Magistratura democratica

Contributo al dibattito sul giudice amministrativo come risorsa

di Filippo Patroni Griffi

All’esito dell’evoluzione delle regole di riparto della giurisdizione, il giudice amministrativo è oggi definibile come il giudice del potere che agisca in veste di autorità, cioè del potere pubblico in senso stretto. Nonostante talune criticità emerse nell’interpretazione delle regole di riparto, il dialogo fra il Consiglio di Stato e la Corte di cassazione, grazie anche all’apporto di quest’ultima alla costruzione di un “sistema combinato” di tutele dei cittadini, è condizione imprescindibile di garanzia della legalità nell’ordinamento e di protezione dei diritti e degli interessi.

1. Una necessaria premessa storica e concettuale / 2. Potere, giudice, tutele / 3. Riparto di giurisdizione, “sistema” delle tutele, raccordo tra le Corti: criticità e (necessarie) convergenze / 4. Il giudice amministrativo come risorsa e il necessario dialogo tra le Corti

 

1. Una necessaria premessa storica e concettuale

Una risorsa è qualcosa che serve, che è utile. Può essere inutile, se non dannosa, un’istituzione che vive da 190 anni, da 132 svolge (anche) funzioni giurisdizionali e da 50 anni “si accompagna” a tribunali che svolgono funzioni di primo grado? Difficile, perché il fatto storico, prima o poi, “condanna” chi si pone fuori o ai margini della storia. Ma a una condizione un’istituzione sopravvive: che sappia “adattarsi” continuamente al mutare dei fatti e, trattandosi di un’istituzione giuridica, del quadro ordinamentale. Per una giurisdizione che si occupi della tutela dei soggetti (privati, ma anche pubblici, individui e imprese, cittadini ma non solo) nei confronti dei pubblici poteri, la condizione imprescindibile per la sua “utilità”, per poter essere considerata “una risorsa”, è la capacità di seguire, e talvolta anche di inseguire, il potere e le sue trasformazioni.

Il potere pubblico si giustifica per “regolare” una comunità, per assicurare la “civile convivenza” ne cives ad arma veniant, come si diceva una volta. 

Ma oggi non serve più un giudice amministrativo che si “limiti” a garantire libertà e diritti del privato nei confronti dell’illegittimo esercizio del potere pubblico. Sappiamo che tale motivazione è alla base del “ripristino” della giurisdizione amministrativa dopo la poco più che fallimentare esperienza meno che trentennale (dal 1865 al 1889) della giurisdizione unica sul piano della tutela dei cittadini. L’esperienza della giurisdizione unica, non solo italiana, ci insegna che essa si fonda sul riparto tra giudice ordinario, giudice unico e amministrazione, attraverso un sistema di sostanziale riserva di amministrazione in aree e settori in cui l’azione amministrativa può pesantemente incidere su interessi dei privati.

Storicamente, il diritto amministrativo e il suo giudice accompagnano la transizione dallo Stato assoluto allo Stato di diritto, rendendo giuridicamente rilevante la relazione tra individuo e potere, e perciò sindacabile dal giudice il suo esercizio asseritamente illegittimo. In altre parole, è proprio riconoscendo valenza giuridica al rapporto tra cittadino e potere che un diritto, “speciale” rispetto al diritto comune, assume autonomia come diritto che si impone al potere e al cittadino, all’amministrazione e all’amministrato.

Ma anche nei sistemi monisti, a diritto comune e a giurisdizione unica, come l’Inghilterra, presto emerge la peculiarità del rapporto tra autorità e individuo: i “privilegi” riconosciuti all’amministrazione dal diritto amministrativo trovano corrispondenza nei Crown’s privileges del diritto inglese dove – secondo la felice espressione di Laski – «la corona britannica copre una moltitudine di peccati»; e il dogma della immunità della responsabilità pubblica (“the King can do no wrong”) si traduce in un significativo vuoto di tutela. Tanto che, anche in quei sistemi, l’istituzione di numerose giurisdizioni speciali (Guicciardi lamentava che, a fronte di ciò, l’unicità della giurisdizione assumesse un valore puramente nominalistico) e lo sviluppo del judicial review hanno determinato una “pratica” del sindacato sui pubblici poteri, a livello anche dell’assetto delle giurisdizioni, meno distante da quello continentale di quanto comunemente si ritenga. 

