Magistratura democratica

C’era una volta un re. Postilla a «Il giudice amministrativo come risorsa» di Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti

di Giorgio Costantino

Il presente contributo richiama l’attenzione su alcuni passaggi evolutivi della giustizia amministrativa. In primo luogo, la legge del 1865 aveva lasciato in vita le «avocazioni reali» del 1859 e il potere del Consiglio di Re di stabilire se si facesse questione di un diritto, cosicché, nonostante l’art. 2, essa determinò un vuoto di tutela. In secondo luogo, la legge del 1877 consentì alla corte regolatrice di negare l’esistenza del diritto e la proponibilità della domanda «quando [non] prosegue il giudizio». Si rileva, poi, l’importanza delle elezioni del 1876 in relazione all’esigenza affermata da Silvio Spaventa nel 1880. In quarto luogo, si ricorda il dibattito all’Assemblea costituente sul ruolo della Cassazione. Si segnala, infine, la necessità che l’auspicato «nuovo “concordato giurisprudenziale”» non prescinda da tutti i passaggi dell’evoluzione storica del riparto di giurisdizione.

1. Il saggio indicato nel titolo induce ad alcune precisazioni.

Come in tutti gli scritti sul riparto di giurisdizione, Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti (Il giudice amministrativo come risorsa, in questo fascicolo) ritengono necessaria una «premessa storica».

La previsione di distinti organi giurisdizionali, composti da magistrati con uno status diverso, è priva di fondamenta oggettive e razionali. Occorre spiegarla in base alle ragioni storiche della sua nascita e della sua evoluzione. Ogni contributo sull’argomento le ricorda ed esordisce con “c’era una volta un re”, nel nome del quale era esercitata la giurisdizione.

L’invito degli Autori a ripensare le questioni messe in evidenza, «di valenza tecnica, ma, proprio perché di rilevanza in primo luogo costituzionale, destinate a interagire con tratti che sono epocali», non può prescindere dalla considerazione di tutti i precedenti.

La conclusione per la quale, «nel mondo del capitalismo senza borghesia, le maggioranze tendono a non incontrare il “potere che frena” (Massimo Cacciari), in base al quale l’auctoritas non incarna l’ora ultima e assoluta, ma vive nel tempo sospeso della mediazione e del contenimento della potenza» e «il pluralismo – a fronte delle possibili evoluzioni del potere pubblico – è un valore non solo nella società ma anche nelle istituzioni, e nelle istituzioni giudiziarie in particolare. Esso tuttavia richiede, per non degenerare in conflitti istituzionali, equilibrio e competenze capaci di governare la complessità», presuppone che si abbia consapevolezza delle origini del sistema.

Attualmente la giurisdizione amministrativa esiste, gode delle garanzie costituzionali. Non si può non prenderne atto: «le ragioni della presenza del giudice amministrativo (…) si sono fatte ormai storicamente indiscutibili».

Alcuni passaggi dell’evoluzione del sistema di giustizia amministrativa si manifestano fondamentali. Meritano di essere ricordati.

 

2. Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti ricordano che «in un primo momento prevalse il sistema della giurisdizione unica, fortemente voluto dai liberali (Minghetti, Peruzzi e Mancini), sulle diverse opzioni tese al perfezionamento del contenzioso amministrativo o alla creazione di una Corte suprema del contenzioso amministrativo. La legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, tuttora vigente e detta appunto legge abolitrice del contenzioso amministrativo, 1) abolì i tribunali speciali del contenzioso amministrativo; 2) decise di devolvere al giudice ordinario tutte le materie nelle quali si facesse questione di un diritto civile o politico, comunque potesse essere interessata la pubblica amministrazione, ancorché fossero emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa; 3) attribuì alle autorità amministrative gli affari non compresi, ossia le questioni non inerenti un diritto civile o politico per una definizione in contraddittorio con gli interessati; 4) in caso di contestazione su un atto amministrativo, limitò il potere del tribunale di conoscere tale atto solo in relazione agli effetti prodotti nel concreto giudizio; 5) demandò all’autorità amministrativa il potere di revoca o annullamento degli atti in relazione all’esigenza di conformarsi al giudicato dei tribunali ordinari; 6) fece obbligo al giudice ordinario di applicare al caso controverso solo gli atti amministrativi e i regolamenti conformi a legge».

