Magistratura democratica

Qualche riflessione su pluralità delle giurisdizioni e nomofilachia

di Antonello Cosentino

L’ipotesi di integrare con la partecipazione di consiglieri di Stato i collegi delle sezioni unite civili della Corte di cassazione non può ritenersi praticabile a Costituzione invariata, ostandovi la previsione della ricorribilità “in Cassazione” delle sentenze del Consiglio di Stato, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, di cui all’ultimo comma dell’articolo 111 Cost. Detta ipotesi non sarebbe nemmeno funzionale a perseguire l’obiettivo della formazione di una nomofilachia condivisa tra Corte di cassazione e Consiglio di Stato, potendo tale obiettivo essere raggiunto solo attraverso un percorso culturale comune dei magistrati di tali uffici.

1. Premessa / 2. Sull’integrazione dei collegi delle sezioni unite della Cassazione / 3. I profili di legittimità costituzionale / 4. La discutibile utilità dell’operazione / 4.1. La decisione sulle questioni di giurisdizione / 4.2. La decisione sulle questioni di comune rilevanza nomofilattica 

 

1. Premessa

Un denso articolo pubblicato in questa rivista da Enrico Scoditti e Giancarlo Montedoro[1] ha di recente rilanciato il dibattito – peraltro mai sopito – sul tema della struttura pluralistica del sistema giurisdizionale italiano.

I temi toccati in tale articolo sono molti e molte sono le indicazioni offerte al lettore, la più parte delle quali largamente condivisibili, a partire da quella – che mi pare racchiuda in nuce il messaggio fondamentale dell’intervento – che richiama la «necessità che le magistrature parlino un linguaggio comune», conseguentemente proponendo una opportuna sollecitazione all’attivazione di «scambi culturali, convegni comuni, occasione di formazione comune».

Ma pienamente condivisibili, a mio avviso, sono anche le considerazioni relative agli effetti sistemici, in termini di “Costituzione materiale”, dell’espansione dell’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[2]; quelle concernenti il progressivo allargamento dei margini del sindacato giurisdizionale sull’esercizio del potere amministrativo[3]; gli acuti rilievi dedicati ai temi dell’indipendenza e del sistema disciplinare della magistratura amministrativa.

Su un punto dell’articolo di Scoditti e Montedoro, tuttavia, mi pare necessario manifestare un dissenso: là dove si fa riferimento a «una partecipazione minoritaria di consiglieri di Stato alle sezioni unite».

Dico subito che non intendo discutere la premessa teorica che fa da sfondo all’argomentazione sviluppata dai due Autori, secondo la quale il tema della contrapposizione tra modello monista e modello pluralista della giurisdizione sarebbe ormai superato. Se infatti tale premessa mi sembra obbiettivamente discutibile[4], mi pare tuttavia di dover convenire con chi segnala la difficile praticabilità, «per ragioni di ordine storico e di realismo politico», della prospettiva di un ritorno alla unità non soltanto funzionale, ma anche organica, della giurisdizione[5].

Pertanto, anche le brevi considerazioni che seguono assumeranno, quale orizzonte teorico, l’assunto di Costantino Mortati della «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica, una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sé»[6].

 

2. Sull’integrazione dei collegi delle sezioni unite della Cassazione

L’idea di integrare la composizione dei collegi delle sezioni unite della Corte di cassazione con la presenza di consiglieri di Stato – quando le sezioni unite siano chiamate a decidere controversie che presentino profili di rilievo nomofilattico comuni a entrambi i plessi giurisdizionali o debbano pronunciarsi su ricorsi per motivi di giurisdizione – non è nuova. 

