Magistratura democratica

Il ragno e la tela: note a margine di uno scritto di Scoditti e Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni

di Renato Rordorf

Prendendo spunto da un recente scritto di Enrico Scoditti e Giancarlo Montedoro sulla pluralità delle giurisdizioni, immaginate come una tela senza ragno al centro, si mettono in luce le ragioni che, in un modello ideale, militerebbero invece a favore dell’unità delle giurisdizioni. Non sembrando tuttavia probabile un tale mutamento dell’assetto costituzionale, almeno nel breve periodo, si ragiona del modo in cui si potrebbe comunque favorire il consolidarsi di una comune cultura della giurisdizione; si esamina, in particolare, la proposta di consentire, in determinate circostanze, la partecipazione di magistrati amministrativi al collegio delle sezioni unite della Corte di cassazione per evitare il formarsi di nomofilachie parallele e cercare, in un certo senso, di rimettere il ragno al centro della tela, nell’auspicio che frattanto non si accenda una novella “guerra delle corti”.

1. Il recente scritto di Enrico Scoditti e Giancarlo Montedoro, apparso l’11 dicembre 2020 su Questione giustizia online col titolo «Il giudice amministrativo come risorsa», e ripubblicato in questo fascicolo, suscita non poche riflessioni e meriterebbe certo un’analisi ben più approfondita di quella che qui mi accingo a compiere. Mi limiterò, tuttavia, solo ad alcune brevi osservazioni.

L’articolo citato, dopo un excursus storico sulla nascita e sul successivo sviluppo della giurisdizione amministrativa nell’ordinamento italiano postunitario, davvero pregevole per chiarezza e sinteticità, si schiera senz’altro in favore del pluralismo delle giurisdizioni scorgendovi il portato del costituzionalismo moderno in un più generale contesto orientato a una visione policentrica del potere, «raffigurabile come una tela senza ragno al centro». Ciò non impedisce agli Autori di riconoscere che l’espandersi delle figure di giurisdizione esclusiva, col conseguente sempre più frequente intervento del giudice amministrativo in un campo, quello dei diritti soggettivi, originariamente riservato al giudice ordinario, costituisca un nodo problematico il cui scioglimento potrebbe richiedere «nuove ermeneutiche costituzionali». Quanto poi alla questione della nomofilachia, Scoditti e Montedoro prospettano la necessità di una «osmosi bidirezionale» tra la funzione della Corte di cassazione e quella del Consiglio di Stato, tale per cui «non deve essere solo il vertice della giustizia amministrativa ad adeguarsi alla giurisprudenza ordinaria sui diritti soggettivi, ma anche la Corte di Piazza Cavour deve essere recettiva della giurisprudenza amministrativa sul potere e il suo esercizio». E auspicano un novello «“concordato giurisprudenziale”» (elaborato però non dai vertici, bensì dalla base delle rispettive magistrature), che dovrebbe condurre, tra le altre cose, a una partecipazione minoritaria di consiglieri di Stato alle sezioni unite della Corte di cassazione quando si discuta di riparto di giurisdizione, oltre che nei limitati casi in cui si ritenga ammissibile il ricorso straordinario per cassazione avverso le sentenze del giudice amministrativo. Tutto ciò non senza interventi che valgano a rafforzare i requisiti d’indipendenza e autonomia del giudice amministrativo, sostanzialmente accostando maggiormente le relative regole disciplinari e di autogoverno a quelle previste per il giudice ordinario e favorendo una comune cultura della giurisdizione per tutte le magistrature.

 

2. Si tratta, con ogni evidenza, di proposte importanti già per il solo fatto di esprimere un punto di vista comune a due autorevoli esponenti di giurisdizioni diverse, ordinaria e amministrativa, e per l’intento che le muove: trovare soluzioni soddisfacenti in un contesto tuttora caratterizzato da fin troppe incertezze e da contrasti che certo non aiutano a rendere un buon servizio agli utenti della giustizia. Proposte alle quali, però, mi pare si possa guardare in due prospettive diverse: l’una di tipo, per così dire, ideale, e l’altra pragmatica. 

