Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Una ragionevolezza "a rime sciolte". Breve commento alla sentenza della Corte costituzionale n. 156 del 2020

di Enrico Contieri
giudice del tribunale di Torre Annunziata

Chiamata nuovamente a pronunciarsi sull'irragionevole esclusione della ricettazione di particolare tenuità dall'ambito applicativo della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, con la sentenza n. 156 del 2020 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. nella parte in cui non consente l’applicazione di tale istituto a tutti i reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva. La pronuncia rappresenta l’inevitabile conseguenza dell’ingiustificata inerzia del legislatore rispetto al monito rivoltogli nella pronuncia n. 207 del 2017, e al contempo una limpida testimonianza della sempre maggiore disponibilità, da parte del giudice delle leggi, a far ricorso al parametro della ragionevolezza nel sindacato sulle scelte di incriminazione, che viene questa volta impiegata pure in assenza di rime obbligate.

A distanza di tre anni dal proprio precedente arresto, con la sentenza n. 156 del 2020 la Corte costituzionale è tornata a pronunciarsi sul rapporto tra la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p. e la fattispecie di ricettazione di lieve entità, prevista dall’art. 648, comma 2, c.p.

Sollecitata dal Tribunale di Taranto, la Corte è giunta a conclusioni diverse rispetto a quelle della sentenza n. 207 del 2017 e, questa volta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 131-bis c.p. «nella parte in cui non consente l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto» non soltanto alla ricettazione attenuata, ma, ampliando e generalizzando i termini della questione prospettatale, a tutti i «reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva», per violazione dell’art. 3 Cost.

La pronuncia, al di là delle non secondarie questioni teoriche ad essa sottese, assume per il penalista un notevole interesse anche dal punto di vista pratico-applicativo, poiché ha ad oggetto una problematica particolarmente sentita e più volte ripropostasi nella comune prassi giudiziaria, nella quale sono quanto mai frequenti i casi di ricettazione di merci o comunque oggetti di modestissimo valore economico (nel caso di specie, alcune confezioni di rasoi e lamette da barba di provenienza furtiva), riconducibili alla fattispecie attenuata di cui all’art. 648, comma 2, c.p.: in tali casi, pur ove essi fossero caratterizzati, in concreto, da una scarsissima offensività, era infatti preclusa in radice l’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dal momento che il massimo edittale previsto per la fattispecie attenuata (sei anni di reclusione) è superiore al limite di cinque anni di pena detentiva edittale massima previsto dall’art. 131-bis, comma 1, c.p.; e ciò ad onta del giudizio di minimo disvalore penale che lo stesso legislatore ha espresso con riferimento alle meno gravi condotte di ricettazione attenuata, testimoniato dalla mancata previsione, nella fattispecie di cui all’art. 648, comma 2, c.p., di un minimo edittale di pena detentiva e dalla conseguente applicabilità del minimo assoluto di quindici giorni previsto per la reclusione dall’art. 23 c.p.

Non è un caso, invero, che la problematica dell’inapplicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto alla ricettazione di lieve entità era già stata sottoposta al vaglio del Giudice delle leggi dal Tribunale di Nola, che tuttavia aveva censurato l’art. 131-bis c.p. sotto un profilo parzialmente diverso

 In quell’occasione, infatti, oggetto del dubbio di legittimità costituzionale – per violazione dei principi di offensività del reato e di uguaglianza/ragionevolezza, alla luce della disparità di trattamento tra il delitto di ricettazione e numerosi altri delitti (non soltanto contro il patrimonio, ma anche contro l’amministrazione della giustizia, contro la pubblica amministrazione, etc.) ritenuti di maggiore allarme sociale e pur tuttavia non esclusi dall’ambito operativo della particolare tenuità – era stata la fissazione, da parte del legislatore, del limite edittale massimo di cinque anni di pena detentiva quale presupposto applicativo astratto della causa di non punibilità in questione, limite il cui innalzamento, richiesto con una pronuncia manipolativa alla Corte, avrebbe invece consentito di applicare tale causa di non punibilità al delitto di ricettazione di lieve entità.

In quell’occasione, con la citata sentenza n. 207 del 2017, la Corte aveva tuttavia dichiarato infondate le questioni, adducendo, da un lato, l’eterogeneità dei tertia comparationis evocati dal giudice a quo e dall’altro – soprattutto – la non manifesta irragionevolezza della previsione di quel limite, in quanto considerata riconducibile all’insindacabile margine di discrezionalità politica (e politico-criminale) spettante al legislatore.