Tale idea si rinviene già nella proposta avanzata in un documento denominato «Memorandum sulle giurisdizioni», presentato al Presidente della Repubblica il 15 maggio 2017, redatto con il supporto di Italiadecide, associazione «per la qualità delle politiche pubbliche» e sottoscritto dagli allora presidenti della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, oltre che dagli allora procuratori generali presso la Corte di cassazione e la Corte dei conti. Secondo i sottoscrittori del Memorandum, l’«integrazione degli organi collegiali di vertice» delle tre giurisdizioni, per la decisione delle questioni di rilievo nomofilattico comune ai vari plessi giurisdizionali, ivi comprese le questioni di giurisdizione, rappresentava la risposta, o, almeno, una delle possibili risposte all’esigenza di rafforzare l’esercizio della funzione nomofilattica.

La stessa idea è poi stata ripresa, pur se con modifiche rilevanti, in una proposta di legge presentata alla Camera dei deputati il 22 maggio 2018 (n. 649, prima firmataria On. Bartolozzi, di Forza Italia) di delega al Governo per l’istituzione, presso la Corte di cassazione, del “Tribunale superiore dei conflitti”. In tale proposta si prevede di attribuire «la cognizione dei conflitti di giurisdizione e del regolamento preventivo di giurisdizione» a un collegio incardinato presso la Corte di cassazione e composto da dodici membri, di cui sei magistrati della Corte di cassazione, tre del Consiglio di Stato e tre della Corte dei conti, scelti dagli organi di autogoverno delle rispettive magistrature. Secondo la relazione di accompagnamento la creazione del nuovo organo giurisdizionale avrebbe «l’obiettivo di trovare il punto di equilibrio fra le esigenze di celebrazione di un giudizio conforme a giustizia e quelle, altrettanto rilevanti, di un processo celere e spedito»; in detta relazione si afferma che la sentenza della Corte costituzionale n. 6 del 2018 avrebbe lasciato «impregiudicata l’esigenza di individuare un “arbitro imparziale” della giurisdizione composto da giudici provenienti dalle diverse giurisdizioni, nel solco della risalente esperienza francese del Tribunal des conflits».

Nell’articolo di Scoditti e Montedoro sembra emergere una presa di distanza, quanto meno sul piano metodologico, dai due precedenti sopra richiamati. Vi si ipotizza, tuttavia, nel par. 4, di prevedere per legge la partecipazione di magistrati del Consiglio di Stato – «quali figure di esperti che fornirebbero un apporto di cultura specializzata in diritto amministrativo» – ai collegi delle sezioni unite della Corte di cassazione che debbano pronunciarsi su «questioni di riparto di giurisdizione (e nel caso di ricorso straordinario avverso le sentenze del Consiglio di Stato, ove una siffatta ipotesi, nei limiti sopra indicati, venga presa in considerazione)». 

Proprio per rispondere alla sollecitazione degli Autori all’apertura di un dibattito pubblico, tuttavia, mi sembra necessario ribadire in questa sede le ragioni – già enunciate con riferimento al Memorandum sulle giurisdizioni e alla proposta legislativa di istituzione del “Tribunale superiore dei conflitti”[7] – che ostano, a mio avviso, a tale prospettiva.

 

3. I profili di legittimità costituzionale

In primo luogo, mi pare dirimente il rilievo che l’articolo 111 Cost., nel prevedere il «ricorso in Cassazione», per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, presuppone necessariamente la reciproca alterità tra tali consessi. Se la Costituzione prevede che le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti si impugnino in Cassazione, infatti, il giudice dell’impugnazione è necessariamente la Cassazione; non può essere un giudice a composizione mista, di cui fanno parte, insieme a consiglieri della Corte di cassazione, anche consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Né mi sembra che tale ostacolo possa essere superato distinguendo tra l’individuazione normativa di un giudice e la individuazione normativa della relativa composizione, ossia ritenendo che il giudice dell’impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, per i soli motivi inerenti alla giurisdizione, resterebbe pur sempre la Cassazione, sia pure in composizione allargata. È vero, infatti, che la composizione dei collegi della Cassazione non è direttamente disciplinata in Costituzione; ma, quali che siano le regole che il legislatore voglia dettare per disciplinare la composizione di un collegio della Cassazione, tali regole non possono comunque prescindere dalla necessità che i collegi della Cassazione vengano composti da consiglieri di cassazione, ancorché nominati per meriti insigni ai sensi dell’articolo 106 Cost., o, comunque, da magistrati organicamente incardinati nella Corte di cassazione, sia pure onorari (come i magistrati ausiliari di cui all’art. 1, comma 962, l. 27 dicembre 2017, n. 205), o titolari di funzioni di merito (come i magistrati del Massimario temporaneamente applicati ai collegi giudicanti ai sensi dell’art. 1 dl 31 agosto 2016, n. 168, convertito in legge con l. 25 ottobre 2016, n. 197). 

