amministrativa e statuizione del giudice; da esso sorge la necessità di un processo che abbia per faro quell’interesse che continuiamo a chiamare “pubblico” (non tanto perché dello Stato, ma) perché “proprio di ciascuno, ma non esclusivo di alcuno”, di cui ognuno è portatore, ma di cui nessuno può essere titolare unico: anche l’amministratore non è titolare dei diritti che gestisce o dei poteri che esercita, con la singolarità che nel pubblico amministratore il titolare del potere (il popolo) e il destinatario dell’azione amministrativa (ancora il popolo) coincidono. Ecco perché vi è bisogno di un giudice veramente speciale, di uno specialista, non di una sezione specializzata[10]

 

3. La civilizzazione dell’interesse legittimo

Così congegnato, il giudice amministrativo ha dato grandi risultati, raggiunto meritori traguardi nella tutela dei beni di interesse collettivo e nella regolazione dell’attività economica, sviluppando con una sapiente attività pretoria (invero stimolata da un foro intelligente e propiziata da attenta dottrina) attorno alle poche norme processuali, peraltro assai disorganiche. Dalla legittimazione ad agire di Italia Nostra, alla tutela ante causam per l’apertura domenicale della grande distribuzione, il diritto amministrativo è (stato) il suo processo, soprattutto negli anni settanta e ottanta del secolo passato.

Poi, sull’onda emotiva dei risultati, si è cominciato a ricorrere al giudice amministrativo per avere provvedimenti di qualità in tempi rapidi e in unitarietà nomofilattica, incompatibili con la giustizia ordinaria. Cominciò, da un lato, la crescita esponenziale delle materie esclusivamente a lui devolute, fino all’intervento di resezione chirurgica operato dalla Corte costituzionale del 2004, già citato; ma, più radicalmente – ed è quanto qui interessa – cominciò quella “civilizzazione” dell’interesse legittimo che è alla radice dell’impasse in cui ci dibattiamo oggi.

L’inizio va ricercato nell’art. 35 d.lgs 31 marzo 1998, n. 80 che aprì – seppur per materie limitate – al risarcimento dell’interesse legittimo. Siamo ben quindici mesi prima della sentenza delle sezioni unite, n. 500/1999 che ha preso atto e portato a compimento quanto già indicato dal legislatore. Ne nacque un’alternatività fra giurisdizioni che degenerò in concorrenza, per non dire competizione[11].

“Perché l’interesse legittimo non deve affievolirsi nel diritto soggettivo” mi sembra il titolo provocatorio per un bel libro. Non deve farlo perché l’alternatività di tutela non è reale: non vi è chi “annulla risarcendo” e chi “risarcisce annullando”, vi è solo la contraddizione fra chi è soggetto a termini decadenziali brevissimi e chi a termini prescrizionali decennali, ove la translatio iudicii non aiuta veramente, ma indirizza verso un risultato che – se positivo – al più produce una sentenza che ha effetti diversi rispetto quella del giudice cui ci si era rivolti in prima battuta e che, in fondo, era ciò di cui si riteneva aver bisogno. Insomma, diciamocelo, con la translatio iudicii si ottiene un succedaneo, cioè un surrogato, una pietanza diversa da quella che avevamo chiesto.

E proprio perché le due situazioni giuridiche soggettive si vanno sovrapponendo, da un lato assistiamo a interventi ricorrenti – di almeno due Presidenti del Consiglio dei ministri – che sulla stampa estiva lanciano la proposta balneare di sopprimere il giudice amministrativo: suggestione agostana, è vero, ma intanto formulata toccando le corde della semplificazione e del “ce lo chiede l’Europa” (specie, quando uno dei due Presidenti è stato anche ai vertici della Ue). Dall’altro, registriamo il tentativo di ampliare ulteriormente le materie di competenza (giurisdizione) esclusiva. In mezzo, un’incessante richiesta di regolazione del riparto alle sezioni unite della Suprema corte, che fatica a trovare un criterio discretivo. Ma fatica a trovarlo perché i due termini si assomigliano così tanto da rendere arduo il compito di distinguerli, sicché il concordato Romano - D’Amelio, “a te i diritti soggettivi, a me gli interessi legittimi”, non sembra più percorribile una volta che si siano “legittimati i diritti” e “soggettivizzati gli interessi”. Un battibecco fra giurisdizioni, poco comprensibile all’esterno (e all’estero), una situazione di malessere diffuso. E qui arriviamo all’ultimo interrogativo postoci dall’articolo di fondo da cui abbiamo preso le mosse: serve il Tribunale dei conflitti? 