L’esclusione dei “non diritti” da ogni sindacato giurisdizionale, propria dei sistemi di giurisdizione unica alle loro origini per un malinteso senso della separazione dei poteri –malinteso per il costituzionalismo contemporaneo – viene oggi declinata in limiti al sindacato sulla discrezionalità amministrativa, discrezionalità che caratterizza l’esercizio del potere e che è strutturalmente congeniale alle norme attributive del potere, normalmente a contenuto indeterminato, perché non tutto ciò che attiene all’esercizio del potere è predeterminabile a priori. Il percorso lineare “interesse pubblico - norma di attribuzione del potere - provvedimento”, alla base del principio di legalità del secolo scorso, si è da tempo irreversibilmente modificato.

L’interesse pubblico non è più “singolare” e predeterminato dalla legge, ma è ormai il frutto del complesso contemperamento tra interessi pubblici “plurali”, spesso contrapposti, e a loro volta “bilanciati” con gli interessi dei privati.

Il “luogo del confronto”, in cui i diversi interessi pubblici in gioco si compongono, anche con quelli dei privati, è sempre più il procedimento, ambito in cui si realizza l’unità di tempo, spazio e azione del rapporto tra privato e pubblico potere, e in cui l’interesse pubblico in concreto perseguito “si fa”, nella dinamica del confronto.

Di conseguenza, anche il potere pubblico non è più puntualmente prefigurato; e quindi, quanto meno nei casi più complessi, lo stesso provvedimento non è necessariamente predeterminato e può avere contenuto mutevole e articolato, poiché deve riassumere istruttorie procedimentali a elevata complessità. 

Di fronte a questa evoluzione, anche il sindacato del giudice deve evolversi se vuole assicurare una tutela piena ed effettiva. L’evoluzione della tutela ha come punto centrale il sindacato “pieno” del giudice sul potere, comprensivo della cognizione piena del fatto (non più limitata dallo schermo del provvedimento) e del giudizio sulla discrezionalità, anche tecnica, dell’amministrazione. Legittimità e merito, cognizione e ottemperanza vedono sfumare i confini. Ne risente anche il sindacato della Corte di cassazione sui limiti “esterni” della giurisdizione, proprio perché l’area del “merito” amministrativo, tradizionalmente aggredibile solo in sede di ottemperanza, va riducendosi in favore della fase della cognizione, in nome dell’effettività della tutela.

 

2. Potere, giudice, tutele

Franco Scoca ha messo in risalto una caratteristica centrale della relazione tra cittadino e amministrazione, che lo differenzia dal rapporto giuridico di diritto privato (anche con l’amministrazione). Nel rapporto di diritto privato si contrappone una situazione soggettiva attiva (il diritto, nelle sue varie declinazioni) e una situazione soggettiva passiva (dovere, obbligo, soggezione). Nel “rapporto amministrativo” si contrappongono due situazioni soggettive entrambe attive: il potere e l’interesse legittimo. E sono situazioni dinamiche: il potere lo è di suo, l’interesse legittimo ritrae la sua dinamicità proprio dalla dinamicità del primo. Il giudice amministrativo “entra” in questo rapporto e fa sì che l’asimmetria delle situazioni nella concreta vicenda procedimentale, per la preminenza fisiologica dell’interesse pubblico come interesse della collettività, sia riportata a parità nel giudizio, una parità che riguarda sia le parti del giudizio – e questo è un carattere imprescindibile di ogni giudizio – sia le situazioni soggettive di cui esse siano titolari: perché il potere può prevalere solo se legittimamente esercitato e l’interesse legittimo, correlativamente, condiziona il potere non già dall’esterno (nell’ottica tedesca del diritto pubblico soggettivo come limite al potere) bensì dal suo interno, sino a rendere il potere una situazione soggettiva “conformata”.