Confesso subito che continua a non convincermi del tutto l’idea secondo la quale la pluralità delle giurisdizioni, quale che ne sia l’origine storica, costituirebbe oggi una risorsa, perché capace di assicurare un più alto livello di tutela dei diritti e degli interessi che l’ordinamento giudica meritevoli di protezione. Può darsi che la mia sia una posizione “passatista” (come quella che il saggio in commento sembra voler rimproverare alla scuola fiorentina). È certo suggestivo il richiamo alla concezione pluralistica del potere, cui si ispira la nostra Costituzione, e capisco bene che, in termini generali, la si possa preferire all’opposta impostazione che sottintende un potere accentrato e forse, per ciò stesso, in qualche misura più autoritario, meno controllabile e, in definitiva, meno democratico. Ma occorre tener conto che qui stiamo parlando di un potere diffuso, quale è quello giudiziario, che per sua stessa intrinseca caratteristica si presenta dunque come pluralistico. Non mi pare vi sia, in questo caso, il rischio di un eccessivo accentramento di tipo autoritario ma semmai, al contrario, il problema di una scarsa coerenza degli orientamenti giurisprudenziali, che riduce la prevedibilità delle decisioni, mina la certezza del diritto, incoraggia di conseguenza la litigiosità ed ha perciò anche come ultimo (ma non secondario) effetto quello di prolungare la durata dei processi. In questo quadro, complicato dal pluralismo delle fonti, dalla necessità del continuo confronto con organi giurisdizionali sovranazionali e dall’oggettiva difficoltà della legislazione di adeguarsi tempestivamente alla rapida evoluzione tecnologica e dei costumi, con l’inevitabile conseguente ampliamento dei campi nei quali il giudice è chiamato a intervenire, mi sembra vieppiù importante, da un lato, evitare che la pluralità dei plessi giurisdizionali crei maggiore incertezza anche quanto all’individuazione del giudice al quale il cittadino possa di volta in volta rivolgersi per la tutela dei propri diritti e legittimi interessi, e dall’altro lato sforzarsi di assicurare alla giurisprudenza il massimo possibile di coerenza sistematica per bilanciare la crescente caoticità dei dati normativi.

L’abnorme ampliamento dei casi di giurisdizione esclusiva e, quindi, dell’attribuzione al giudice amministrativo anche della giurisdizione sui diritti, non è casuale e sarebbe riduttivo (oltre che ingeneroso) volerlo ascrivere all’intento del legislatore di assecondare il desiderio degli stessi giudici amministrativi di estendere la propria sfera d’influenza. V’è, al fondo, la constatazione di un progressivo ma radicale mutamento del modo di operare della pubblica amministrazione, sempre più di frequente orientata all’uso di strumenti privatistici, pur quando si tratti di perseguire finalità tipicamente pubblicistiche, in una logica che tende naturalmente man mano ad allontanarsi dalla tradizionale concezione della stessa pubblica amministrazione come autorità esercitante un potere sovraordinato; mentre, dall’altro versante, il diritto dei privati sempre meno risponde a un modello astratto di pariteticità dei soggetti e tende a regolare situazioni e tipologie di interessi quanto mai variegati adeguando ad esse i propri strumenti. 