Il Tribunale dei conflitti c’è in Francia, ma il peso del giudice amministrativo in un sistema centrato sull’Esecutivo e con un controllo di costituzionalità antecedente e debole rende poco comparabile l’esperienza gollista con il sistema parlamentare del Belpaese. In ogni caso, sorgerebbe come un organo a formazione composita per trovare una composizione dei dissidi; forte sarebbe il rischio di intromissione della bassa politica; fortissima la sensazione che si tratti non di un organo giurisdizionale, ma di un organismo di mediazione: insomma, un luogo ove si operano transazioni fra poteri ex art. 1965 cc, aliquid datum, aliquid retentum, lasciando al cittadino la sensazione che la propria causa sia dirottata su questo o quel binario in base a contingenze esterne, comunque poco oggettive e non individuabili. E non potrebbe che essere così, visto che non è (più) chiaro il criterio discretivo, restando sovrapponibili diritto e interesse legittimo. Sicché – e il passo sarebbe breve – alla rinnovata richiesta di ottenere il Tribunale dei conflitti, la risposta sferzante sarebbe quella di (ri)proporre la soppressione del giudice amministrativo: tanto, a che cosa serve? Si controverte comunque in tema di diritti, in ogni caso risarcibili e, quindi, comunque transigibili, di “mio e tuo”. Nella migliore delle ipotesi, non volendosi toccare la Costituzione, il giudice amministrativo verrebbe sostanzialmente svuotato, ridotto a sezione specializzata “amministrativa”, come abbiamo già avuto quella “agraria” presso ogni capoluogo di mandamento o giù di lì. Al grido iconoclasta “semplificazione, semplificazione!”, perderemmo un pezzo di tradizione feconda, uno strumento a tutela dei diritti, nell’economia, ma non dell’economia[12]. La risposta dovrebbe consistere nel ricordare che, continuando a togliere, proseguendo nei “tagli lineari”, la struttura non diviene più agile ma più gracile; perché, spesso, le semplificazioni sono banalizzazioni.

Personalmente sono contrario al Tribunale dei conflitti – con o senza riforma costituzionale che, a volerla fare, comunque (ritengo) sarebbe indispensabile –, poiché percepito come organismo di mediazione con ingresso della politica o, comunque, con valutazioni extragiuridiche che aumentano il disincanto e la sfiducia nei cittadini: una sorta di consiglio supremo composito, dove si cerca “la quadra”. In ogni caso, prima di costituire il tribunale, occorre chiarire quale sia il criterio discretivo e, in base a questo, plasmare il tribunale. Ma se riusciamo a individuare il criterio discretivo, ridefinendo l’interesse legittimo, allora – forse – non c’è neppure più bisogno del Tribunale dei conflitti.