Tuttavia, in quella decisione la Corte non aveva mancato di rilevare (cfr. punto 7 del Considerato in diritto), innanzitutto, l’anomalia rappresentata dall’amplissima cornice edittale prevista dall’art. 648, comma 2, c.p. per la ricettazione attenuata, e ciò sia alla luce «…dell’estensione dell’intervallo (sentenza n. 299 del 1992) e dell’ampia sovrapposizione con la cornice edittale della fattispecie non attenuata…», sia del fatto che «…mentre il massimo di sei anni, rispetto agli otto anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione particolarmente contenuta (meno di un terzo), al contrario il minimo di quindici giorni, rispetto ai due anni della fattispecie non attenuata, costituisce una diminuzione enorme».

Ma soprattutto, per quanto in questa sede maggiormente interessa, la Corte rilevò a chiare lettere la manifesta iniquità e irragionevolezza del meccanismo applicativo dell’art. 131-bis c.p. delineato dal legislatore del 2015, che da un lato non consentiva al giudice di applicare la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto proprio a reati, come appunto la ricettazione di lieve entità, che lo stesso legislatore, sanzionando con la pena edittale minima di quindici giorni di reclusione, ha evidentemente considerato suscettibili di assumere, in concreto, uno scarsissimo grado di offensività; e che, dall’altro, consentiva viceversa di applicarla a reati, come ad esempio la truffa o il furto, ritenuti, pure nelle loro più lievi forme di manifestazione, di ben maggiore gravità rispetto al primo, in quanto punibili con la pena minima di sei mesi di reclusione.

La Corte aveva, ancora, ipotizzato una soluzione tecnica a tale problema, alternativa rispetto a quella ipotizzata dal giudice a quo, ritenuta non percorribile, prospettando la possibilità (rectius, la necessità) di introdurre, accanto al già previsto limite edittale massimo oltre il quale l’offesa non può essere mai ritenuta di particolare tenuità, un limite edittale minimo sotto il quale, a prescindere dall’entità della pena massima comminata, l’offesa (e, con essa, il fatto) può invece essere sempre ritenuta (sussistendone, ovviamente, in concreto tutti i presupposti) di particolare tenuità.

Ritenne, al contempo, di non potere essa stessa porre rimedio a siffatta aporia sistematica e alla conseguente irragionevolezza nell’applicazione pratica dell’istituto, per l’assenza di rime obbligate, atteso l’ampio margine discrezionale nella individuazione di una siffatta soglia minima. Pertanto, la Corte aveva infine formulato apertis verbis un chiaro e preciso monito al legislatore, invitandolo vivamente a «farsi carico» di tale intervento correttivo, «…per evitare il protrarsi di trattamenti penali generalmente avvertiti come iniqui».

Com’è noto, però, il legislatore – come tanto e troppo spesso accade – è rimasto nel frattempo del tutto insensibile a quel monito, ed anzi, pure quando è intervenuto sulla disposizione dell’art. 131-bis c.p. con il decreto-legge 14 giugno 2019, n. 53 (c.d. "decreto sicurezza bis"), convertito nella legge 8 agosto 2019, n. 77, non ha recepito le indicazioni della Corte.

La problematica si è quindi inevitabilmente ben presto riproposta e, con ordinanza del 12 luglio 2019, è stata nuovamente sollevata, dal Tribunale di Taranto, questione di legittimità dell’art. 131-bis c.p., sempre sotto il profilo dell’inapplicabilità della causa di non punibilità ivi prevista alla ricettazione di lieve entità, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost., decisa con la sentenza in commento.

L’ordinanza di rimessione aveva invero questa volta censurato non già l’irragionevolezza della previsione, da parte dell’art. 131-bis, comma 1, c.p., del limite massimo di cinque anni di pena detentiva edittale massima, bensì l’effetto ‘pratico’ della fissazione di tale limite e, dunque, l’irragionevole esclusione della fattispecie di ricettazione di lieve entità dall’alveo applicativo di tale istituto.

In tale occasione, anche due dei tre tertia comparationis individuati dal giudice a quo erano stati proprio quegli specifici delitti (furto e truffa, cui è stato affiancato il danneggiamento) cui la stessa Corte, nel rilevare l’irragionevole esclusione della ricettazione attenuata dall’alveo applicativo della particolare tenuità del fatto, aveva fatto esplicito riferimento nella precedente pronuncia[1], giacché posti a tutela del medesimo bene giuridico – il patrimonio – tutelato dall’art. 648 c.p. e, in quanto punibili con pena detentiva massima non superiore a cinque anni, non sottratti all’ambito applicativo dell’art. 131-bis c.p., nonostante la previsione di una pena detentiva minima (sei mesi di reclusione) di ben dodici volte maggiore rispetto a quella (quindici giorni di reclusione) comminata per la ricettazione attenuata.