Mi si perdonerà la brevità di questi accenni, che ovviamente richiederebbero ben altro approfondimento, ma vi indulgo qui unicamente per sottolineare quanto la stessa linea di demarcazione tra diritto pubblico e diritto privato, che sottostà alla ripartizione dei compiti giurisdizionali tra giudice ordinario e giudice amministravo e che peraltro è da sempre mobile, nell’ultimo mezzo secolo o giù di lì sia andata molto appannandosi. Il che ha determinato, inevitabilmente, sia una minore facilità di distinguere la nozione di diritto soggettivo da quella di interesse legittimo, sia il più frequente e meno facilmente districabile intreccio nella realtà tra l’una e l’altra di tali situazioni, con due negative conseguenze. La prima sul terreno giurisprudenziale, ove si sono moltiplicate le incertezze in ordine al riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (oltre che tra giudice ordinario e giudice contabile) moltiplicando i ricorsi per motivi di giurisdizione e i regolamenti di giurisdizione, che ad oggi costituiscono all’incirca i due terzi del carico di lavoro delle sezioni unite della Corte di cassazione, a testimonianza di quanta attività ed energia processuale e di quanti costi sovente occorrono, prima ancora che per dirimere torti e ragioni dei litiganti, già solo per stabilire quale sia il giudice cui tocca farlo. La seconda conseguenza negativa si manifesta sul piano della legislazione ed è costituita appunto dal proliferare delle ipotesi di giurisdizione esclusiva cui già s’è fatto cenno: che dipende a propria volta dalla crescente difficoltà di separare nettamente i diritti dagli interessi legittimi all’interno di situazioni giuridiche complesse, onde il legislatore si sforza il più possibile di eludere simili nodi problematici affidando senz’altro l’intera tutela al giudice amministrativo, anche per evitare dispendiose e inopportune frammentazioni dei giudizi. Non senza, però, ulteriori inconvenienti: giacché è quanto meno dubbio che una simile, così massiccia, attribuzione al giudice amministrativo del compito di decidere sui diritti sia conforme al dettato costituzionale, che concepisce la giurisdizione esclusiva in termini di eccezionalità (e infatti, com’è noto, la Corte costituzionale è dovuta intervenire al riguardo); e la stessa definizione dei casi nei quali sussiste la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e dei relativi limiti quando non sia evidente una qualche forma di esercizio del potere da parte della pubblica amministrazione ha generato e genera non poche incertezze, contribuendo significativamente a quel proliferare di questioni di giurisdizione cui già prima s’è fatto cenno (e altre se ne annunciano: si pensi al tema della cd. occupazione usurpativa, che lo stesso scritto di Scoditti e Montedoro segnala come nuovo terreno di contrasto tra la giurisprudenza dell’adunanza plenaria dei Consiglio di Stato e delle sezioni unite della Corte di cassazione).

Ma non è solo questione di difficoltà nell’operare il riparto di giurisdizione. 

Sono convinto anche io che, nell’attuale ordinamento, la funzione nomofilattica sia svolta dal giudice amministrativo non meno che da quello ordinario, e che, quindi, a livello di vertice, essa competa pure al Consiglio di Stato (e alla Corte dei conti, per quanto di sua spettanza). Ma il punto è proprio questo. Si è già visto come ormai l’appannamento della distinzione tra diritto pubblico e diritto privato e tra diritti soggettivi e interessi legittimi, accompagnato dall’espandersi dei casi di giurisdizione esclusiva previsti dal legislatore, faccia sì che i giudici ordinari e quelli amministrativi siano chiamati ad occuparsi dello stesso tipo di questioni (basti pensare ai temi del risarcimento del danno o della violazione delle disposizioni antitrust, ma non solo a quelli). Se allora si ritiene necessario assegnare a un organo giurisdizionale di vertice il compito di uniformare la giurisprudenza – sia pure solo tendenzialmente e con il corollario di una serie di disposizioni processuali tese a evitare l’ingessamento della giurisprudenza e a consentirne la necessaria evoluzione – e di fornire una guida all’operare dei giudici di merito, è davvero razionale costruire due o più sistemi paralleli in cima ai quali porre vertici distinti, che per ciò stesso potrebbero fornire indicazioni giurisprudenziali difformi, quando si tratta di enucleare e applicare i medesimi principi giuridici? La nomofilachia – se ci si crede – ha la funzione di ovviare ai maggiori inconvenienti che il già ricordato carattere diffuso del potere giurisdizionale può determinare quanto a certezza del diritto e prevedibilità delle decisioni. Perciò una nomofilachia duale (o comunque plurale) già sul piano logico mi sembra una contraddizione in termini: perché può dar vita, sulle medesime questioni, a orientamenti contrastanti senza che vi sia un organo in grado di riportarli a sintesi. E invece, per le ragioni che ho già prima provato a sintetizzare, credo che oggi ci sia ancor più bisogno di assicurare il maggior grado possibile di coerenza agli interventi giurisprudenziali.