Io credo sinceramente che il (prezioso) sistema dualistico italiano debba essere preservato; che possa esserlo solo rafforzando le situazioni giuridiche soggettive che ciascun plesso è chiamato a tutelare; e che per farlo occorra rafforzarne le peculiarità: “mio contro il tuo” (in larga parte disponibile e transigibile, generalmente risarcibile) e “mio contro il nostro” (tendenzialmente indisponibile e non transigibile, talvolta indennizzabile). Non credo, per sgombrare il campo da equivoci, che il problema sia il risarcimento del danno, poiché la giurisprudenza aveva già elaborato l’usurpazione acquisitiva come ipotesi di comportamento lesivo extracontrattuale risarcibile, perché non riconducibile – nemmeno mediatamente – all’esercizio di poteri amministrativi. Quando non c’è potere, c’è danno; quando c’è è potere c’è indennizzo, cospicuo, legato al valore di mercato, come è ormai quello d’esproprio. E se l’indennizzato ritiene di aver subito un maggior danno rispetto a quello riconosciutogli, vada al tribunale civile per chiedere “il di più” che non gli è stato dato dal giudice amministrativo, provando quel che gli riesce: resta solo da vedere se condizionare la domanda ulteriore all’accettazione del rischio di reformatio in pejus. In questo modo, non ci si scomoda nemmeno a cercare un tertium genus di responsabilità da contatto della p.a. per giustificare un diverso criterio di risarcimento del danno amministrativo, disarticolando la tradizionale bipartizione.

 

4. Genus ad speciem vel species eiusdem generis

In ogni caso, e veniamo all’ultima parte, se il giudice amministrativo è speciale, vuol dire che è parte di un plesso generale: la specialità ha senso come distinzione dalla generalità per alcune caratteristiche, però con la presenza di alcune costanti che alla generalità riconducono.

Ma per non dare l’idea di un librarsi estetizzante in raffinate architetture che elevano il capriccio a norma razionale, svolgiamo un esempio del rapporto di genus ad speciem in un tema fra i più sensibili, proprio perché ad alta rilevanza economica[13].

Banco di prova di quanto si è detto è proprio il rito speciale dei contratti su lavori, servizi e forniture, cioè su quelle procedure che muovono circa l’80 per cento del danaro pubblico immesso nel circuito dell’economia nazionale, aperto peraltro al mercato europeo. Come funziona? In controtendenza, l’idea è quella di concentrare tutto il contenzioso avanti il giudice amministrativo, costruendolo come giudice esclusivo degli atti o dei rapporti sottesi a questa materia e prevedendo sistemi acceleratori; unicità e velocità per contrastare l’incertezza, nemica dell’economia. Gli è però che l’approccio pragmatico della direttiva comunitaria porta a individuare un momento preciso ove ogni contenzioso cessa, più precisamente un momento ove il giudice esce di scena e ciò che è fatto si cristallizza, diviene stabile, economicamente (più che giuridicamente) definito. In termini più semplici, il cuore delle disposizioni processuali cui ci stiamo avvicinando sembra essere proprio il limite del processo: decorsi trenta giorni dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva o sei mesi dal contratto comunque concluso (anche in spregio a ogni pubblicità ed evidenza pubblica), si decade da ogni azione ed è precluso l’accesso al giudice amministrativo, che è definito l’unico ed esclusivo cui rivolgersi.

Quale allora la reazione a questa sorta di denegata giustizia? È meglio affidarci alla pregnanza di un caso realmente accaduto.

Il caso: l’impresa concorrente a un appalto chiede una linea di credito per far fronte alle spese di avvio del cantiere. L’istituto bancario acconsente alla condizione che venga deferita alla camera di conciliazione arbitrale internazionale ogni controversia, ma al solo fine che la camera arbitrale possa stabilire a chi assegnare l’appalto tra i vari concorrenti: non chi ha fatto l’offerta migliore, ma chi ha maggiori esposizioni con il sistema bancario, in modo da assicurare la possibilità di rientro dal debito. Difficile alternativa: rinunciare alla tutela processuale statale, ovvero rinunciare alla linea di credito? Non sembrano esserci soluzioni alternative al processo: rinunciare ad esso significa rinunciare a ogni garanzia di un esame giuridico delle proprie ragioni. 

Il problema, semplificato al massimo, si riduce a una domanda: quale tutela giurisdizionale resta una volta spirati i termini decadenziali di cui all’art. 120 cpa per adire il giudice amministrativo cui è attribuita la giurisdizione esclusiva in materia?