E ciò, secondo il giudice a quo, oltre a comportare una palese violazione del principio di uguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., si sarebbe inevitabilmente tradotto in una frustrazione della finalità rieducativa della pena, costituzionalmente sancita dall’art. 27, comma 3, Cost.

La sentenza in commento, che con una motivazione piuttosto stringata ha pienamente accolto la questione prospettata dal rimettente con riferimento all’art. 3 Cost., dichiarando assorbita, invece, quella relativa alla violazione dell’art. 27, comma 3, Cost., si pone pienamente nel solco della pronuncia del 2017, di cui accoglie – e da cui, di fatto, mutua – in larga parte l’impianto motivazionale.

Dopo aver brevemente ricordato i più significativi approdi interpretativi della giurisprudenza di legittimità circa la ratio, la natura giuridica e i presupposti applicativi dell’istituto della particolare tenuità del fatto, nonché i propri precedenti arresti, la Corte si limita in buona sostanza a rilevare (cfr. punti 3.5.4 e ss. del Considerato in diritto) che «il legislatore non ha dato seguito a[l]…monito» contenuto nella sentenza n. 207 del 2017; osserva, quindi, che, se in quell’occasione essa si era doverosamente «astenuta[si] dal compiere siffatto intervento additivo, primariamente spettante alla discrezionalità legislativa» ed aveva di conseguenza esplicitamente invitato «…il legislatore a farsene carico…», questa volta un proprio intervento manipolatorio appare invece obbligato e non più procrastinabile, dal momento che «proprio la circostanza che il legislatore non abbia sanato l’evidente scostamento della disposizione censurata dai parametri costituzionali… impone oggi… di intervenire con il diverso strumento della declaratoria di illegittimità costituzionale».

Più specificamente, richiamando la propria precedente decisione, la Corte limpidamente ribadisce, con riferimento alla comminatoria di cui all’art. 648, comma 2, c.p. – ma con un rilievo che viene espressamente «formulato in termini generali» – che «l’assoluta mitezza del minimo edittale rispecchia una valutazione legislativa di scarsa offensività della ricettazione attenuata» e che, dunque, «l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che egli prevede possano rientrare nella sfera applicativa della norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività»;  d’altronde, ricorda ancora la Corte che «nella giurisprudenza costituzionale sul principio di proporzionalità della sanzione penale, il minimo assoluto di quindici giorni di reclusione ha identificato il punto di caduta di fattispecie delittuose talora espressive di una modesta offensività (sentenza n. 341 del 1994)»; poiché, dunque, la previsione di un così basso limite edittale di pena «richiama per necessità logica l’eventualità applicativa dell’esimente di particolare tenuità del fatto», risulta di conseguenza «manifestamente irragionevole l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni»» proprio a tale tipologia di fattispecie criminose, considerate dallo stesso legislatore suscettibili di assumere, in concreto, uno scarsissimo rilievo penale.

Tanto premesso, la Corte, ponendosi ancora nel solco delle osservazioni svolte nella pronuncia del 2017, appare pienamente consapevole del fatto che diverse potrebbero essere, in astratto, le soluzioni tecniche prospettabili al fine di sanare l’irragionevolezza del sistema e che la stessa individuazione della soglia di pena minima sotto la quale – a prescindere dal massimo edittale – il fatto può essere sempre ritenuto di particolare tenuità, rappresenta anch’essa non già una soluzione c.d. "a rime obbligate", bensì sottende – per usare un’espressione spesso impiegata dalla Corte – «un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti»[2] e che, ammettendo diverse possibili scelte, tutte egualmente conformi a Costituzione, era stato in un primo momento riservato al legislatore.

Rileva, infatti, la Corte che «il carattere generale dell’esimente di particolare tenuità di cui all’art. 131-bis cod. pen. impedisce… di rinvenire nel sistema un ordine di grandezza che possa essere assunto a minimo edittale di pena detentiva sotto il quale l’esimente stessa potrebbe applicarsi comunque, a prescindere cioè dal massimo edittale»; a tal fine, osserva ancora – con parole, invero, alquanto sibilline – neppure può essere d’ausilio la pena minima prevista per i tertia comparationis (furto e truffa) evocati dal giudice a quo, poiché essa «non è generalizzabile, neppure all’interno della categoria dei reati contro il patrimonio, ove solo si consideri la poliedricità del delitto di ricettazione».

