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“Sei libera ed eguale a patto che gli altri lo accettino”. Alcune riflessioni sul caso giudiziario di Cloe Bianco

La storia di Cloe Bianco è divenuta un tema centrale nel dibattito pubblico e collettivo di questi ultimi giorni. Quando vicende personali di questa natura entrano a far parte del discorso pubblico, e quindi anche della coscienza collettiva, può essere opportuno riflettere, secondo la prospettiva che a ognuno compete per background professionale o personale, su quella “porzione di complessità” della quale si possa dire con cognizione di causa, partecipando così alla rielaborazione collettiva del fatto. Ciò può aiutare la comunità, anche nei suoi diversi sottogruppi, a capire cosa è avvenuto e a elaborare argomenti e modalità di comprensione per accrescere e sviluppare la propria valutazione informata degli eventi. Come giuristi, riteniamo quindi di proporre le nostre considerazioni in merito alla vicenda giudiziaria che ha riguardato la prof.ssa  Bianco e la sanzione disciplinare che ha ricevuto dopo essersi presentata, per la prima volta, presso l’istituto scolastico dove insegnava, esprimendo, anche con il proprio aspetto, il genere (femminile) al quale sentiva di appartenere.

Il caso della prof.ssa Cloe Bianco ci consente una volta di più di instaurare una riflessione giuridica (a nostro avviso sempre più necessaria) sull’approccio, forense e giurisdizionale, alla casistica che, nei diversi settori dell’ordinamento, interessa il tema dei diritti legati alla sfera del sesso, dell’identità ed espressione di genere e della non discriminazione.  

Una riflessione che vogliamo focalizzare sull’aspetto giuridico della questione, prendendo le mosse dalla sentenza del Tribunale di Venezia, Sezione Lavoro (pubblicata in allegato), n. 572/2016 del 13/10/2016, con la quale è stato respinto il ricorso interposto dalla docente per l’annullamento della sanzione disciplinare di tre giorni di sospensione, inflittale dal M.I.U.R. il 18.12.2015 perché ella, dopo avere avvisato, il 25.11.2015, il dirigente scolastico del fatto che a partire dal 27.11.2015 si sarebbe presentata a scuola in abiti femminili, aveva poi effettivamente dato seguito a tale comunicazione,  svolgendo, nel resto, normalmente il proprio lavoro di insegnante nelle varie classi, con l’accortezza, però, di dedicare la prima parte delle lezioni a spiegare agli studenti le ragioni della propria scelta e a rispondere alle loro domande. 

La sanzione disciplinare si fondava sulle seguenti contestazioni:

I) inosservanza dell’obbligo di mantenere in ogni aspetto un atteggiamento improntato al decoro della funzione docente (anche e a partire dall’abbigliamento);

II) inadeguatezza al ruolo educativo, non avendo valutato la necessità di una preventiva e adeguata informazione e preparazione dell’ambiente scolastico (impatto improvviso, traumatizzante per studenti minorenni, e per la comunità scolastica);

III) contrarietà ai doveri di servizio, sotto il profilo dell’insubordinazione alla decisione del dirigente di rinviare ad un momento successivo le decisioni personali dell’insegnante, in modo da consentire al dirigente la gestione in modo adeguato della situazione;

IV) imposizione agli studenti del mutamento di nome (da Luca a Cloe), non avendo la facoltà di mutare i dati, se non per effetto di specifico provvedimento.

La prof.ssa  Bianco ha quindi impugnato la sanzione disciplinare, denunciandone la natura discriminatoria in quanto, sosteneva, che non vi era stato da parte sua alcun atto lesivo del decoro né della funzione educativa dell’insegnante, bensì una legittima scelta personale, essendosi limitata a presentarsi a scuola ‒ dopo avere peraltro avvisato il dirigente scolastico ‒ con un aspetto corrispondente alla propria identità di genere.

La tesi accolta dal Tribunale del lavoro è invece stata quella dell’Amministrazione scolastica; in particolare è stato ritenuto che la scelta dell’insegnante di limitarsi ad avvisare il proprio dirigente, senza ritenere di dover concordare modi e tempi del proprio coming-out e riservando invece questo aspetto alla propria sfera di autodeterminazione, avrebbe, in sé e per sé, integrato un inadempimento agli obblighi contrattuali nei confronti dell’Amministrazione, e al contempo una condotta non conforme al dovere di responsabilità e correttezza proprio della funzione docente, se non tale da pregiudicare il regolare funzionamento della scuola.