La risposta può porsi in termini di alternativa. La tesi più facile afferma che lo spirare di un termine decadenziale porti con sé la fine di ogni tutela giurisdizionale, proprio in tal senso deponendo il carattere decadenziale del termine, cioè il venir meno della situazione sostanziale e processuale sottesa alla posizione di concorrente non aggiudicatario; a puntello, si richiama il carattere esclusivo della giurisdizione del giudice amministrativo in questa materia: se è esclusivo e se non si può più accedervi, vuol dire che non c’è più a chi rivolgersi, che sono finite le tutele previste dall’ordinamento. Si chiama “esclusiva” la giurisdizione che è solo di un certo giudice; e quando le regole processuali proprie di quel giudice non consentono più di accedervi, vuol dire che non vi è più alcun rimedio, che non vi è più giurisdizione. 

La costruzione lascia però insoddisfatti, dacché sconta l’assenza di tutela anche di fronte al mero trascorrere del tempo da un fatto illegittimo, quale la stipula del contratto in spregio alle garanzie dell’evidenza pubblica: si tratta, cioè, della consacrazione del fatto compiuto.

Una costruzione concettualmente più ardita e giuridicamente raffinata muove dal rifiuto di lasciare sacche di impunità o di carenza di garanzie giurisdizionali, in spregio ai principi di concentrazione ed efficacia della tutela, richiamate anche nelle premesse del codice del processo amministrativo.

Di qui l’ipotesi ricostruttiva: la premessa combina l’insoddisfazione per la conclusione che vede la decadenza capace di travolgere ogni situazione giuridica soggettiva – non solo processuale, ma anche sostanziale – con la necessità di effettività della tutela, raccomandata dall’ordinamento comunitario, a presidio della concorrenza e dell’evidenza pubblica che la propizia, quale fondamento dell’Unione europea.

Su quest’incrocio si innesta l’invito, non a caso, comunitario a introdurre le Alternative Dispute Resolution (ADR), con il duplice intento di deflazionare i canali della giurisdizione statale (e comunitaria) da una parte, e propiziare sistemi non contenziosi, accessibili, a costi affrontabili, con carattere fiduciario e che contrastino la concentrazione delle controversie rilevanti in poche mani, ancorché istituzionali.

L’esperienza di quanto si va praticando nelle camere arbitrali, in realtà di compensazione bancaria, ci conferma nell’urgenza del problema, cioè di mantenere la giurisdizione speciale, ma di inserirla come deroga a quella generale, pronta ad espandersi.

Si potrebbe pensare, allora, a una sequenza di questo tipo[14]:

1) la giurisdizione esclusiva di cui all’art. 120 cpa è pur sempre eccezionale (artt. 7, 29 e 30 cpa);

2) il termine decadenziale travolge le situazioni processuali esperibili avanti il giudice amministrativo (g.a.), ma fa riespandere la giurisdizione generale del giudice ordinario (a.g.o.);

3) diversamente opinando si dovrebbe ritenere che nessun giudice possa più conoscere del contratto dopo sei mesi dalla stipula o pronunciarne l’inefficacia una volta scaduto il (brevissimo) termine per impugnare l’aggiudicazione definitiva;

4) al contrario, non si può lasciar privo di tutela (effettività artt. 1 e 7 cpa) un rapporto in materia di commesse pubbliche, tema rilevante per la concorrenza e la stessa integrazione comunitaria;

5) non risulta essere abrogato, nemmeno dal cpa, l’art. 5 della legge sul contenzioso amministrativo, quindi permane il potere dell’a.g.o. di disapplicare gli atti amministrativi illegittimi presupposti che incontri nella sua cognizione su quei contratti;

6) detta cognizione incidentale e il conseguente potere di disapplicazione non risultano inibiti neppure verso gli atti amministrativi che sono (furono) attratti alla giurisdizione esclusiva del g.a.: la decadenza, lo spirare dei termini di impugnazione, può travolgere al più la cognizione in via diretta di tali atti, ma non certo quella in via incidentale: essi restano nel mondo giuridico e vi producono effetti, anche in momenti successivi, eventualmente pregiudizievoli e dannosi per qualcuno o più d’uno, che deve avere un giudice a cui rivolgersi: se non (più) il g.a. che possa annullarli, (almeno) l’a.g.o. che possa disapplicarli;