Tuttavia, dichiarandosi ancora una volta costretta ad intervenire, la Corte ritiene di poterlo fare anche in assenza di rime obbligate (espressione, peraltro, forse volutamente mai contenuta nella sentenza), dovendosi porre fine al protrarsi di una così patente irragionevolezza. Ferma restando, dunque, la possibilità per il futuro legislatore di intervenire a fissare una soglia diversa e più alta, la Corte ritiene, allo stato (e così adottando la soluzione più restrittiva), di assumere a parametro proprio la pena minima assoluta, di quindici giorni, prevista per la reclusione dall’art. 23 c.p., e dunque di consentire, con un intervento additivo, l’applicazione della causa di non punibilità in questione a tutti i reati per i quali il legislatore non ha previsto un limite edittale minimo di pena detentiva.

Limitandoci, a questo punto, a qualche considerazione a primissima lettura, può innanzitutto rilevarsi che la pronuncia in commento si pone pienamente nel solco tracciato dal precedente arresto del 2017, in cui la Corte, pur rigettando la questione prospettatale, aveva di fatto pienamente condiviso, nella sostanza, le considerazioni del rimettente circa le irragionevoli e inique conseguenze applicative determinate dal sistema vigente e, con esse, il disagio non di rado provato dalla giurisprudenza di merito nel dover irrogare pene, sia pure di modesta entità, a fronte di fatti, come la ricettazione di qualche rasoio da barba rubato o – come nel caso del 2017 – di qualche astuccio contraffatto, di scarsissimo rilievo penale e bassissimo allarme sociale, eppure così frequenti nella prassi giudiziaria.

Tale sentenza appare invero un’inevitabile (e, oltretutto, annunciata) conseguenza dell’ingiustificata inerzia del legislatore rispetto al monito rivoltogli nel precedente arresto del 2017, in cui era stata non soltanto apertamente rilevata l’anomalia sistematica determinata dall’unicità del presupposto applicativo astratto del limite edittale di pena detentiva di cinque anni, ma anche suggerita una possibile soluzione tecnica al fine di porre rimedio all’aprioristica ed irragionevole esclusione proprio di tale categoria di reati.

Al contempo, come anticipato, le ricadute pratico-applicative della decisione in commento appaiono di non secondario rilievo.

Esse, peraltro, con ogni probabilità non riguarderanno tanto le decisioni future, poiché il novero dei reati cui, per effetto del dictum della Corte, risulterà applicabile la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p., non risulta piuttosto nutrito, sicché gran parte delle ipotesi in cui, in concreto, tale questione si prospetterà, sarà proprio quella di ricettazione attenuata di cui all’art. 648, comma 2, c.p.; le conseguenze più rilevanti di tale pronuncia riguarderanno, piuttosto, soprattutto le decisioni passate e già divenute irrevocabili, rispetto alle quali la sentenza in commento determinerà probabilmente gli effetti pratici più decisivi, sollevando inevitabilmente problemi applicativi e dubbi interpretativi che la giurisprudenza, innanzitutto di merito – ma con ogni probabilità anche di legittimità – sarà chiamata a sciogliere.

Tanto in dottrina come in giurisprudenza è infatti ormai pacifico l’inquadramento dell’istituto della particolare tenuità del fatto nella categoria sistematica delle cause di non punibilità e nell’alveo concettuale delle valutazioni attinenti al trattamento sanzionatorio (reso oltretutto evidente dai suoi presupposti applicativi concreti, dalla relativa collocazione sistematica e dal richiamo esplicito, contenuto nell’art. 131-bis, comma 1, c.p., all’art. 133 c.p.)[3]. Ciò comporta che, per effetto della pronuncia in esame (come è avvenuto, da ultimo, all’indomani della sentenza della Corte costituzionale n. 40 del 2019), non sembra potersi revocare in dubbio la possibilità, per coloro che sono stati condannati con sentenza irrevocabile per un reato per il quale non sia previsto un minimo edittale di pena detentiva e rispetto al quale l’applicabilità della particolare tenuità del fatto era aprioristicamente esclusa da una comminatoria edittale superiore a cinque anni, di proporre – purché la pena non sia stata integralmente eseguita – incidente di esecuzione al fine di chiedere al giudice dell’esecuzione, appunto, una rideterminazione del trattamento sanzionatorio nel senso del riconoscimento della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto.