La sentenza richiama, del tutto genericamente, il (solo) diritto della persona alla propria identità di genere, come riconosciuto anche «da fonti normative soprannazionali, citate dalla ricorrente, e nemmeno contestata, ovviamente, dalla P.A.», senza però dare atto del rango costituzionale di tale diritto e senza citare, né esplicare, le varie fonti normative (non solo nazionali, come si vedrà meglio subito oltre) che lo hanno riconosciuto e attuato. Nella sentenza manca inoltre ogni riferimento al diritto a non essere discriminati in ragione della propria identità di genere.

L’omessa tematizzazione del diritto all’identità di genere e, soprattutto, del diritto a non essere discriminati in ragione della propria identità di genere, fa da pendant con l’affermazione secondo la quale il diritto all’identità di genere non potrebbe essere concepito come un diritto “indefettibile” alla propria realizzazione personale,  e non sarebbe quindi suscettibile di una rivendicazione né di una attuazione immediata (nel senso letterale di “non mediata”). E, soprattutto, non sarebbe un diritto meritevole di protezione in chiave antidiscriminatoria, proprio quando esso è manifestato all’esterno. Una prospettazione, questa, che è invero resa possibile, nella motivazione, solo in virtù dell’assoluta assenza di considerazione, come detto, delle fonti che disciplinano il diritto all’identità di genere e il diritto a non essere discriminati per tale fattore e dell’elaborazione giurisprudenziale che ne ha chiariti il contenuto e l’operatività.           

Vediamo allora di fare un po’ di chiarezza, partendo proprio dal diritto dell’Unione Europea che ha particolare rilievo nel caso, trattandosi di dover analizzare la legittimità di una sanzione disciplinare e quindi di considerare l’operatività del divieto di discriminazione in ragione del genere in ambito lavorativo.           

È grazie all’elaborazione della Corte di giustizia in riferimento alle disposizioni della Direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, poi sostituita dalla Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, che, da oltre vent’anni, il  divieto delle discriminazioni basate sull’identità di genere è ricompreso nell’alveo del divieto di discriminazione basate sul sesso. È  con la storica sentenza P.,  del 30.4.1996 in causa C-13/94, che la Corte ha affermato, riprendendo l’argomentazione dell’AG Tesauro[1], che «le discriminazioni [ai danni delle persone transgenere] si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’ interessato. Così, una persona, se licenziata in quanto ha l’intenzione di subire o ha subito un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di detta operazione. Il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a porre in non cale, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare». 

P. fissa un punto chiave della tutela contro le discriminazioni che possono subire le persone transgenere, ovvero afferma che il diritto le protegge nel corso del loro percorso di transizione. Questo in ragione del fatto che la tutela antidiscriminatoria muove sempre dall’osservazione della realtà e quindi non può omettere di considerare che se il diritto all’identità di genere è per alcuni e alcune di noi un percorso, è già sulla strada che essa potrà incontrare discriminazioni ed è quindi su quella strada che l’ordinamento deve proteggerla. 

La centralità di questa prospettiva è tanto rilevante nell’elaborazione della Corte di giustizia che le consente di superare anche la divisione di competenze tra gli Stati e ‒ quella che allora era ‒ la Comunità. Così la circostanza che la materia dello stato civile rientri tra le competenze degli Stati Membri i quali, in violazione della CEDU (Corte Edu, Goodwin, 11.7.2002), non riconoscono anagraficamente il cambio di sesso di una persona e le impediscono di contrarre matrimonio, non impedisce alla Corte di giustizia di affermare che il diniego di una pensione di reversibilità rientrante nella nozione di retribuzione a una persona che non è riconosciuta del sesso opposto a quello del compagno che intende sposare realizza una discriminazione in ragione del sesso incompatibile con le prescrizioni di cui all’art. 141 CE (KB, C-117/01 del 7.1.2004)[2]

È quindi la persona, nel momento in cui esercita il proprio diritto all’identità personale (tutelato dall’art. 2 Cost. e 8 CEDU, cfr. Cassazione prima civile, 15138/2015 e Corte Cost. 221/2015, a prescindere dagli interventi chirurgici a cui ha deciso o deciderà di sottoporsi) che la tutela antidiscriminatoria pone al centro, perché è solo ponendo essa al centro che si può contrastare la discriminazione strutturale che la società costruisce intorno alla sua diversità.