L’art. 2 di quella legge, con una previsione forse troppo avanti per il tempo, stabilisce, in sintonia con gli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1 della Costituzione del 1948, che «tutte le materie» nelle quali fosse stato dedotto, anche a livello di mera affermazione («si faccia questione»), un diritto soggettivo avrebbero dovuto essere devolute al giudice ordinario; in funzione di tale risultato, era irrilevante che fosse coinvolta nel rapporto la pubblica amministrazione («comunque vi possa essere interessata») e che fossero stati emessi atti o provvedimenti pubblici («ancorché siano emanati»). 

Sennonché, come si disse già allora, l’art. 13 della stessa legge conteneva un «oscuro germe di distruzione». Lasciava in vita le avocazioni reali, di cui al r.d. 20 novembre 1859, n. 3780, emanato dal potere esecutivo, senza alcuna verifica parlamentare, quale disposizione eccezionale e straordinaria in occasione della Seconda guerra di indipendenza. 

Il potere di stabilire se si facesse «questione d’un diritto civile o politico» era attribuito alla stessa pubblica amministrazione, non ai giudici.

Al Consiglio di Stato, «organo preunitario rivelatosi capace di molti adattamenti», gli Autori attribuiscono una «funzione politica di Consiglio del Re» e la sua nascita «va riportata quindi, più che ad antichi istituti di giustizia ritenuta del sovrano, legati alle istituzioni francesi e introdotti in Italia dal modello napoleonico, alla sua natura di Consiglio del Re».

Questo organo aveva il potere di stabilire se vi fosse una questione di diritto o se si trattasse di un mero affare. Aveva il potere di affermare che il processo non s’ha da fare.

La posizione dei cittadini del neonato regno d’Italia nei confronti della pubblica amministrazione finì con l’essere deteriore rispetto a quella dei cittadini degli Stati preunitari: la questione relativa all’esistenza o all’inesistenza di un diritto civile o politico era decisa dal Consiglio del Re.

In quel contesto, si sviluppò la giurisprudenza dei pareri, fonte della nozione di interesse legittimo. 

L’omissione di queste circostanze non consente di comprendere il vuoto di tutela determinato dalla legge sul contenzioso, che pure conteneva una disposizione come l’art. 2, e gli sviluppi successivi. 

 

3. Dal 1865 Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti passano al 1880, al discorso di Silvio Spaventa all’Associazione costituzionale di Bergamo: «il sistema tutelava solo i diritti perfetti, rimanevano senza tutela giurisdizionale gli “affari non compresi”. L’ingerenza dei partiti nelle attività amministrative determinò la denuncia di Silvio Spaventa, fatta a Bergamo nel 1880» (http://bit.ly/2ZxEwhW).

Sennonché, non solo non è menzionata la sopravvivenza del r.d. 20 novembre 1859, n. 3780, dell’«oscuro germe di distruzione», di cui all’art. 13 della legge del 1865, per il quale l’amministrazione aveva il potere di affermare che il processo non s’ha da fare, ma si omettono altri due passaggi che pure si manifestano fondamentali per la comprensione dell’evoluzione del sistema di giustizia amministrativa.

In primo luogo, occorre ricordare che, con le elezioni del 1876, la Destra storica, che aveva lasciato in vita le avocazioni reali e aveva svuotato di contenuti l’art. 2 l. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, perse le elezioni, e passò all’opposizione. L’attribuzione all’amministrazione del potere di negare la tutela giurisdizionale può rivelarsi molto spiacevole per chi si trova all’opposizione. Prima della denuncia di Silvio Spaventa del 1880, si sviluppò un movimento contro «l’ingerenza dei partiti nelle attività amministrative» e per la tutela dei cittadini nei confronti delle pubbliche amministrazioni.

In secondo luogo, occorre ricordare che quel movimento sfociò nella legge 31 marzo 1877, n. 3761, il testo della quale fu inserito nel vigente codice di rito e sopravvive ancora oggi negli artt. 41, comma 2, 368 e 386 cpc.

I lavori parlamentari su quella legge sono illuminanti per la comprensione della «premessa storica» anteposta a Il giudice amministrativo come risorsa.