Mi sembra infatti indubitabile che il Costituente, quando ha menzionato la Cassazione, non poteva riferirsi ad altro se non all’ufficio previsto dall’art. 65 dell’ ordinamento giudiziario, ossia un ufficio costituito da magistrati ordinari; magistrati, cioè, che, per usare le parole del primo comma dell’art. 102 Cost., sono «istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» e, pertanto, sono soggetti al governo autonomo della magistratura affidato dalla Costituzione al Consiglio superiore della magistratura[8].

 

4. La discutibile utilità dell’operazione

Anche a prescindere dal segnalato problema di legittimità costituzionale (una legge di revisione costituzionale è pur sempre possibile, almeno sul piano teorico), vorrei però andare al fondo della questione e cercare una risposta al seguente interrogativo: quale sarebbe l’utilità di allargare ai consiglieri di Stato la composizione dei collegi delle sezioni unite civili della Corte di cassazione, trasformando le stesse in un organo a composizione mista, palesemente distonico, tra l’altro, rispetto al modello – del quale proprio nell’articolo di Scoditti e Montedoro si sottolinea la ricchezza – della pluralità (non funzionale, ma) organica delle giurisdizioni? 

Sulla questione dell’inserimento di consiglieri di Stato nelle sezioni unite civili della Cassazione mi sembra che debbano svolgersi considerazioni diverse, a seconda che tale inserimento venga concepito in funzione della decisione delle questioni di giurisdizione o in funzione della decisione di questioni che presentino rilevanza nomofilattica tanto per il giudice ordinario quanto per il giudice amministrativo.

 

4.1. La decisione sulle questioni di giurisdizione 

Con riferimento alle questioni di giurisdizione, l’idea di affidare la relativa soluzione a un giudice a composizione mista si colloca nella prospettiva di una concezione “arbitrale” del ruolo di tale giudice, al quale sarebbe affidata la funzione di ripartire il contenzioso tra il giudice ordinario e il giudice amministrativo sulla base di criteri emergenti dalla mediazione tra gli orientamenti maturati in ciascuno dei due plessi giurisdizionali; si tratta di una prospettiva che, a mio avviso, non può essere seguita. 

La Corte di cassazione e il Consiglio di Stato non sono parti in contesa, né può condividersi, al di là di una suggestione meramente sociologica, una lettura della dialettica tra la giurisprudenza della Cassazione e quella del Consiglio di Stato in termini di «lotta tra le giurisdizioni»[9]. I magistrati ordinari e i magistrati amministrativi non devono esercitare la giurisdizione per tutelare le rispettive prerogative, ma per amministrare la giustizia nell’ambito delle attribuzioni loro conferite dalla legge, cooperando alla realizzazione del «programma di completezza e di adeguatezza della tutela inscritto nell’articolo 24 della Costituzione»[10].

D’altra parte, l’articolo 101 della Costituzione impone ai giudici di non assoggettarsi ad altro vincolo che non sia quello della legge; il che mi pare incompatibile con l’ipotesi che dei consiglieri di cassazione e dei consiglieri di Stato riuniti in un collegio giudicante possano sentirsi investiti di una qualche funzione di rappresentanza, anche soltanto culturale, delle rispettive Corti di provenienza.