La struttura del potere pubblico nonché le motivazioni di ordine storico e costituzionale che sono alla base dello stesso e lo differenziano dalle varie forme di “potestà” nel diritto privato rendono inevitabilmente diversa la logica del sindacato su quel potere dalla pronuncia di “spettanza” che il giudice ordinario svolge nel dirimere una controversia di diritto privato, quand’anche in essa sia coinvolta una pubblica amministrazione.

Probabilmente queste considerazioni, oltre che la genesi storica della giustizia amministrativa al momento della formazione dello Stato moderno, sono alla base della fortuna dei sistemi plurali di giurisdizione, prevalenti in Europa (sia pure con assetti e secondo modelli diversificati) e significativamente presenti nel mondo (soprattutto per l’esportazione del modello francese). E si tratta di un sindacato svolto spesso per “clausole generali” e princìpi, con una tendenza (non sempre commendevole) a “interpretare” la norma. 

Probabilmente le considerazioni svolte costituiscono il sostrato culturale di una tappa fondamentale per cogliere l’evoluzione nella continuità della giurisdizione amministrativa, a Costituzione vigente. 

Mi riferisco alla sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale che, al di là delle affermazioni concernenti la questione sollevata (tutte condivisibili, dal limite posto alla tendenza espansiva della giurisdizione esclusiva, che talvolta va oltre l’esigenza di concentrazione, al carattere eminentemente “rimediale” del risarcimento del danno nel sistema della giurisdizione amministrativa), “legge” la giurisdizione amministrativa al culmine di un processo storico che la contrassegna come giurisdizione “generale” sui pubblici poteri, cioè come giurisdizione “naturale” sull’amministrazione che agisca in veste di autorità. Una lettura ovviamente coerente con Costituzione, non foss’altro perché lo dice la Corte (anche se c’è chi di recente pare dubitare di questo assioma), che nella sostanza coglie l’essenza del criterio di riparto traendola dalle situazioni soggettive indicate nella Carta; se l’interesse legittimo è la situazione soggettiva che si contrappone al potere, il giudice dell’interesse legittimo è il giudice del potere che agisca in veste di autorità, cioè del potere pubblico in senso stretto.

In tale contesto, credo che occorra abbandonare categorie concettuali che hanno fatto la storia del diritto amministrativo, talvolta in termini anche di ampliamento della tutela, e che hanno influenzato significativamente anche l’applicazione del criterio di riparto di giurisdizione quale delineato dal Costituente con riferimento precipuo alla situazione soggettiva lesa, coerentemente con la genesi e l’evoluzione del nostro sistema di doppia giurisdizione, senz’altro singolare: da una parte, infatti, non si è utilizzato il criterio “soggettivo” (caratterizzante, sia pur diversamente declinato, i sistemi francese e tedesco); dall’altra, nemmeno si è utilizzato un meccanismo configurato in termini di giurisdizione generale, “ordinaria”, e di giurisdizione “speciale”, per materie tassative. Invero, a tale ultimo proposito, va sottolineato, che il termine di giurisdizione speciale, riferito al Consiglio di Stato (oltre che alla Corte dei conti) nella Carta, sta a indicare la sopravvivenza di queste giurisdizioni rispetto a tutte le altre giurisdizioni, di cui la Carta stabilisce l’abolizione e il divieto di nuova istituzione, ma non riguarda il diverso senso che intendiamo darne sul piano del riparto. In altri termini, il nostro sistema di doppia giurisdizione si basa, per entrambe le giurisdizioni, su una clausola generale di attribuzione di competenza, differenziandosi da quei sistemi (per esempio quello vigente in Italia dal 1865 al 1889), in cui esistono un giudice “generale” e uno o più giudici speciali competenti per materie tassativamente indicate dalla legge (o direttamente in Costituzione).