Al Senato fu modificata la rubrica della legge; il riferimento ai «conflitti» fu sostituito con l’indicazione «regolamento di competenza»; nell’art. 4, corrispondente all’art. 386 cpc, fu aggiunto l’inciso «, quando prosegue il giudizio». Questa seconda modifica travolse il senso della disposizione; senza l’inciso, infatti, l’organo regolatore avrebbe potuto occuparsi esclusivamente dell’individuazione del giudice; grazie ad esso, invece, quando il giudizio non prosegue, la decisione sulla giurisdizione pregiudica le questioni sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda; quando il giudizio non prosegue, la decisione sulla giurisdizione è una decisione di merito.

Quando la legge fu discussa alla Camera, Giuseppe Mantellini, che ne era il promotore, nel suo intervento si soffermò sulle modifiche votate dal Senato: «Prima che sia dichiarata chiusa una discussione che non accenna a cominciare, permettete, signori, qualche spiegazione, una dichiarazione ed un plaudente saluto. Le spiegazioni si riferiscono alla legge nella parte in cui ritorna corretta dopo la votazione del Senato. Il Senato cominciò dal correggere della legge la rubrica, e bandì da questa e dai primi due articoli la parola conflitti per sostituirvi l’altra di regolamento di competenza; e fece benissimo. Imperrocché o si ha una questione nella quale si contrasta chi sia il giudice, per esempio, se la Corte dei conti o una Corte di appello, ed è questione di regolamento di competenza. Se invece si ha una questione nella quale il giudice non è in contrasto, e solamente si tratta di vedere se l’azione sia proponibile, se l’attore che comparisce in giudizio ha veste per comparirvi, se può convenire chi da lui è convenuto, la questione diventa di merito, appunto perché invece del giudice entra in questione l’azione; e non siavi e non possa esservi causa da restare senza giudice. A questo conduceva il sistema dei conflitti e che noi vogliamo abolito. Nel sistema del conflitto pur troppo noi avevamo cause lasciate senza giudice, né dell’ordine amministrativo, né dell’ordine giudiziario» (http://bit.ly/2IS2Fup). 

Nella prima parte del suo intervento, Giuseppe Mantellini si compiace della soppressione del termine «conflitti», che metteva fuori gioco ogni possibilità di prevaricazione del potere esecutivo sul potere giudiziario; mette in evidenza, con sconcertante attualità, la distinzione tra le questioni di riparto di giurisdizione e le questioni di merito.

In relazione alla modifica dell’art. 4, corrispondente all’art. 386 del codice vigente, Giuseppe Mantellini rileva che «ci si è fatto scivolare che ciò avvenga quando prosegua il giudizio, quasiché se il giudizio non prosegua si possano cambiare i criteri della soluzione, quasiché dove il giudizio non prosegua muti o abbia potuto mutare il soggetto della domanda». Aggiunse, tuttavia, che «questa seconda correzione, che forse è quella che alla Giunta è parsa meno felice, studiandola bene, non può riuscire ad altro significato che a quello che aveva la formula prima. Una delle due: o noi avremo in questione il giudice, cioè a dire vi saranno due giudici fra i quali discutere se si va all’uno od all’altro, e la questione sarà di competenza; o non avremo che un giudice solo, ed allora non potrà mai cadere questione di competenza, a meno che non si voglia dire che ci siano delle cause le quali possano rimanere senza giudice; e questo nessuno lo vuole; la questione torna, cioè, ad essere di merito, torna ad essere di pertinenza, o non pertinenza del diritto, di proponibilità, o di non proponibilità dell’azione, qualunque siasi la formula sotto la quale questo concetto si presenti rivestito».

Mantellini ribadisce che nessuno vuole «che ci siano delle cause le quali possano rimanere senza giudice» e, quindi, l’emendamento approvato dal Senato non può modificare il senso complessivo della riforma diretta a ristabilire la tutela giurisdizionale. 