Come, infatti, hanno magistralmente e definitivamente chiarito le Sezioni Unite Gatto (Cass. pen., Sez. Un., sentenza 14 ottobre 2014, n. 42858), «quando, successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna, interviene la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest'ultimo non è stato interamente eseguito, il giudice dell'esecuzione deve rideterminare la pena in favore del condannato pur se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato, potendo egli avvalersi di penetranti poteri di accertamento e di valutazione, fermi restando i limiti fissati dalla pronuncia di cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali, o comunque derivanti dai principi in materia di successione di leggi penali nel tempo, che inibiscono l'applicazione di norme più favorevoli eventualmente "medio tempore" approvate dal legislatore»; e ciò poiché l’art. 30, comma 4, della legge n. 87/1953 – da ritenersi tuttora vigente e non implicitamente abrogato dall’art. 673 c.p.p. – deve ritenersi applicabile a tutte le norme penali sostanziali, e non soltanto a quelle incriminatrici.

Ma è, probabilmente, soprattutto sotto il profilo del metodo, più che dell’immediato contenuto precettivo, che la pronuncia in commento assume un particolare interesse, e su cui pare opportuno spendere qualche, sia pur estremamente sintetica, considerazione conclusiva.

Essa appare, infatti, un’ulteriore tappa di quel percorso, intrapreso dalla Corte costituzionale soprattutto negli ultimi anni, di (per utilizzare una felice espressione di qualche decennio fa) ‘disgelo costituzionale’ anche in materia penale, nella quale, ben più che in altri settori della legislazione, l’atteggiamento del giudice delle leggi – salve alcune eccezioni – è stato a lungo improntato ad un severo e rigoroso self-restraint

E soprattutto, dal punto di vista più strettamente tecnico, la sentenza in questione rappresenta un’ulteriore e significativa testimonianza del crescente impiego da parte della Corte, in tale percorso di maggiore disponibilità a sindacare il "contenuto delle leggi penali", del parametro della ragionevolezza, sia pure caratterizzato da una fisionomia ancora in parte fluida, in bilico tra una innovativa accezione puramente intrinseca (e talvolta declinata addirittura in termini di proporzionalità) e una, più tradizionale, estrinseca[4]; essa, oltretutto, come in questo caso appare sempre più affrancata, se non – come pure talvolta è avvenuto – dal consueto e perciò rassicurante schema triadico (e, dunque, dalla necessaria individuazione, o almeno ‘evocazione’, di un tertium comparationis), quantomeno dalla rigorosa necessità di una rima obbligata nell’individuazione della regola, costituzionalmente compatibile, da sostituire a quella ritenuta irragionevole.

Sotto tale aspetto, infatti, la sentenza in commento appare decisamente emblematica di tale percorso, poiché in essa il parametro di ragionevolezza sembra essere stato applicato in modo – per dir così – ibrido; infatti, se nel sindacare la ragionevolezza della soluzione legislativa adottata dal legislatore il giudizio della Corte non risulta definitivamente affrancato dalla necessaria prospettazione di un termine di paragone (id est, di un caso, ritenuto omogeneo a quello censurato, in cui il legislatore ha adottato una diversa soluzione) [5], al contrario, una volta ritenuta l’irragionevolezza della disciplina legislativa, si prescinde, poi, nella determinazione della soluzione da adottare con la pronuncia additiva (o comunque in altro modo manipolativa), dalla necessaria presenza, nella disciplina dettata per il caso analogo o comunque nel sistema complessivo, di una specifica e definita regola che possa essere recepita automaticamente, senza alcun margine di discrezionalità ‘creativa’. 

Ed infatti la Corte, come sopra si è avuto modo di osservare, pur accogliendo positivamente l’indicazione, effettuata dal giudice a quo, dei delitti di truffa, danneggiamento e furto quali tertia comparationis rispetto a quello di ricettazione di lieve entità, innanzitutto non si limita ad estendere la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. soltanto a tale ultimo reato, ma – ampliando l’angolo visuale della questione – rende applicabile quest’ultima ad una più ampia categoria di reati, rispetto ai quali potrebbe porsi un’analoga questione problematica, individuata facendo ricorso a criteri ampiamente discrezionali.