Il nostro, quindi, è un sistema di doppia giurisdizione che, sotto il profilo tecnico e strutturale della clausola attributiva del potere (giurisdizionale), nasce intrinsecamente “paritario” quanto ai giudici che lo compongono, proprio perché entrambi derivano le proprie attribuzioni da una clausola generale.

Il che può forse stridere con l’attribuzione a uno dei giudici, la Corte di cassazione, della competenza a decidere sui conflitti. Noi scontiamo una carenza storica: la mancanza di un Tribunale dei conflitti (come in Francia, a composizione paritetica e con turnazione della presidenza) – peraltro invocato dal Mortara all’inizio del secolo scorso – o un criterio di riparto netto fondato sulla presenza in giudizio dell’amministrazione (come sostanzialmente in Germania, il che consente di risolvere i rari conflitti con una telefonata, o poco più, dei presidenti delle rispettive Corti supreme). Ma conosciamo le ragione della devoluzione alla Corte di cassazione, nel 1877, dei conflitti e poi, in Costituzione, anche del riparto: nel 1877 non esisteva il giudice amministrativo come tale e i conflitti riguardavano essenzialmente giudice e amministrazione; e questa tradizione viene mantenuta in Costituzione, che configura Consiglio di Stato e Corte dei conti, sul piano formale, come giudici “speciali”. E non mi sembra il momento di mettere in discussione questo assetto che può ben funzionare, come, con qualche alto e basso, ha ben funzionato.

 

3. Riparto di giurisdizione, “sistema” delle tutele, raccordo tra le Corti: criticità e (necessarie) convergenze 

Il delineato sistema duale di giurisdizione e il criterio di riparto adottato al suo interno hanno fatto sorgere dubbi e contrasti tra la Corte di cassazione e il Consiglio di Stato. Le criticità sono, pressoché da sempre, sotto gli occhi di tutti; la necessità di favorire le convergenze e individuare punti di assestamento costituisce per le due giurisdizioni un dovere nei confronti dei cittadini, per dare loro certezza sull’organo giudicante.

Le necessarie convergenze possono essere individuate a due condizioni: che si abbandonino criteri ormai obsoleti che, pur potendo talvolta costituire in concreto un pratico parametro di riferimento o un utile meccanismo di discernimento, non sono privi di incertezze e utilizzano categorie nate in altri contesti. Mi riferisco in particolare alla teorica della degradazione del diritto in interesse (o della espansione dell’interesse in diritto) e alla distinzione tra carenza e cattivo uso del potere o tra attività vincolata e discrezionale. Il punto centrale del riparto è costituito dalla presenza e dall’esercizio del potere in una vicenda relazionale tra privato e amministrazione, o anche tra amministrazioni. Il potere può avere carattere (più o meno vincolato e più o meno discrezionale), ma se c’è esercizio del potere l’interesse del privato a contrapporvisi assume consistenza di interesse legittimo. In altri termini, lo schema relazionale privatistico è quello “diritto-obbligo”, che costituiscono una fattispecie determinata e tendenzialmente statica; lo schema “potere-interesse” (si ripete, posizioni entrambe attive) rimanda alla consistenza di un interesse legittimo modernamente inteso, il modello normativo di riferimento è tendenzialmente “aperto” e “indeterminato”, la fattispecie cede il passo a una vicenda intrinsecamente diacronica.

Alla luce di questo “modello di convergenza”, cioè se si convenga su tale criterio, occorrerebbe risolvere le non numerose, ma spesso significative, criticità tra le due giurisdizioni. Non è questa la sede per esaminare la casistica dei profili critici del riparto nella più recente giurisprudenza, ma forse un tema va chiarito perché, dopo che esso sembrava sopito dopo l’intervento della Corte costituzionale nel 2007, sembra riaffacciarsi al dibattito con una recente decisione della Corte di cassazione (ord. 19 novembre 2020, n. 26391): la giurisdizione “esclusiva” del giudice ordinario in materie inerenti a diritti fondamentali (nella specie, revoca di patente, peraltro non più automatica a seguito degli interventi della Corte costituzionale).