Una «tela senza ragno al centro», per riprendere l’efficace immagine di Scoditti e Montedoro, rischia di rompersi, o di deformarsi al punto da lasciare del tutto disorientati coloro che vi incappino, finendo per somigliare piuttosto a un labirinto. Preferirei poter rimettere il ragno al centro della tela: il che, ovviamente, non significa negare o disperdere la preziosa eredità della giurisprudenza amministrativa, né tanto meno disconoscere la necessità di una giurisdizione specializzata in questa materia, come in molte altre ne esistono, ma consentire che i diversi apporti giurisprudenziali confluiscano in un unico alveo e facciano capo a un unico organo di vertice della nomofilachia al quale partecipino magistrati di diversa specializzazione. 

Aggiungo che non me la sentirei, francamente, di fare oggi previsioni su un eventuale diverso assetto del modo di essere e di operare dei pubblici poteri, quando l’attuale pandemia sarà passata, né quindi sui riflessi che ne potrebbero derivare quanto al tipo di controllo giurisdizionale occorrente per garantire la legalità di una pubblica amministrazione che si immagina possa riconquistare il centro della scena. Sarei però sorpreso se d’improvviso cessasse l’abituale tendenza di pezzi delle nostre istituzioni (ma forse non è un problema solo italiano) a rivaleggiare tra loro, ciascuna gelosa delle proprie competenze ma desiderosa di appropriarsi in parte di quelle dell’altra. È un fenomeno che vediamo accadere nei rapporti tra governo centrale, regioni e altri enti locali; un fenomeno che alimenta la concorrenza tra polizia di Stato e carabinieri; che si è puntualmente riprodotto da quando sono entrate in scena nel nostro ordinamento le autorità amministrative indipendenti (le quali tutte ambiscono a svolgere funzioni quasi giurisdizionali ma, come nel caso di Consob e Banca d’Italia, contendono anche tra loro per definire le rispettive sfere di competenza); ed è quel che rischia di riprodursi, mutatis mutandis, anche a proposito del riparto di giurisdizione tra giudici ordinari e speciali. Con ben poca soddisfazione, temo, per gli utenti dei servizi interessati. Anche di questo mi pare varrebbe la pena di tener conto quando si discute di pluralismo o di unità delle giurisdizioni.

 

3. Ho cercato di spiegare per quali ragioni un modello di giurisdizione unitario mi pare preferibile al pluralismo delle giurisdizioni. Ma si tratta di un auspicio da collocare in una prospettiva di lungo periodo, giacché la sua realizzazione richiederebbe una modifica costituzionale che, nell’immediato, considero quanto meno assai improbabile per le forti opposizioni che incontrerebbe. 

E allora, ponendosi pragmaticamente in un’ottica nella quale, nonostante tutto, si voglia continuare a dare per scontato l’attuale assetto plurale delle giurisdizioni, trovo assai opportuno elaborare delle strategie (che, dal mio punto di vista, definirei di riduzione del danno) volte a meglio definire i rispettivi compiti e a favorire una più armonica coesistenza delle diverse giurisdizioni. 

Sotto questo aspetto lo scritto di Scoditti e Montedoro offre spunti di grande interesse, in almeno una parte dei quali mi sembra di avvertire l’eco di alcune proposte a suo tempo avanzate nel Memorandum sottoscritto il 15 maggio del 2017 dai vertici delle Corti superiori alla presenza del Capo dello Stato, che molte polemiche peraltro suscitò sia nel mondo accademico sia in quello giudiziario (soprattutto, a quel che mi consta, tra i magistrati della Corte di cassazione). Mi riferisco, in particolare, alle indicazioni concernenti il rafforzamento degli strumenti volti a favorire una cultura della giurisdizione comune per i magistrati operanti nei diversi plessi ed a quelle riguardanti l’ordinamento e il regime disciplinare della magistratura amministrativa (ma il discorso potrebbe estendersi anche alla magistratura contabile); regime che assai ragionevolmente potrebbe esser reso più simile a quello della magistratura ordinaria. Tutto quanto serve a favorire il dialogo tra magistrati ordinari ed amministrativi e a renderne più omogeneo lo status giuridico e la condizione d’indipendenza da altri poteri è utile, perché può costituire un efficace antidoto al diffuso e pernicioso virus della contrapposizione tra corporazioni e pezzi dello Stato cui prima ho fatto cenno.