Nel far ciò, a ben vedere, la Corte finisce tuttavia per adottare essa stessa una soluzione tecnica del tutto innovativa rispetto al sistema vigente, finalizzata a porre rimedio definitivo al generale problema prospettatole dal giudice a quo (e non già soltanto alla questione postale con specifico riferimento all’art. 648, comma 2, c.p.); e tale soluzione tecnica si traduce, in realtà, nell’introduzione di un nuovo presupposto applicativo della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, alternativo rispetto a quello previsto dal legislatore: ed è proprio tale soluzione che appare ampiamente discrezionale e di fatto in larga parte creativa, in quanto, se certamente risulta costituzionalmente possibile, altrettanto certamente non appare costituzionalmente obbligata, come peraltro già rilevato dalla stessa Corte nella pronuncia n. 207 del 2017.

Se si tratti di un caso isolato, di una semplice tendenza, o addirittura dell’inizio di una nuova stagione del giudizio di costituzionalità, sarà soltanto il tempo a chiarirlo. È però certo che la pronuncia in commento rappresenta l’ennesima riprova del fatto che l’intervento della Corte in materia penale, soprattutto in tema di trattamento sanzionatorio, appare ispirato ad un’ottica sempre meno rigorosamente tecnico-formale (se non addirittura tecnicistica) e al contrario sempre più marcatamente sostanzialistica, di tipo rimediale o, se si preferisce, consapevolmente ben più attenta alla necessità di individuare una soluzione ad un problema, piuttosto che alla rigorosità del metodo per raggiungerla.

E ciò sembra essere dovuto ad una sempre più spiccata – per dir così – sensibilità penalistica della Corte, e cioè a quella profonda e dolorosa consapevolezza della peculiarità della materia penale rispetto agli altri settori dell’ordinamento, dovuta alla gravità degli strumenti – le pene – di cui dispone; in altri termini, a quella cattiva coscienza, come è stata a ragione definita, che dovrebbe costantemente guidare il giurista (e dunque anche il giudice) allorché egli si accinga a trattare di reati e pene. 

 
[1] In quell’occasione la Corte costituzionale aveva infatti rilevato che «…se si fa riferimento alla pena minima di quindici giorni di reclusione, prevista per la ricettazione di particolare tenuità, non è difficile immaginare casi concreti in cui rispetto a tale fattispecie potrebbe utilmente operare la causa di non punibilità (impedita dalla comminatoria di sei anni), specie se si considera che, invece, per reati (come, ad esempio, il furto o la truffa) che di tale causa consentono l’applicazione, è prevista la pena minima, non particolarmente lieve, di sei mesi di reclusione. Pena che, secondo la valutazione del legislatore, dovrebbe essere indicativa di fatti di ben maggiore gravità».

[2] Ex plurimis, cfr. Corte costituzionale, sentenze n. 8 del 1996, n. 140 del 2009, n. 207 del 2017.

[3] Cfr., tra le altre, soprattutto Cass. pen., Sez. Un., sentenza 25 febbraio 2016, n. 13681 e sentenza 25 febbraio 2016, n. 13682.

[4] Per un breve ma completo excursus sulla giurisprudenza della Corte costituzionale (e le sue, non sempre prevedibili, oscillazioni) sul parametro della ragionevolezza in materia penale cfr., ex plurimis, la recente indagine di Manes in Manes, Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodo, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019, p. 344 e ss.; si tratta, ovviamente, di un tema sconfinato, battuto da sempre da una letteratura letteralmente sterminata, che esula dalle finalità e dai limiti di queste brevi considerazioni. Sul principio di proporzionalità appare, peraltro, particolarmente significativo e istruttivo, soprattutto in ordine alle potenzialità, in buona parte ancora inespresse, del principio di proporzionalità quale parametro critico di valutazione circa le scelte di criminalizzazione il recente e approfondito contributo di Recchia, Il principio di proporzionalità nel diritto penale. Scelte di criminalizzazione e ingerenza nei diritti fondamentali, Torino, 2020, passim e, con specifico riguardo al giudizio di costituzionalità, soprattutto p. 320 e ss.

[5] Nella sentenza n. 207 del 2017 la Corte "dà per scontata" la rigorosa necessità di un tertium comparationis nel giudizio di ragionevolezza, spingendosi addirittura ad affermare che «…anche in presenza di norme manifestamente arbitrarie o irragionevoli, solo l’indicazione di un tertium comparationis idoneo, o comunque di specifici cogenti punti di riferimento, può legittimare l’intervento della Corte in materia penale, poiché non spetta ad essa assumere autonome determinazioni in sostituzione delle valutazioni riservate al legislatore».

08/09/2020
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