La decisione sulle questioni di giurisdizione, in definitiva, non deve essere presa da un arbitro ma da un giudice; e questo giudice non può che essere la Corte di cassazione perché – riprendendo un insegnamento che l’evoluzione dell’ordinamento nell’ultimo mezzo secolo ha reso meno perspicuo, ma non meno convincente – «non tanto la giurisdizione ordinaria è tale perché è ad essa attribuito il giudizio sulla giurisdizione ma tale giudizio è stato riservato alla suddetta giurisdizione in quanto ordinaria, ossia competente su diritti soggettivi. Il giudizio sui limiti della giurisdizione ordinaria rispetto a quella amministrativa è giudizio sui limiti dei diritti soggettivi, e dunque la sua attribuzione alla stessa giurisdizione ordinaria corrisponde al sistema. Nel giudizio sulla giurisdizione il giudice ordinario decide nei limiti della propria competenza»[11].

 

4.2. La decisione sulle questioni di comune rilevanza nomofilattica

Per quanto poi riguarda la prospettiva della formazione di una nomofilachia comune ai due plessi giurisdizionali, dico subito che l’obbiettivo è indubbiamente auspicabile, giacché è innegabile che l’ampiezza assunta negli ultimi due decenni dall’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo impone a quest’ultimo di pronunciarsi molto spesso su diritti e, quindi, su questioni che formano oggetto di elaborazione della giurisprudenza civile. 

Ma l’ipotesi che la partecipazione di un ristretto numero di consiglieri di Stato nei collegi delle sezioni unite della Cassazione possa davvero contribuire alla formazione di una nomofilachia comune ai giudici civili e ai giudici amministrativi mi sembra, tuttavia, illusoria. Il mezzo, in sostanza, non mi pare adeguato al fine.

La capacità di una sentenza della Corte di cassazione di orientare la giurisprudenza discende – a prescindere, ovviamente, dalla sua intrinseca persuasività, che peraltro non dipende dalla composizione del collegio che l’ha emessa – dal ruolo di giudice di ultima istanza che la Cassazione ricopre nei confronti dei giudici ordinari. 

Il nucleo duro della nomofilachia – il dispositivo che, in ultima analisi, consente di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge” – è cioè il potere di annullare le sentenze che si discostino dall’interpretazione della legge affermata dalla Cassazione, vincolando il giudice di rinvio al principio di diritto enunciato. 

La preclusione posta dall’articolo 111 Cost. alla ricorribilità per cassazione, per violazione di legge, delle sentenze del Consiglio di Stato[12] esclude in radice l’effettiva possibilità di attribuire alla Corte di cassazione, quale che sia la composizione dei suoi collegi, un ruolo nomofilattico nei confronti del giudice amministrativo; ruolo che, per contro, va riconosciuto al Consiglio di Stato, ancorché il giudizio davanti a tale consesso sia strutturato come giudizio di appello e non come giudizio cassatorio, perché esso è il giudice di ultima istanza della giurisdizione amministrativa e perché i principi di diritto enunciati dalla sua adunanza plenaria sono vincolanti per le sue stesse sezioni (art. 99, terzo comma, cpa)[13].

A Costituzione invariata, in definitiva, mi pare inevitabile riconoscere che le nomofilachie sono due, quella della Cassazione per la giurisdizione ordinaria e quella del Consiglio di Stato per la giurisdizione amministrativa (a tacere di quella della Corte dei conti per la giurisdizione contabile). 

Che l’imponente allargamento dell’area della giurisdizione del giudice amministrativo su diritti, conseguito alla ridefinizione dell’ambito della giurisdizione esclusiva di tale giudice (cfr. la precedente nota 2), possa determinare sovrapposizioni e tensioni tra la nomofilachia della Cassazione e quella del Consiglio di Stato è un fatto. Che tali sovrapposizioni e tensioni siano pregiudizievoli per la buona amministrazione della giustizia e la tutela celere e satisfattiva dei diritti dei cittadini è un altro fatto.