Una prima critica che si deve muovere alla decisione in commento è quella di non aver considerato che è nella fase in cui la persona in transizione mostra il proprio cambiamento all’esterno che essa diventa più vulnerabile alla “categorizzazione” e alla reazione, consapevole o meno, violenta o meno, di chi la discrimina. La sentenza non considera affatto che, ben prima di attivare la procedura giudiziale di rettificazione di sesso ai sensi della L. n. 164 del 1982, è frequente che la persona affronti il cd. real-life test, un periodo in cui sperimenta la vita nel genere in cui si identifica[3]. Negare che in quel periodo le persone transgenere siano più esposte alla discriminazione che può sorgere dalla reazione al “cambiamento” da parte della comunità, significa ignorare la realtà e quindi ignorare come funziona la tutela antidiscriminatoria e svuotarla di significato. 

A questa iniziale inversione dei presupposti della tutela segue il resto. In un ribaltamento di prospettiva, non è più la persona discriminata al centro dell’interesse (del dovere) dell’ordinamento ad approntare la tutela, ma è l’accettazione della comunità della sua decisione di vivere liberamente senza nascondersi, e quindi di autodeterminarsi, a dover essere tutelata. 

La sentenza pare quindi quasi voler “proceduralizzare”, nel senso di imporre regole e obblighi, un percorso che attiene alla sfera personale e alla rielaborazione individuale, e che è costruito in molti casi con il supporto di figure specialistiche (che non stabiliscono, come invece fa il diritto, cosa è giusto o sbagliato ma sostengono la persona nella comprensione di sé). Così si finisce per attribuire al diritto una valutazione che non gli è propria se si accetta una valutazione giuridica fondata su quello che è ritenuto “di buon senso” od “opportuno”. E da chi?    

Non abbiamo ancora detto una cosa importante. Il vaglio che è chiamato a operare il giudice sull’impugnazione di una sanzione disciplinare non è tanto o solo quello di legittimità della condotta del lavoratore/della lavoratrice o dell’esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, quanto quello propriamente attinente alla relazione tra la prima e il secondo. Crediamo che molti e molte di noi potrebbero avere opinioni differenti su come sarebbe opportuno comportarsi in un caso come quello della prof.ssa Bianco. Io, al suo posto, come avrei fatto? Ma la domanda a cui dobbiamo rispondere è fortunatamente molto più semplice. È legittimo sanzionare disciplinarmente tale condotta? 

Chi scrive ritiene che il caso di specie non debba essere confuso con un caso di bilanciamento tra contrapposti diritti. Perché non c’è dubbio che quando si esercita un diritto si incide, condizionandola, sulla realtà circostante, e quindi anche sul vissuto degli altri; ma non riusciamo nel caso di specie a individuare, nemmeno in capo agli studenti come diremo più avanti, un contro-diritto, o un contro-interesse, con il quale la condotta della prof.ssa Bianco andasse bilanciata.

Eppure, mentre da un lato si afferma, nella decisione, che non è in discussione il diritto all’identità di genere, dall’altro lato si fa propria la contestazione disciplinare che contesta la richiesta (che in motivazione diventa “la pretesa”) della prof. Bianco di farsi chiamare con il “nuovo” nome pur non avendo avviato il percorso giudiziale di rettificazione delle proprie generalità. 