7) non appare dunque peregrino che il concorrente pretermesso citi in giudizio l’amministrazione per perdita di chance o l’amministrazione e l’aggiudicatario insieme, affermando la nullità del contratto per assenza del consenso, stante l’illegittimità della procedura con cui si è formata la volontà di parte pubblica. In entrambi i casi, i precedenti inducono la possibile ripresa di alcune tesi della Cassazione circa la nullità relativa o annullabilità del contratto;

8) se, dunque, dei diritti soggettivi sopravvivono allo spirare del termine decadenziale di impugnazione avanti al g.a. e se sono tutelabili avanti all’a.g.o. e se, ancora, si tratta di diritti patrimoniali, verosimilmente sono anche disponibili e, quindi, passibili di compromesso in arbitri.

Qui la questione diventa più delicata e la nostra sequenza merita un momento di approfondimento. Occorre infatti scrutinare il compromesso, affrontando l’eccezione di nullità per contrarietà a norma imperativa, quale potrebbe essere facilmente concepito l’art. 120 cpa nella parte in cui dispone un riparto di giurisdizione, accordandola in via esclusiva al g.a. 

Forse l’obiezione non coglie nel segno. E un tanto sia perché il riparto non può significare –di per sé – decadenza delle situazioni giuridiche sottostanti con il solo spirare del termine di impugnazione, lasciando privo di tutela un ampio settore assai sensibile; sia perché le ragioni della giurisdizione esclusiva del g.a. conducono fino all’inefficacia del contratto (artt. 120-123 cpa), ma non giustificano evidentemente una cognizione sulla fisiologia o patologia del negozio, il cui scrutinio è e resta, quindi, al giudice ordinario. Ma deve restarci nella sua pienezza, completo quindi anche dell’esame – incidentale – degli atti amministrativi presupposti che, se ritenuti illegittimi, egli potrà disapplicare, specie se quegli atti amministrativi riguardano l’essenziale momento negoziale che è la formazione della volontà a contrarre della p.a., e a questi si aggiunge l’altro argomento per cui l’effettività delle ADR deve soccorrere proprio là ove più forte è il rischio di assenza di tutela, completando così l’offerta di garanzie previste dallo Stato, mediante una forma – appunto – alternativa al processo per la risoluzione delle controversie. Non che qui ci sia entusiasmo per le ADR, ma è meglio – fin da subito – canalizzarle in un binario giuridico piuttosto che lasciarle alla disinvoltura degli economisti. Solo in questo senso vanno letti i passaggi che seguono.

Quindi, riprendendo:

9) le stazioni appaltanti potrebbero inserire già in bando un sistema di ADR che incontri le esigenze comunitarie, strutturato in modo che la domanda di partecipazione alla gara comporti anche sottoscrizione di una clausola compromissoria per tutte le situazioni giuridiche soggettive connesse al rapporto pre-contrattuale scaturente dalla procedura (amministrativa) di gara;

10) la clausola compromissoria potrebbe avere anche natura transattiva preventiva ex art. 1965 cc, cioè resa al fine di prevenire una controversia che potrebbe insorgere fra di loro, id est, fra i concorrenti e la stazione appaltante. In tal modo tutti i partecipanti rinuncerebbero all’azione avanti il g.a. e, una volta maturata la decadenza, quando risorge la giurisdizione dell’a.g.o., opererebbe in via convenzionale la devoluzione in arbitri, anche nell’interesse pubblico alla celerità e fissità dei rapporti.