Ciò posto, le strade astrattamente percorribili per eliminare le suddette sovrapposizioni e tensioni tra la nomofilachia della Cassazione e quella del Consiglio di Stato sono, a mio giudizio, soltanto tre: 

a) la prima, che può essere imboccata dal legislatore costituzionale, consiste nel rendere ricorribili per cassazione, per violazione di legge, le sentenze del Consiglio di Stato che si pronuncino su diritti;

b) la seconda, che può essere imboccata dal legislatore ordinario, consiste nel compiere a ritroso il percorso degli ultimi due decenni, riportando l’area della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alle esigue dimensioni qualitative e quantitative che essa aveva quando fu elaborata la Costituzione; se si seguisse questa strada, l’esigenza di concentrazione ed effettività della tutela nelle fattispecie connotate da intima connessione di diritti soggettivi e interessi legittimi potrebbe essere soddisfatta attribuendo al giudice ordinario, soggetto al controllo di legittimità della Cassazione, il potere di annullamento degli atti amministrativi (art. 113, ultimo comma Cost.)[14];

c) la terza, che può essere imboccata dai magistrati ordinari e amministrativi, è quella di aprire e coltivare spazi di riflessione, confronto ed elaborazione comuni tra consiglieri della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, potenziando le interrelazioni che possono progressivamente attenuare la separatezza dei plessi giurisdizionali e costruire una cultura e una sensibilità condivise.

Le prime due strade sono palesemente impraticabili, per ragioni che mi paiono troppo ovvie per dover essere esposte.

Resta la terza. È una strada lunga e faticosa, con molte curve, molti ritorni indietro, molte salite. Ma non è impraticabile e, se percorsa con decisione, può portarci lontano. 

Provo a spiegarmi. 

L’idea di intervenire sulla composizione dei collegi delle sezioni unite della Cassazione mi pare condizionata da una visione verticistica della nomofilachia; come se la camera di consiglio delle sezioni unite fosse la “stanza dei bottoni”, secondo l’indimenticabile formula di Pietro Nenni, dove si custodisce il Sacro Graal della nomofilachia.

A me pare che la società di oggi sia troppo complessa – e i poteri giurisdizionali di oggi troppo diffusi e policentrici – per poter concepire la nomofilachia come era concepita quando venne scritto l’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario, come “ordine” di conformità che discende dal vertice[15]

L’esperienza degli Osservatori sulla giustizia civile, sorti in tutta Italia, nell’ultimo ventennio, per iniziativa spontanea di magistrati, avvocati e funzionari amministrativi degli uffici giudiziari, dimostra con chiarezza che la ricerca di prassi – non solo organizzative, ma anche interpretative – condivise tra giudici e avvocati costituisce una fortissima leva di miglioramento dell’amministrazione della giustizia, con particolare riguardo al profilo della prevedibilità delle decisioni, essenziale per la sua stretta connessione con il valore costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Alla luce di quella esperienza, è evidente che oggi la nomofilachia non può essere intesa che come sintesi ed espressione di cultura e valori condivisi, come processo che coinvolge circolarmente la dottrina, l’avvocatura, i giudici di merito, i giudici speciali, le corti sovranazionali[16]

Su questo terreno, del resto, la Corte di cassazione è già fortemente impegnata, come testimonia il gran numero di “protocolli” di intesa e collaborazione firmati dai primi presidenti che si sono succeduti negli ultimi anni con il Consiglio nazionale forense, con l’Avvocatura generale dello Stato, con la Procura generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, con la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la Corte di giustizia dell’Unione europea[17].

Questo, allora, mi sembra il piano sui cui poter utilmente sviluppare un dialogo serrato e costruttivo tra la Corte di cassazione e il Consiglio di Sato per la graduale formazione di un corpus di principi giurisprudenziali condivisi. 

Non penso soltanto alla generica condivisione di idee e di sensibilità che può derivare dalla comune partecipazione di magistrati dei due consessi ad attività scientifiche e convegnistiche comuni. 