Sul punto, nel suo intervento, il ministro della giustizia, Pasquale Stanislao Mancini, osservò che «l’altra modificazione nella sua pratica realtà è cosa lievissima, e non tende che a meglio conseguire l’unità delle norme giurisdizionali per la determinazione dei limiti tra l’amministrazione e la giustizia. Quanto alla diversa formula dell’articolo 4, io mi associo pienamente alle dichiarazioni dell’onorevole relatore. Anche a me sembrano soltanto parole diverse, le quali però in nessun caso potranno ricevere nella applicazione una interpretazione ed un significato diverso da quello che avesse la formola che era stata dapprima in quest’Assemblea adottata».

La «cosa lievissima», le «parole diverse» hanno consentito e consentono, dal 1877 ad oggi, alla corte regolatrice, quando il giudizio non prosegue, ciò che Mantellini riteneva nessuno volesse: di negare la tutela giurisdizionale, di decidere, anche nell’ambito dei conflitti «tra l’amministrazione e la giustizia» e non solo di quelli tra giudici, sulla pertinenza del diritto e sulla proponibilità della domanda.

Questi passaggi si manifestano fondamentali per comprendere cosa avvenne tra il 1865 e il 1880 e non possono essere pretermessi.

 

4. Nel discorso del 1880, ricordato da Giancarlo Montedoro e da Enrico Scoditti, Silvio Spaventa esordisce con la menzione del primo dei passaggi sui quali si è richiamata l’attenzione: «tra le migliori ragioni che si adducevano del successo della Sinistra, vi era questa, che non le si poteva negare ormai il diritto, dopo sedici anni di aspettazione, di fare anche essa le sua prova nel governo dello Stato». 

Silvio Spaventa riconosce che la questione della tutela nei confronti della amministrazione si pone dopo le elezioni del 1876. La Destra aveva introdotto nella legge del 1865 l’«oscuro germe di distruzione», aveva lasciato in vita le avocazioni reali, aveva consentito alla amministrazione di affermare che il processo non s’ha da fare. All’opposizione, aveva avvertito gli effetti della limitazione della tutela giurisdizionale: «In sedici anni di governo, è possibile che noi avessimo, come partito, abusato del nostro potere (…) Abbiamo dovuto costruire questo Stato in mezzo ad innumerevoli nemici, ostinatamente fuori dell’ordine costituzionale e dei principi della nostra vita nazionale: borbonici, clericali, austriacanti, granduchisti e simili». La sopravvivenza delle avocazioni reali, lo svuotamento dell’art. 2 della legge del 1865, le limitazioni alla tutela giurisdizionale sono giustificate in base alla sfiducia nella magistratura ovvero nella parte di essa acquisita dagli Stati preunitari. Il fondamento politico all’origine del sistema di giustizia amministrativa non può essere pretermesso. L’esigenza di introdurre la giustizia nella amministrazione era determinata dagli abusi, dei quali Silvio Spaventa segnala numerosi esempi.

La soluzione prospettata, tuttavia, non consisteva in quella auspicata da Mantellini e tradita dalla legge del 1877: nella soppressione del potere del Consiglio del Re di giudicare sulla sussistenza di una questione di diritto e nella attribuzione della tutela giurisdizionale di ogni situazione subiettiva al giudice ordinario.

Alla denuncia di Silvio Spaventa, come ricordano Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti, «seguì la legge 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva della quarta sezione del Consiglio di Stato (…) La legge 7 marzo 1907, n. 62 consacrò la natura giurisdizionale della quarta sezione e istituì la quinta sezione, che aveva competenza estesa al merito amministrativo. Il d.lgs 5 maggio 1948, n. 642 istituì la sesta sezione del Consiglio di Stato: ormai tutte le sezioni avevano competenze identiche».

Essi soggiungono che «la Costituzione repubblicana ha attribuito rilevanza costituzionale alla distinzione fra diritti e interessi (artt. 24, 103 e 113 Cost.); ha concentrato la tutela degli interessi legittimi nel Consiglio di Stato (art. 103 Cost.) e, in primo grado, negli organi di giustizia amministrativa istituiti (dalla legge statale) nelle Regioni (tribunali amministrativi regionali – art. 125 Cost.); ha garantito l’indipendenza del Consiglio di Stato e dei suoi componenti nei confronti del Governo (art. 100 Cost.); ha previsto che le norme su ogni magistratura siano disposte con legge, assicurando l’indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali (art. 108 Cost.), e ha chiuso il sistema ponendo il divieto di istituzione di giudici speciali (art. 102 Cost.). Non ha previsto la revisione del Consiglio di Stato, a differenza di altri organi speciali di giurisdizione (disp. VI finale e transitoria)».