Si è soliti far risalire l’attribuzione di una specifica valenza della natura fondamentale di un “diritto”, ai fini del riparto, a due note decisioni del 1979 della Cassazione in materia di diritto alla salute (nn. 1463 e 5172) concernenti la localizzazione di una centrale nucleare e l’impianto per il disinquinamento del golfo di Napoli. Prima di allora il giudice amministrativo – al pari di ogni giudice – pacificamente conosceva di diritti costituzionalmente protetti, procedendo anche a quel bilanciamento di “valori” e interessi connaturati a un sistema che spesso chiama il giudice, in primis costituzionale, a tale bilanciamento.

La dottrina segnalò da subito la singolarità dell’impostazione. Nigro osservò che si aveva un rovesciamento della formula di Mortara (da “c’è diritto soggettivo perché non c’è potere” in “non c’è potere perché c’è diritto soggettivo”) e per Follieri si assiste a un rovesciamento di prospettiva che conduce a una singolare “degradazione” del potere pubblico, in forza di un diritto soggettivo che determina l’assenza del potere anzi che essere la mancata attribuzione del potere a far riconoscere un diritto soggettivo. Più compiutamente, e in sede di teoria generale, Giannini descrive molto bene il rapporto autorità/libertà: la garanzia costituzionale dei diritti, anche dei diritti di libertà, non segna affatto il limite, cioè non delimita il campo dell’azione amministrativa; la detta garanzia costituzionale, infatti, opera mediante la riserva di legge (che nega spazio al potere), il principio di tipicità dei provvedimenti amministrativi (che richiede il fondamento legislativo del potere) e i vizi di legittimità (che richiedono il corretto esercizio del potere), mai come un diaframma invalicabile per l’azione amministrativa.

La vicenda viene definitivamente (si pensava) chiarita dalla Corte costituzionale (la cui giurisprudenza peraltro sembra, anche alla luce di recenti arresti delle sezioni unite, non avere molta fortuna in materia di giurisdizione) con la sentenza n. 140 del 2007, in cui si afferma espressamente che la natura fondamentale di un diritto (ma meglio sarebbe, anche sotto il profilo linguistico, parlare di situazione soggettiva, assuma essa la consistenza di diritto o interesse a seconda del tipo di interrelazione con il potere) non è di ostacolo alla configurazione della giurisdizione amministrativa, che sussiste tutte le volte (e solo in quelle) che la situazione del privato venga a contatto con l’esercizio, in forma mediata o immediata, del potere.

La tesi secondo cui il giudice ordinario è “il giudice naturale dei diritti fondamentali” (oltre a usare in senso evidentemente atecnico la nozione di “giudice naturale”: il giudice naturale è quello predeterminato per legge in relazione a una determinata controversia, astratta), sconta molte incongruenze: a) non abbiamo un catalogo positivo dei diritti fondamentali (Ferrajoli, tra i tanti), a meno di ritenere che tutti i diritti (quanto meno se contenuti in Costituzione) siano fondamentali; ma allora dovremmo ritenere che non esista potere capace di incidere su diritti fondamentali. Ma – ricordo Giannini – il diritto, anche fondamentale, non impedisce al potere di entrare in una sfera giuridica fatta di diritti e interessi legittimi; b) la tesi prova troppo: il diritto alla salute è la prima cosa (cit. Massimo Troisi a Fiorenza Marcheggiani in Ricomincio da tre, nella specie, rispetto all’amore). Ebbene, allora una localizzazione di centrale nucleare o di un’industria insalubre prevista in un atto di pianificazione urbanistica (caso della sentenza della Corte n. 140 del 2007) comporta la giurisdizione del giudice ordinario? E la soppressione di un ospedale nell’ambito di una riorganizzazione sanitaria comporta la giurisdizione del giudice ordinario? E tutti i provvedimenti della pandemia (divieto di spostamento tra Regioni, incidente un po’ più sulla libertà di circolazione di una discrezionale revoca della patente; zone rosse e connesse limitazioni; apertura e chiusura delle scuole, etc.): tutti dal giudice ordinario? Il carattere “fondamentale” di una situazione soggettiva (con tutte le difficoltà di riconoscerlo) non importa la ineluttabile e “vincolata” qualificazione della stessa in termini di diritto, quando le si contrapponga una situazione soggettiva, si badi, parimenti attiva, quale il potere pubblico (Scoca).