Penso a iniziative concrete, di competenza dei presidenti dei due uffici, direttamente connesse al concreto esercizio della funzione giurisdizionale: ad esempio, l’adozione di un protocollo d’intesa volto a sviluppare la prassi di far precedere la discussione di cause di rilievo nomofilattico comune davanti alle sezioni unite o davanti all’adunanza plenaria da seminari aperti alla partecipazione di consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte di cassazione[18]; o, per fare un altro esempio, l’istituzionalizzazione di una collaborazione continuativa tra l’Ufficio del massimario e del ruolo della Corte di cassazione e l’Ufficio studi massimario e formazione del Consiglio di Stato, ai fini delle redazione di relazioni tematiche a doppia firma su temi generali di interesse comune a entrambi i plessi giurisdizionali o anche su questioni specifiche rimesse alla decisione delle sezioni unite civili o dell’adunanza plenaria.

In conclusione, per raggiungere l’obbiettivo – certamente, ribadisco, auspicabile – di una nomofilachia tendenzialmente condivisa tra giudici ordinari e giudici amministrativi, la strada della etero-integrazione dei collegi delle sezioni unite della Cassazione mi pare una scorciatoia che rischia di portarci fuori pista; la strada – l’unica strada, a mio avviso, concretamente praticabile in un orizzonte visibile – è quella del dialogo paziente, operoso, leale tra i consiglieri delle Corte di cassazione e del Consiglio di Stato sui temi concreti, sulle singole questioni, per la lenta, ma solida, costruzione di una cultura e di una sensibilità comuni. 

 

 

1. Il giudice amministrativo come risorsa, in questo fascicolo ( e già in questa Rivista online, 11 dicembre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/il-giudice-amministrativo-come-risorsa).

2. Sulla modifica apportata dalla l. n. 205/2000 all’art. 7 l. n. 1034/1971, mi sembrano particolarmente penetranti le considerazioni di Filippo Satta: «il giudice amministrativo cessava di essere giudice della sola legittimità degli atti, per esserlo anche delle loro conseguenze. Cadeva la contrapposizione tra giurisdizione ordinaria ed amministrativa, per sostanziale incorporazione della prima nella seconda, nelle controversie in cui parte è una pubblica amministrazione. Cadeva insomma il fondamento storico della giustizia amministrativa, secondo cui la tutela giurisdizionale variava in funzione del grado di intensità che la legge sembrava dare agli interessi dedotti in giudizio. Tutti potevano avere la stessa tutela sostanziale (annullamento e risarcimento); problemi formali di giurisdizione potevano ancora darsi solo per le questioni relative a diritti, non ricadenti nelle materie devolute alla giurisdizione esclusiva. Sì, la giustizia amministrativa classica era finita» (F. Satta, voce Giustizia amministrativa, in Enciclopedia del diritto – Aggiornamento, vol. VI, Giuffrè, Milano, 2002, § 9).

3. Emblematica di tale allargamento, e verosimilmente foriera di ulteriori sviluppi verso l’ampliamento della tutela giurisdizionale dei cittadini, è l’affermazione che si legge in Cons. Stato, 19 luglio 2019, n. 4990, § 1.6: «la tutela giurisdizionale, per essere effettiva e rispettosa della garanzia della parità delle armi, deve consentire al giudice un controllo penetrante attraverso la piena e diretta verifica della quaestio facti sotto il profilo della sua intrinseca verità (per quanto, in senso epistemologico, controvertibile). Al sindacato (non sostitutivo) di “attendibilità” va dunque sostituito un sindacato pieno di “maggiore attendibilità”».