 

5. Manca, però, la menzione di un quarto passaggio, che, al pari dei tre prima ricordati, si manifesta fondamentale.

Prima di arrivare «all’affermazione della responsabilità della pubblica amministrazione per violazione di interessi legittimi pretensivi, inaugurata da Cass., sez. unite, n. 500 del 1999», appare doveroso ricordare il dibattito sul ruolo della Corte di cassazione.

Nella seduta pomeridiana n. 309 del 27 novembre 1947 (http://bit.ly/2UVTRKJ) dell’Assemblea costituente, Costantino Mortati propose che i conflitti di giurisdizione fossero «prodotti non di fronte alla Cassazione, ma dinanzi alla Corte per le garanzie costituzionali». Ricordò che i conflitti di giurisdizione e quelli di attribuzione «sono stati sempre, dal 1877 in poi, affidati alla Corte di cassazione a Sezioni unite. Il progetto di Costituzione innova a questa situazione per quanto riguarda i conflitti di attribuzione, assegnati dall’art. 126 alla Corte di giustizia costituzionale». Per tale ragione, la Cassazione non avrebbe potuto giudicare sul difetto assoluto di giurisdizione e la questione avrebbe dovuto essere affrontata nell’ambito della discussione relativa alla istituzione della Corte costituzionale. Per altro verso, Costantino Mortati rilevò che i conflitti «tra organi giurisdizionali diversi, assumono rilevanza costituzionale». Anche i conflitti di giurisdizione in senso stretto, pertanto, avrebbero dovuto essere risolti dalla Corte costituzionale e avrebbe dovuto essere emendata la disposizione per la quale il compito di regolare la giurisdizione sarebbe stato attribuito alla Cassazione.

All’esito della discussione, Paolo Rossi, relatore per la Commissione, in difesa del testo dell’art. 102, corrispondente all’attuale art. 111, commi 7 e 8, Cost., dichiarò: «mi dispiace non concordare con l’onorevole Mortati che ha svolto una delicatissima, finissima questione sistematica (…). Non abbiamo potuto accettare il suo punto di vista sistematico, per cui quando esistono organi giurisdizionali di carattere speciale, la Cassazione non può intervenire, perché tutta la materia, da capo a fondo, dev’essere demandata agli organi speciali e non può essere, in ultima istanza, controllata dalla Corte di cassazione. Abbiamo invece accettato il criterio – scaturente da molti emendamenti e ordini del giorno – dell’unicità della giurisdizione».

La proposta di Mortati non fu accolta, l’Assemblea costituente accettò il criterio «dell’unicità della giurisdizione», al vertice della quale è la Corte di cassazione.

Nel sistema costituzionale della Repubblica, la distinzione tra le nozioni di giurisdizione, quale rapporto tra la magistratura nel suo complesso e gli altri poteri, e quale rapporto tra giudici di ordini diversi, appare netta. L’art. 37, comma 2, l. 11 marzo 1953, n. 87, che regola il procedimento per i conflitti tra i poteri dello Stato, stabilisce infatti che «restano ferme le norme vigenti, per le questioni di giurisdizione». Da una parte, si pongono i problemi relativi ai rapporti tra i giudici e gli altri poteri dello Stato: i conflitti di «attribuzione». Si tratta, in tal caso, di una questione di merito, perché, negata la giurisdizione, si nega l’accesso al processo, si nega l’azione e si nega il diritto. Dall’altra, si pongono i problemi relativi ai rapporti tra giudici di ordini diversi: alle questioni tecniche sulla competenza giurisdizionale. Comunque risolte queste ultime, consentono l’accesso al processo, l’esercizio del diritto di azione, la valutazione della esistenza del diritto affermato.