È ben vero che si potrebbe intravedere un abuso del diritto al fine di alterare il riparto voluto dal legislatore, tramite un’inattività che avrebbe il solo scopo di far decorrere il termine ordinario e decadenziale a impugnare, ma credo che si possa rispondere che tale passaggio è funzionale all’esperimento della forma alternativa al processo, la ADR appunto, parimenti voluta e favorita dall’ordinamento comunitario.

In attesa dell’introduzione delle ADR nell’ordinamento nazionale, si sente comunque l’opportunità di una pronuncia paideutica sul riparto di giurisdizione in questa materia, almeno fino al punto 7 della sequenza appena proposta, in modo da assicurare la piena tutela anche dopo la scadenza dei termini decadenziali per adire il giudice amministrativo[15].

 

5. Per una conclusione

In conclusione, il giudice amministrativo è veramente speciale e presidio alla tripartizione dei poteri, finché c’è l’interesse legittimo specificamente distinto dal diritto soggettivo, da cui si giustifica la deroga alla giurisdizione generale che, compressa per i momenti in cui può esperirsi azione amministrativa, torna ad ampliarsi assicurando la tutela generale, nei limiti residuali. Si tratta di un giudice specialista, non come all’estero, dove si distingue maldestramente per soggetti o per materie, ma nell’identità della situazione giuridica sottesa che fa del giudice una sezione specializzata. E l’interesse spiega il riparto, più e meglio di un Tribunale dei conflitti che viene visto come un organismo camerale di mediazione, una conciliazione sindacale ad usum Delphini che scredita l’immagine della giurisdizione perché fondato sulla negazione della giurisdizione stessa, cioè sulla trattativa lato sensu politica che già ha fatto parecchio male… e fa male perché è commissione dei poteri, non divisione, quindi porta di ingresso al dispotismo. 

Di questo passo si avvalla l’idea che il diritto non serve perché di impaccio all’economia di mercato su cui è fondata l’Ue, che si muove agitando la clava della DG Competition. Si consideri che l’appiattimento dell’interesse legittimo sul diritto soggettivo (patrimoniale) deriva proprio dall’Unione europea. Cosa lega 27 (o 28) Paesi diversi per lingua, dimensioni, religione, tradizioni? Il mercato. Il mercato ove ci si incontra, ove si fa il prezzo, ove ciascuno può competere; il mercato ove ci sono pochi determinati diritti, ma tutti disponibili, cioè contrattabili, cioè transigibili, cioè monetizzabili. Il che presuppone un “mio contro il tuo” e non può accettare un “mio contro il nostro”. Tantomeno processi complicati e lunghi per cercare una giustizia che non c’è al di fuori del mercato.

“Non ci sono più diritti da esercitare o doveri da adempiere, ma prezzi da pagare e costi da sostenere”, secondo rapporti puramente economici. 

E allora non servirà un giudice, nessun giudice[16]

 

 

1. Si consideri come l’ottimistica divisione nel pubblico impiego privatizzato, fra provvedimenti individuali al giudice del lavoro e atti organizzativi al tar, abbia provocato una situazione lacrimevole, già rappresentata dal Consiglio di Stato in quello che è il profetico parere reso sullo schema del d.lgs n. 29/1993: disparità di sentenze in situazioni analoghe per i dipendenti afferenti alla stessa p.a., ma attratti alla competenza di diversi tribunali, in ragione di dove sia ancorata la sede di lavoro; impossibilità di mantenere atti organizzativi in ragione di smagliature sui singoli provvedimenti; necessità di ricorrere al giudice (amministrativo) dell’ottemperanza per mandare ad esecuzione sentenze specifiche del giudice del lavoro. 

2. Questa è stata la risposta dei magistrati francesi in occasione del seminario di approfondimento reciproco a margine dell’incontro con la Corte di cassazione, svoltosi a Roma nell’auditorium di Palazzo Farnese, Ambasciata di Francia, il 12 luglio 2018. 