4. Che il programma ideologico “Un soggetto, un diritto, un giudice” – posto a suggello dell’In limine di A. Orsi Battaglini al numero 1 della rivista Diritto pubblico, gennaio-aprile 1995 – debba ritenersi superato sembrerebbe smentito da chi, pochi mesi fa, commentando l’ ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione 18 settembre 2020, n. 19598, ha scritto: «Gli argomenti di Calamandrei, disattesi dall’assemblea costituente, non hanno perso nulla del loro valore; anzi con gli anni, con l’estensione della giurisdizione esclusiva, con la revisione dei confini fra diritto amministrativo e diritto privato, con lo spazio maggiore riconosciuto oggi ai moduli consensuali nell’amministrazione, hanno acquisito un’attualità ancora più intensa. Il superamento del modello delle due giurisdizioni separate, a mio parere, si impone»; così A. Travi, I motivi inerenti alla giurisdizione e il diritto dell’Unione europea in una recente ordinanza delle sezioni unite, in Foro it., 2020, I, c. 3419.

5. R. Rordorf, Pluralità delle giurisdizioni ed unitarietà del diritto vivente: una proposta, in Foro it., 2017, V, c. 127.

6. Così C. Mortati nei lavori dell’Assemblea costituente, seduta pomeridiana del 27 novembre 1947, riportato in Corte cost., n. 204/2004, § 2.2.

7. Sia consentito rinviare, volendo, ad A. Cosentino, Brevi considerazioni a proposito del Memorandum sulle giurisdizioni, in Foro it., 2018, V, c. 117; e a Id., Note critiche sull’ipotizzato “Tribunale superiore dei conflitti”, in Giustizia insieme, 27 febbraio 2019.

8. Vds., al riguardo, Corte cost., 14 gennaio 1986, n. 4, § 6, là dove si chiarisce come il rapporto di soggezione al Consiglio superiore della magistratura degli organi giudiziari e dei magistrati che li compongono «assume il valore di sicuro indice di riconoscimento della giurisdizione ordinaria. Esso consente, insomma, di affermare che appartengono alla giurisdizione ordinaria gli organi giusdicenti riconducibili al Consiglio superiore della magistratura». 
Illuminanti, sul punto, sono i rilievi di A. Travi, Rapporti fra le giurisdizioni e interpretazione della Costituzione. Osservazioni sul Memorandum dei presidenti delle tre giurisdizioni superiori, in Foro it., 2018, V, c. 109: «La giurisdizione ordinaria, di cui è componente primaria la Corte di cassazione, è qualificata dall’assoggettamento dei magistrati che la compongono alla legge sull’ordinamento giudiziario (art. 102, 1° comma, Cost.); condizioni diverse di status valgono invece, secondo i rispettivi ordinamenti, per i giudici delle giurisdizioni speciali (cfr. art. 108, 2° comma, Cost.). Anche la partecipazione al collegio giudicante in Cassazione è esercizio della “funzione giurisdizionale” nell’ambito della giurisdizione ordinaria, rispetto alla quale, come è testimoniato appunto dall’art. 102, 1° comma, Cost., condizione essenziale è l’assoggettamento a uno specifico stato giuridico. La Costituzione ammette che alla funzione giurisdizionale, esercitata dagli organi di giurisdizione ordinaria, possano partecipare “cittadini idonei estranei alla magistratura” (art. 102, 2° comma, Cost.), ma in una logica (quella della partecipazione dei cittadini alla funzione giudiziaria) che è ben diversa da quella del Memorandum. Prevede infine che all’ufficio di consigliere di Cassazione, “per meriti insigni”, possano essere chiamati professori universitari e avvocati con particolari requisiti (art. 106, 3° comma, Cost.): in questo modo essi diventano però a tutti gli effetti magistrati ordinari. L’inserimento di giudici speciali nei collegi della Cassazione esorbita, pertanto, dal quadro costituzionale che, da parte sua, risulta puntuale, anche per quanto attiene all’esercizio della funzione».

9. Cfr. B. Sordi, Interesse legittimo, in Enc. dir. – Annali, vol. II, Giuffrè, Milano, 2008.

10. Così A. Corpaci, Note per un dibattito in tema di sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato, in Dir. pubbl., n. 1/2013, p. 346.