Ci sono altri aspetti, di ordine generale, che costituiscono criticità nei rapporti tra le due Corti, per fortuna più a livello teorico che pratico. 

Mi riferisco alla nomofilachia.

Sappiamo che la legge sull’ordinamento giudiziario assegna la funzione nomofilattica alla Corte di cassazione, che la eserciterà nei confronti dei giudici del merito secondo la disciplina del codice di procedura civile (cd. “nomofilachia interna”). 

Coerentemente con il contesto costituzionale della pluralità delle giurisdizioni, l’art. 111 della Costituzione stabilisce che il ricorso per Cassazione avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti è ammesso «per i soli motivi inerenti alla giurisdizione». Se le parole hanno un significato, la disposizione esclude la possibilità di denunciare in Cassazione le sentenze di tali organi per motivi diversi da quelli inerenti alla giurisdizione e segnatamente per una “semplice” violazione di legge.

Non è una scelta che deve stupire: la nomofilachia è un attributo interno alla giurisdizione, nel senso che è volto ad assicurare l’uniforme applicazione del diritto da parte di quel giudice che quel diritto è chiamato ad applicare, cioè dal giudice munito di giurisdizione sulla controversia. Meno coerente con la funzione nomofilattica sarebbe proprio affidare il compito di dire l’ultima parola sull’interpretazione di una norma a un giudice che poi non sia chiamato ad applicare quella norma perché sfornito di giurisdizione.

Questo è il motivo per cui sono molto perplesso a fronte di tesi – che allo stato mi sembrano sostanzialmente non condivise dalle sezioni unite – che tendono a ipotizzare una funzione nomofilattica, talvolta definita esterna (e la definizione la dice lunga), della Corte di cassazione in materie attribuite ai giudici cd. “speciali”, con particolare riguardo ai diritti trattati dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva. 

Questa tesi – ripeto, finora mai accolta dalla Corte di cassazione – presenta tanti punti deboli che posso enumerarne solo tre, e schematicamente:

a) oblitera il dato testuale che limita il ricorso per cassazione ai soli motivi inerenti alla giurisdizione;

b) presuppone un’assoluta identità intrinseca, se non ontologica, delle situazioni soggettive, obliterando il dato “relazionale” del diritto, che prenda cioè in considerazione se la situazione soggettiva si relazioni con una pari situazione soggettiva o con un potere, potendo essa assumere in tali ultimi casi una consistenza (si badi, non necessariamente inferiore, soprattutto in termini di tutela) diversa e quindi ricevere una forma di tutela diversa;

c) non considera, conseguentemente, che la devoluzione dei diritti in sede di giurisdizione esclusiva deriva proprio dall’esigenza che vi sia un unico giudice dei diritti e degli interessi coinvolti, ammesso che oggi ancora si voglia dare un decisivo risalto a tale distinzione, a fronte di situazioni soggettive complesse caratterizzate essenzialmente dal loro relazionarsi con un potere pubblico.