Ma, nell’ambito della legislazione ordinaria, sopravvivono residui di un remoto passato. L’art. 37 cpc, infatti, mette sullo stesso piano il difetto di giurisdizione nei confronti della pubblica amministrazione o nei confronti dei giudici speciali; l’art. 41, comma 2, cpc, attribuisce alla «pubblica amministrazione che non è parte in causa» il potere di chiedere «che sia dichiarato dalle sezioni unite della corte di cassazione il difetto di giurisdizione del giudice ordinario a causa dei poteri attribuiti dalla legge all’amministrazione stessa»; la rubrica dell’art. 368 cpc è «questione di giurisdizione sollevata dal prefetto» e il quarto comma dispone: «la corte di cassazione è investita della questione di giurisdizione». L’art. 382, comma 3, cpc stabilisce che la Corte di cassazione cassa senza rinvio «se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento e ogni altro giudice difettano di giurisdizione». L’art. 386 cpc consente alla Corte regolatrice di definire la controversia perché il processo non s’ha da fare.

La contraddizione emerge nella giurisprudenza in riferimento alla inammissibilità del regolamento di giurisdizione per improponibilità della domanda: Cass., nn. 18052/2010, 90/2001, 212/1999; 9151 e 9152/2008, 26098/2014. E si è manifestata anche nelle limitate occasioni nelle quali hanno trovato applicazione gli artt. 41, comma 2, e 368 cpc, nelle quali è stata sempre affermata la sussistenza della giurisdizione, e della giurisdizione ordinaria: Cass. nn. 4681/1980, 7339 e 7340/1998, 26035/2013. 

Questa contraddizione, l’imbarazzo della Corte ad applicare ancora gli artt. 41, comma 2, e 368 cpc, residui della legge del 1877, nonché ogni altra questione relativa ai rapporti tra giurisdizione e merito sono difficilmente comprensibili se non si mettono in evidenza gli indicati passaggi.

 

6. La premessa storica alla illustrazione del Giudice amministrativo come risorsa richiede, dunque, l’integrazione con i passaggi indicati.

Altri passaggi della storia più recente, oltre alla riconosciuta risarcibilità degli interessi legittimi, nel 1999, potrebbero essere utilmente ricordati: l’istituzione dei tribunali amministrativi regionali, nel 1971; l’attribuzione al giudice ordinario del contenzioso sul pubblico impiego, nel 1998; gli avvenimenti del 2000: l’adunanza plenaria n. 1, la decisione della Corte costituzionale n. 292, l’ordine del giorno del Senato del 19 luglio, la legge di riforma n. 205 del 21 luglio; le sentenze nn. 204 e 281 del 2004 della Corte costituzionale; l’emanazione del codice del processo amministrativo, nel 2011; la dilatazione della giurisdizione esclusiva.

Non appare possibile prescindere da ciascuno di questi passaggi e, in particolare, da quelli prima ricordati.

Nell’Italia unita si sarebbe voluto che, anticipando di quasi cento anni gli artt. 24, comma 1, e 113, comma 1, Cost., fossero «devolute alla giurisdizione ordinaria (…) tutte le materie nelle quali si faccia questione d’un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa». Ma, nella stessa legge del 1865, fu attribuito all’amministrazione il potere di stabilire se si facesse «questione d’un diritto civile o politico». Contro quanto previsto dall’art. 2, la legge sul contenzioso amministrativo aprì un vuoto di tutela.

Il tentativo di distinguere nettamente giurisdizione e merito, ovvero le questioni relative alla individuazione del giudice e quelle relative alla proponibilità della domanda e all’esistenza del diritto, fu sventato dalla legge del 1877, che istituì la corte regolatrice, ma le attribuì anche il potere di definire il processo e, quindi, di negare il diritto e la proponibilità della domanda.

Il vuoto di tutela giurisdizionale aperto dalla legge del 1865 e non rimosso dalla legge del 1877 fu colmato, nel 1889, con la istituzione di un nuovo organo giurisdizionale, che non fosse nemico del potere esecutivo, come potevano esserlo i magistrati «borbonici, clericali, austriacanti, granduchisti e simili».

I Costituenti hanno riservato alla Corte costituzionale il giudizio sui conflitti di attribuzione e hanno posto al vertice della giurisdizione, ordinaria e speciale, la Corte di cassazione; hanno limitato il sindacato di questa sulle decisioni del Consiglio di Stato ai «motivi inerenti la giurisdizione», in sintonia con l’art. 362 cpc, che lo limita ai «motivi attinenti alla giurisdizione».