11. Così E. Cannada Bartoli, voce Giurisdizione (conflitti di), in Enc. dir., vol. XIX, Giuffrè, Milano, 1970, § 11.

12. Una lettura estensiva dell’ultimo comma dell’articolo 111 Cost. – volta a ricomprendere nei “motivi inerenti alla giurisdizione” anche «il controllo sull’osservanza dei principi regolatori del giusto processo, a nulla rilevando che i vizi derivanti dalla violazione di tali essentialia iurisdictionis siano sussumibili anche nella categoria degli errores in procedendo ovvero degli errores in iudicando de iure procedendi» – è stata recentemente proposta in G. Costantino - A. Carratta - G. Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni Unite e Corte Costituzionale arriva alla Corte UE. Note a prima lettura di Cass. SS.UU. 18 settembre 2020, n. 19598, in questa Rivista online, 19 ottobre 2020, www.questionegiustizia.it/articolo/limiti-esterni-e-giurisdizione-il-contrasto-fra-sezioni-unite-e-corte-costituzionale-arriva-alla-corte-ue-note-a-prima-lettura-di-cass-ss-uu-18-settembre-2020-n-19598.

13. In questo senso, vds. A. Pajno, Nomofilachia e giustizia amministrativa, in Rassegna forense, n. 3-4/2014, pp. 641 ss. (www.consiglionazionaleforense.it/documents/20182/275510/2014-03.04+I-09+CONGRESSO+NOMOFILACHIA+PAJNO.pdf/4cb7638c-7f8f-4131-825b-235f71542dc4?version=1.0).

14. È la proposta più volte avanzata da Andrea Proto Pisani; nella sua formulazione più completa, la si può leggere in Id., L’art. 113, 3° comma, Cost.: una norma troppo spesso dimenticata, fondamentale per la tutela effettiva del cittadino contro atti della pubblica amministrazione, in Foro it., 2015, V, cc. 184 ss.

15. Giovanni Canzio ci avverte che «dobbiamo guardarci da una nomofilachia “verticale”, riservata alla Corte di cassazione e declinata in senso gerarchico. La nomofilachia moderna non può essere che “orizzontale”, “circolare” e “cetuale”»: Id., Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in Dir. pubbl., n. 1/2017, p. 25.

16. Roberto Conti parla di «giurisdizione nazionale di ultima istanza costantemente in progress proprio perché chiamata, fuori da una dimensione museale, a misurarsi e prim’ancora a dialogare, in un ciclo continuo e mai conchiuso, con le altre Corti»: Id., Nomofilachia integrata e diritto sovranazionale. I “volti” della Corte di Cassazione a confronto, in Giustizia insieme, 4 marzo 2021, www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-civile/1599-nomofilachia-integrata-e-diritto-sovranazionale-i-volti-delle-corte-di-cassazione-a-confronto-di-roberto-conti.

17. Segnala Renato Rordorf che «il diritto, oggidì, non è più fatto solo da disposizioni cogenti di legge e non è più solo espressione della sovrastante volontà dello Stato legislatore (ammesso che mai, davvero, così sia stato), ma sempre più è integrato da strumenti complementari (che li si voglia o meno definire di soft law), che nascono dal basso e sono destinati a indirizzare il comportamento degli operatori tutti, compresi i giudici. I protocolli d’intesa, in questo come in molti altri campi, sono ormai sempre più presenti nella “cassetta degli attrezzi” del giurista. Talvolta fanno storcere un po’ il naso ai tradizionalisti, ma assai più proficuo è prenderne atto e cercare di utilizzarli al meglio»: Id., La Corte di cassazione e la Corte Edu, in questa Rivista, Speciale n. 1/2019 – F. Buffa e M.G. Civinini (a cura di), La Corte di Strasburgo, aprile 2019.

18. Sul modello dei “dialogoi” organizzati in collaborazione tra la formazione decentrata presso la Cassazione della Scuola superiore della magistratura e la cattedra di Procedura civile dell’Università “Roma Tre” su temi di attualità processuale, con particolare riguardo alle questioni che abbiano formato oggetto di rimessione alle sezioni unite.