Ma vorrei soprattutto soffermarmi sulla proposta di inserire, in alcuni casi, una quota di magistrati amministrativi (con esclusione di quelli di nomina governativa) nel collegio delle sezioni unite della Corte di cassazione. Non ci trovo nulla di scandaloso, e anzi mi sembra che questo potrebbe costituire una tappa ulteriore del reciproco avvicinamento dei diversi plessi giurisdizionali, idonea almeno in parte a controbilanciarne la tradizionale separatezza. Ho qualche perplessità, però, sul fatto che tale obiettivo sia conseguibile con legge ordinaria. Non sono sicuro che un travaso di magistrati da una giurisdizione all’altra si concili con la netta distinzione tra giudici ordinari e giudici speciali, così come è tracciata nell’attuale impianto costituzionale, né con l’espressa limitazione ai soli giudici ordinari delle norme sull’ordinamento giudiziario (art. 102, comma 1, Cost.) e con la previsione del terzo comma dell’art. 106 Cost., che consente l’immissione nella Corte di cassazione di professori universitari e avvocati con meriti insigni, ma lo fa in via chiaramente eccezionale, per ciò stesso inducendo a pensare che è esclusa ogni altra tipologia di innesto. 

Il punto più delicato è però un altro e riguarda il tipo di questioni per le quali si richiederebbe l’integrazione del collegio delle sezioni unite della Cassazione con magistrati provenienti dal Consiglio di Stato. Scoditti e Montedoro suggeriscono che dovrebbe trattarsi delle questioni di riparto di giurisdizione e di quelle in cui si ritenga ammissibile il ricorso avverso le sentenze del Consiglio di Stato. A me parrebbe che, per realizzare quella «osmosi di nomofilachie» auspicata dagli stessi Scoditti e Montedoro, e della quale v’è particolarmente bisogno per le ragioni che ho prima cercato di chiarire, una composizione delle sezioni unite della Corte di cassazione allargata alla partecipazione di giudici provenienti da plessi giurisdizionali diversi risulterebbe utile soprattutto nella trattazione delle principali questioni nelle quali la già accennata sovrapposizione di competenze giurisdizionali fa emergere la necessità di attenersi a principi di diritto omogenei. Penso ai diritti fondamentali, che non possono ormai più considerarsi estranei alla giurisdizione amministrativa ma che mal tollerano un trattamento differenziato a seconda che a occuparsene siano giudici ordinari o giudici speciali; ma penso anche ad altre questioni, quali quelle che, ad esempio, si possono porre in tema di valutazione di comportamento delle parti nella fase delle trattative precedenti l’instaurazione di rapporti contrattuali, di responsabilità civile e così via. Almeno con riguardo a tali questioni, che potrebbero di volta in volta essere concordemente individuate dai presidenti della Cassazione e del Consiglio di Stato (o della Corte dei conti, quando entri in gioco la sua giurisdizione), verrebbero così a realizzarsi orientamenti giurisprudenziali comuni dai quali i singoli collegi giudicanti dei diversi plessi giurisdizionali non dovrebbero potersi discostare se non prima di aver motivatamente sollecitato un eventuale mutamento di indirizzo, come già oggi avviene nei rapporti tra singole sezioni e sezioni unite della Corte di cassazione o adunanza plenaria del Consiglio di Stato o sezioni riunite della Corte dei conti. Questo consentirebbe di realizzare, almeno tendenzialmente, quel tanto di unità funzionale che il pluralismo istituzionale delle giurisdizioni consente. 

Non so quanto giovi inasprire i contrasti e chiamare la Corte di giustizia europea a fare da arbitro della partita, come recentemente è avvenuto, col rischio di alimentare l’ennesima “guerra delle corti” (mi riferisco, ovviamente, alla ben nota ordinanza n. 19598 del 2020 con cui le sezioni unite della Cassazione si sono rivolte ai giudici di Lussemburgo chiedendo loro sostanzialmente di definire in modo diverso da come fatto dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 6 del 2018, i confini entro i quali è consentito ricorrere per cassazione avverso i provvedimenti del Consiglio di Stato). 

Sforziamoci, piuttosto, di dar vita a una novella Aracne, che provi ancora una volta a tessere una tela ordinata e a riparare quella fatta a pezzi dalla furia di Atena.