Dai passaggi indicati non sembra possa prescindere neppure la «parabola che ha caratterizzato il tema del riparto di giurisdizione negli ultimi dodici anni», segnata, secondo Giancarlo Montedoro ed Enrico Scoditti, da Cass., n. 30254/2008, «che ha inteso il concetto di giurisdizione, ai fini della definizione dei limiti esterni, come tutela effettiva dei diritti e degli interessi»; da Corte cost., n. 6/2018, «che ha riaffermato l’estraneità dei motivi di giurisdizione di cui all’ultimo comma dell’art. 111 Cost. agli errores in iudicando o in procedendo»; e da Cass., n. 19598/2020, «che ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia avendo come tema l’estensione dei motivi di giurisdizione al controllo delle sentenze del Consiglio di Stato che violino il diritto dell’Unione europea». 

 

7. Nell’ordinamento positivo vigente, la «nomofilachia» del «Consiglio di Stato, quale organo di vertice nella propria giurisdizione» equivale a quella del giudice di pace nei giudizi secondo equità e a quella di ogni giudice quando emette provvedimenti diversi dalle sentenze e privi dei caratteri della decisorietà e della definitività.

In ciascuno di questi casi, si è al cospetto dell’ossimoro «nomofilachie di settore», perché il provvedimento è sottratto al controllo di legalità, che i Costituenti hanno attribuito alla Corte di cassazione. 

Se, infatti, «Corte di cassazione e Consiglio di Stato ne sono titolari nei rispettivi ambiti», lo è anche ogni giudice, il cui provvedimento non sia sindacabile in sede di legittimità. Quel provvedimento è l’ultima parola sulla definizione della controversia.

E ogni giudice e ogni magistrato, come può essere parte, attiva o passiva, dei conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, costituisce una risorsa dell’ordinamento.

Il compito di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni è riservato esclusivamente alla Corte di cassazione. Questa può esercitare le sue funzioni anche «nell’interesse della legge», ai sensi dell’art. 363 cpc, per stabilire la legalità in riferimento a provvedimenti non direttamente sindacabili.

La «risorsa» costituita dai giudici amministrativi, come ripete Aldo Travi, non dipende dalle materie attribuite al loro giudizio. Da questo punto di vista, la questione potrebbe trovare una soluzione razionale o ragionevole nella specializzazione dei magistrati; il che consentirebbe di eliminare gli elevatissimi costi per il funzionamento del sistema giustizia derivanti dalle questioni sul riparto di giurisdizione. La «risorsa» costituita dai giudici amministrativi deriva dal loro status particolare, diverso da quello dei giudici ordinari.

La storia mette in evidenza che l’evoluzione della giustizia amministrativa, in Italia, non è il frutto della applicazione del principio “juger l’administration c’est aussi administrer”. Risponde all’esigenza che il sindacato sull’esercizio del potere amministrativo sia esercitato da un giudice “non nemico”, ovvero ritenuto sensibile ai bisogni dell’esecutivo e della politica. L’organico dei giudici amministrativi non è composto soltanto da grand commis, che hanno esperienza del funzionamento dell’amministrazione; è composto in prevalenza da giudici ordinari transitati nel diverso ordine.

È rimessa a una scelta di valore, in base alle inclinazioni di ciascuno, la valutazione della razionalità o della ragionevolezza di questa situazione. Di essa, tuttavia, occorre prendere atto. Ma appare anche doveroso rifuggire da ogni tentativo di nobilitarla. Le ragioni del riparto di giurisdizione non sono giuridiche o tecniche; sono politiche e riguardano l’esercizio del potere.

Nei confini segnati dalla evoluzione storica, complessivamente considerata, si presta a essere valutato l’auspicio di Giancarlo Montedoro e di Enrico Scoditti per un «nuovo “concordato giurisprudenziale”», quale «punto di arrivo e di sintesi di una intensa stagione di confronto, che veda come protagonisti in primo luogo non i vertici delle istituzioni, ma il corpo dei magistrati che ne costituiscono la base», in funzione di una interpretazione condivisa delle nozioni di «motivi inerenti la giurisdizione» e di «motivi attinenti alla giurisdizione», di cui agli artt. 111, comma 8, Cost. e 362, comma 1, cpc.