Un aspetto peculiare di quella che definirei la “pretesa nomofilattica” della Corte di cassazione “a tutto campo” è costituita dalla recente ordinanza, con la quale è stata deferita alla Corte di giustizia Ue la questione della compatibilità comunitaria dell’art. 111 della Costituzione, come “interpretato” dalla sentenza costituzionale n. 6 del 2018, nella parte in cui non consente il ricorso per cassazione per la violazione del diritto europeo dell’Unione. A parte che un’adesione a tale prospettazione comporterebbe un problema di effettività della tutela per le situazioni soggettive non tutelate dal diritto europeo (una sorta di violazione del principio di equivalenza all’inverso), il rinvio pregiudiziale sembra mirare, in ultima analisi, a sovvertire “per via giudiziaria” il sistema di doppia giurisdizione delineato dal Costituente. La Corte ha già chiarito che «Il diritto dell’Unione, in linea di principio, non osta a che gli Stati membri, conformemente al principio dell’autonomia processuale, limitino o subordinino a condizione i motivi che possono essere dedotti nei procedimenti per cassazione, purché siano rispettati i principi di effettività e di equivalenza» (Cgue, sez. I, Abdelhafid Bensada Benallal, C-161/15, 17 marzo 2016). E in dottrina è stato osservato (vds., tra i tanti, R. Bin, B. Caravita di Toritto, e, in particolare, A. Travi[1]) che «La circostanza che l’ordinamento nazionale non avesse prodotto una decisione giurisdizionale conforme al diritto dell’Unione può costituire un titolo di responsabilità, ma non può introdurre un grado di giudizio non ammesso dall’ordinamento interno, anzi, nel nostro caso, non ammesso da una norma costituzionale. Il ragionamento può forse non apparire di piena evidenza se si considera solo il modello italiano, che ammette uno spazio, peraltro puntualmente circoscritto, per il ricorso alla Cassazione contro le sentenze in ultimo grado del giudice amministrativo, ma può risultare più chiaro se si considerano anche altri ordinamenti, come quello francese, che non consente ricorsi, tanto meno alla Corte di cassazione, contro le decisioni del Conseil d’État»[2]

Peraltro, quello espresso nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale, risulta essere un orientamento allo stato non preceduto né seguìto dalla stessa giurisprudenza della Suprema corte.

Le criticità evidenziate non devono, però, oscurare l’apporto che le sezioni unite hanno dato alla costruzione di un “sistema combinato” di tutele dei cittadini, nell’attuale assetto costituzionale ma già nel previgente ordinamento precostituzionale, riconoscendo prima natura giurisdizionale alla IV sezione, poi consentendo il giudizio di ottemperanza per l’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo. Di particolare rilievo, perché di sistema, è infine la sentenza a sezioni unite del 7 settembre 2020, n. 18592, che richiama esplicitamente il canone di necessaria effettività delle pronunce del giudice amministrativo, giudice oramai “ordinario” per la tutela delle situazioni soggettive nei confronti dei poteri pubblici, secondo il canone ermeneutico inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 204 del 2004. E, in tale contesto, la Suprema corte coglie come la stessa distinzione tra giudizio di cognizione di legittimità e giudizio di ottemperanza nell’ambito di una giurisdizione di “merito” vada rimeditata, in quanto il giudizio complessivamente considerato e il sindacato di legittimità comportano che la tutela nei confronti del potere si renda effettiva con il soddisfacimento della pretesa sostanziale.

 

4. Il giudice amministrativo come risorsa e il necessario dialogo tra le Corti

Il giudice amministrativo è stato storicamente una risorsa nella “lotta contro il potere arbitrario”. Come si declina oggi questa “responsabilità”, perché il giudice amministrativo possa e debba saper essere una risorsa?

Due sono gli aspetti: la qualità del sindacato e il “campo d’azione” del giudice amministrativo.

Sotto il primo profilo, la tappa fondamentale è costituita dal codice del processo amministrativo, che a sua volta raccoglie l’eredità di due importanti arresti giurisprudenziali: la sentenza n. 500 del 1999 della Corte di cassazione sulla risarcibilità dell’interesse legittimo e la richiamata sentenza costituzionale n. 204 del 2004, che configura il giudice amministrativo come giudice “naturale” della funzione pubblica. Il codice esalta la configurazione di un processo, anche sull’onda della giurisprudenza europea, in cui si svolge, in posizione finalmente paritaria tra le parti, un sindacato “pieno” sull’esercizio del potere esteso alla discrezionalità anche tecnica dell’amministrazione, previa cognizione autonoma del fatto, alla ricerca della soluzione di “maggiore attendibilità” tra le opzioni offerte alla discrezionalità dell’amministrazione.