3. t) le controversie relative all’applicazione del prelievo supplementare nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari;
 v) le controversie tra lo Stato e i suoi creditori riguardanti l’interpretazione dei contratti aventi per oggetto i titoli di Stato o le leggi relative ad essi o comunque sul debito pubblico;
 z-quater) le controversie aventi ad oggetto i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 149 (interdizione decennale da qualsiasi ufficio pubblico per gli amministratori di enti locali dissestati).

4. L’attrazione ricorrente al tar centrale per determinate materie, in deroga alla competenza territoriale, è stata da più parti ritenuta in contrasto con la previsione costituzionale che vuole organi di giustizia amministrativa per ciascuna Regione, ove l’abnorme elencazione di materie devolute al Tar per il Lazio finisce per privare di reale incisività i tar locali che, non a caso, si comincia a chiamare “periferici”.

5. Per chi è cabalista, richiamo gli articoli 1, 2, 3 e 7, comma 7 del cpa.

6. Quindi, da un rito all’altro, da un regime probatorio all’altro, da un sistema di impugnazioni all’altro: ciò che potrebbe essere ottenuto da un giudice, non può nemmeno essere richiesto all’altro. 

7. Sul punto, il riferimento d’obbligo è alla recente (non ultima) opera di F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Giappichelli, Torino, 2017, cui ha fatto seguito una lunga serie di presentazioni e convegni, con atti meritoriamente raccolti da S. Licciardello e S. Perongini (a cura di), L’interesse legittimo. Colloqui con Franco Gaetano Scoca, Giappichelli, Torino, 2019. 

8. È Stato osservato che mantenere la giurisdizione sugli atti e individuare la legittimazione su un elemento non sostanziale (l’interesse) produca il risultato di ampliare la facoltà dei singoli anche nei casi ove «le norme che si assumono violate non risultino considerare neppure in via del tutto indiretta la loro sfera di interessi». Così L. Mazzarolli, Presentazione a E. Guicciardi, La giustizia amministrativa, ristampa della prima edizione (1942), Cedam, Padova, 1994, p. VIII. Al tema della natura composita della giurisdizione amministrativa è stato dedicato uno dei partecipatissimi convegni di Siena (Pontignano, prima; Modanella, ora) organizzati con spirito di intelligente confronto fra giuristi di ogni estrazione: avvocati, giudici, professori, uniti dall’interesse allo studium. Cfr. F. Francario e M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Editoriale Scientifica, Napoli, 2017 (atti del Convegno organizzato dall’Università degli Studi di Siena, Pontignano, 13-14 maggio 2016).

9. Sul punto, oltre al fondamentale F. Benvenuti, L’istruzione nel processo amministrativo, Cedam, Padova, 1953 (restando legato al Maestro per la signorilità nell’accogliermi in un momento difficile nella mia vita), perspicuo è A. Police, Istruttoria, in P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Utet Giuridica, Milano, 2016. Recentemente, cfr. M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria fra procedimento e processo, in Dir. società, n. 2/2020, pp. 195 ss., specialmente nota 38 per quel che si dirà infra, § 4, in tema di risarcimento e disapplicazione. 

10. E non è un caso che, solo ora, a livello internazionale si cominci a guardare con interesse a questa peculiare situazione giuridica soggettiva, ad ampio spettro di tutela, senza la quale gli altri ordinamenti sono costretti a dilatare vieppiù la diade diritto/dovere, spesso con scarso successo, se non di etichette: i beni comuni o collettivi, il diritto all’ambiente sano, la tutela delle generazioni future, la responsabilità collettiva. Il riferimento continuo alla collettività, a una soggettività plurale ma indeterminata, si arrovella per cogliere quanto la tradizione giuridica italiana ha già sviluppato da tempo con l’interesse legittimo.