Quanto al campo di azione del giudice amministrativo, questo è direttamente correlato al perimetro dell’azione pubblica nel contingente momento storico. Se il potere amministrativo si è, negli ultimi decenni, a dispetto della retorica sull’arretramento del pubblico, esteso a rilevanti settori dell’economia e del benessere sociale, è giocoforza che il giudice amministrativo sia entrato di prepotenza in questi settori. Basti pensare, per l’economia, al sindacato sulla funzione pubblica di regolazione e sulla potestà sanzionatoria delle autorità indipendenti, ai contratti pubblici, al governo del territorio e alla riqualificazione delle aree urbane, alle bonifiche, ai provvedimenti autorizzatori e concessori in genere (centrali idroelettriche, demanio marittimo per finalità ricreative, commercio). Quanto al welfare, le pronunce del giudice amministrativo spaziano dai diritti dei migranti, alle mense scolastiche, all’assistenza, all’insegnamento di sostegno, all’istruzione e, soprattutto, alla salute (obblighi vaccinali negli asili nido, provvedimenti emanati per ragioni sanitarie, in primis tutte le misure adottate per fronteggiare l’emergenza sanitaria).

Si tratta di settori in grande sviluppo negli ultimi decenni, proprio per l’ampliarsi dell’intermediazione amministrativa in questi campi, che ha trasformato in profondità, intrinsecamente, il potere pubblico nella società e, conseguentemente, il ruolo del giudice amministrativo: da un giudice garante delle libertà e dei diritti che ne costituivano espressione nei confronti del potere, in un’ottica sostanzialmente liberale, a un giudice che garantisce, in più, il “diritto a prestazioni amministrative” da parte dei pubblici poteri in uno Stato sociale.

Un giudice “abituato” al potere pubblico e alle sue trasformazioni, che segue, e talvolta insegue, il potere per coglierne legalità e abusi, può costituire una risorsa per la società se sarà in grado di “ben giudicare”, se farà della competenza la sua legittimazione nella società (essendo sottratto al circuito della rappresentanza politica), se saprà agire e presentarsi “in società” seguendo un modello di etica pubblica che lo legittimi e lo renda credibile nella comunità.

Ma è un giudice che non può avere la presunzione di fare da solo. Le persone, le imprese, le cose, si muovono in uno spazio giudico quanto meno europeo: e qui serve un dialogo “verticale” con le due Corti europee sovranazionali; ma serve anche un dialogo “orizzontale” con le corti nazionali dei Paesi membri, alla ricerca di un convergente sindacato giurisdizionale sui poteri pubblici e di una omogenea protezione dei diritti e degli interessi da parte dei giudici nazionali indipendentemente dalle cittadinanze nazionali e sotto l’ombrello di una cittadinanza europea che alla prima si affianchi. 

Ma, prima di tutto ciò, serve che la giurisdizione italiana si presenti sullo scenario europeo come un sistema pur duale (come avviene per tanti altri Paesi dell’Unione) ma unitario di tutele, in grado di evitare lacune e di offrire una combinazione di tecniche di tutela che siano in grado di proteggere diritti e interessi delle persone.

Il dialogo tra Corte di cassazione e Consiglio di Stato, due istituzioni con una lunga storia alle spalle poste al vertice di un articolato assetto delle giurisdizioni, diventa quindi una condizione imprescindibile perché le Corti nazionali possano contribuire al processo di integrazione delle tutele sul fondamentale piano della protezione dei diritti e degli interessi e per garantire la legalità nell’ordinamento.

 

 


1. Id., La Cassazione sottopone alla Corte di giustizia il modello italiano di giustizia amministrativa, in Foronews, 12 ottobre 2020 (www.foroitaliano.it/news/274/la-cassazione-sottopone-alla-corte-di-giustizia-il-modello-italiano-di-giustizia-amministrativa/).

2. A Travi, op. ult. cit.