11. Mi riferisco soprattutto alla questione della pregiudiziale amministrativa, che agitò le sponde del Tevere ormai una ventina di anni fa. Esula dall’economia di questo lavoro, invece, la dialettica (non fra gli organi, ma fra le pronunce) tra Corte cost., n. 6/2018 e sez. unite, n. 19598/2020, sulla qual pure siamo stati invitati a prendere posizione dall’articolo di fondo di questa Rivista, ma che è già stata fatta oggetto di attenta analisi da valorosi colleghi tanto dell’università, quanto della Corte di cassazione. Basti qui annotare che la questione trova radice in un’ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (materia di appalti), meglio affrontata nel testo infra, § 4. Preme, invece, riprendere gli ultimi capoversi del paragrafo 14 reso dagli Ermellini, ove si richiamano le direttive (segnatamente il par. 17° della n. 2007/66/CE), ove l’accesso al giudice dev’essere dato quantomeno a chi «abbia o abbia avuto l’interesse» ad avere l’aggiudicazione, annotando che è più radicalmente la concezione stessa dell’interesse ad agire ex art. 100 cpc a venir revocata in dubbio, scardinando gli elementi dell’attualità e concretezza. Il che, sottovoce, potrebbe trovare soluzione rivalutando la concezione di interesse legittimo come mera posizione processuale o, almeno, sviluppandone questo aspetto, pur mantenendo la definizione mista sostanziale e processuale.

12. Se la prevalenza dell’economia sul diritto – ammessa e riconosciuta dal diritto (positivo) stesso – possa essere governata, “amministrata” dal giudice e dal giudice amministrativo in particolare come garante dell’esercizio dei pubblici poteri, è oggetto di attenta indagine in G. Montedoro, Il giudice e l’economia, LUISS University Press, Roma, 2015.

13. Riprendo qui argomenti già espressi in più sedi, da ultimo in Problemi attuali sul riparto di giurisdizione (nel momento in cui si discute di tribunale dei conflitti), diramato dalla giunta sezionale Anm alla mailing list della Cassazione il 13 marzo 2019 e partecipato ai presidenti di sezione in Palazzo Spada.

14. La tesi è più diffusamente esposta in P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto, op. cit., sub art. 120. 

15. Per onestà intellettuale, dobbiamo dare contezza dell’esito del caso pratico da cui abbiamo preso le mosse e che giustifica la nostra preoccupazione di inserire il giudice amministrativo con posizione di specialità nel contesto della giurisdizione ordinaria. Rivoltasi alla banca per ottenere una linea di credito all’esito dell’aggiudicazione di una importante commessa pubblica, la ditta si è vista condizionare l’erogazione alla sottoscrizione di una clausola compromissoria per la devoluzione di ogni controversia avanti alla camera arbitrale (interbancaria), ove pare sia anche necessario indicare i subappaltatori in ditte che siano esposte con la banca, per consentirne il rientro. Criterio di aggiudicazione (sostanziale) sarebbe quindi non tanto il valore di una ditta, quanto la sua esposizione bancaria che – per non travolgere il sistema creditizio – la pone in lista di ricevere lavori da chi ha denari prestati dalla banca, in modo da poter rientrare, con un sistema di operazioni definite come “baciate”, che già in regime previgente alla pandemia hanno generato frutti velenosi. D’altronde è indelebile il ricordo, nell’aula della V sezione di Palazzo Spada, per le preliminari: dopo che per i primi dieci affari, chiamati dallo storico quanto corpulento commesso Peppino, con la sua voce stentorea, gli avvocati dichiaravano che le parti avevano trovato un accordo e che era cessata la materia del contendere, chi allora presiedeva interruppe le sequenza esprimendo, in idioma napoletano, la sua perplessità su così tanti accordi pacificatori in una materia da lunghi coltelli. 

16. Come abbiamo anticipato supra nel testo, proprio in sede sovranazionale (dell’Unione, ma non solo), emergono esigenze di tutela di beni e valori non immediatamente riducibili al mercato, donde il tentativo di individuare nuove categorie, sicché lo studio dell’interesse legittimo può ritornare di grande utilità. Il discorso esula dall’economia di questo lavoro, per cui sia consentito rinviare, si volueris, al mio L’Identità. Diritti fondamentali fra Corti europee e Pubblica amministrazione, Il Mulino, Bologna, 2017.