In questo modo, però, tornano a invertirsi i presupposti giuridici e i rispettivi soggetti di riferimento: non è stata la prof.ssa Bianco ad avanzare alcuna “pretesa” nei confronti dell’Amministrazione, ma è stata l’Amministrazione a esercitare il potere disciplinare nei suoi confronti. Da tempo la contrattazione collettiva e le buone prassi nel settore privato[4] e, di recente, anche la contrattazione collettiva per i/le dipendenti del comparto “Funzioni centrali”[5], così come numerosi atenei[6] e istituti di istruzione secondaria, hanno introdotto la cd. carriera/identità alias, ovvero la possibilità per le persone transgenere di essere identificate sul luogo di lavoro - e gli/le studenti nelle scuole - utilizzando il genere che esse sentono e manifestano, e anche utilizzare il nome che esse indicano come a loro rispondente, senza che ciò trascenda il piano relazionale o incida sulla loro registrazione, per ogni uso che la richieda, con le generalità correnti ed effettive.  

La sentenza in commento fa propria la valutazione dell’ispettore del Ministero intervenuto dopo gli accadimenti, che aveva “raccolto dichiarazioni di studenti e docenti che gli manifestavano grande sconcerto, disagio, stupore per l’accaduto”. Assumiamo, con qualche riserva, che questa testimonianza e la relazione prodotta dall’ispettore possano ritenersi una prova sufficiente e adeguata nel processo del lavoro, e soprattutto nel processo antidiscriminatorio. Assumiamo pure, sempre con qualche riserva e quindi ignorando gli ampi poteri istruttori d’ufficio riconosciuti al giudice in tali procedimenti, che questa sia risultata, anche sulla base dell’allegazioni delle parti, la prova raggiunta all’esito dell’istruttoria. Resta comunque la domanda se lo “stupore”, il “disagio” e lo “sconcerto” di adulti e studenti (quanti? altri non avevano ritenuto invece del tutto legittimo e anzi coraggioso il comportamento dell’insegnante e le modalità con cui aveva comunicato la sua scelta?) impreparati ad accettare una “legittima scelta identitaria”, possa determinare il colpevole venire meno da parte dell’insegnante al “dovere di evitare condotte di caduta di stima e di rispetto da parte degli alunni”, idonee a mettere “in difficoltà i colleghi, destando qualche allarme nei genitori”. Senza distinguere tra la comunità degli studenti e quella adulti (su cui torneremo a breve), la sentenza avalla la tesi che la manifestazione di sé – che è il nucleo protetto dalla tutela antidiscriminatoria, in quanto «la discriminazione non è solo un problema di eguaglianza violata, ma di libertà violata»[7] ‒ debba dipendere dall’accettazione da parte la comunità in cui ci si muove. 

Del tutto opposta, però, ci pare l’impostazione che deriva dall’elaborazione delle Corti nazionali ed europee. Nella sentenza Identoba and others v. Georgia, 12 maggio 2015, per esempio, la Corte Edu ha condannato lo Stato georgiano dopo che era stato impedito a un gruppo di dimostranti di manifestare in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia nel 2012, a causa di un gruppo di oppositori che faceva da catena umana e li circondava, e senza che la polizia, che pure aveva il compito di scortare i manifestanti, fosse intervenuta per fermare le aggressioni. Nella decisione la Corte affronta proprio il problema attinente alla difficoltà “ricettiva” di un particolare contesto sociale nei confronti della comunità l.g.b.t., e afferma espressamente che «le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere del rischio di tensione associato con la manifestazione. Esse avevano quindi l’obbligo di usare ogni mezzo possibile, per esempio fare annunci pubblici prima della manifestazione, per promuovere, senza ambiguità, un clima conciliatorio…e al tempo stesso di avvisare potenziali trasgressori delle sanzioni applicabili» (§ 99, traduzione di chi scrive). 

Anche la Corte costituzionale italiana (con l’ordinanza 185/2017) ha dichiarato manifestamente infondata  la questione sollevata dal giudice remittente, secondo il quale  la nuova interpretazione, già costituzionalmente avallata nel 2015, della legge n. 164 del 1982 (in materia di rettificazione dei dati sessuali), nel senso della non necessità dell’intervento chirurgico normo-conformatore, «finirebbe per prevalere sul diritto della gran parte dei consociati a conservare «il pieno duopolio uomo/donna», rilevando che «la denunciata imposizione di un onere di adeguamento da parte della collettività non costituisce affatto una violazione dei doveri inderogabili di solidarietà, ma anzi ne riafferma la perdurante e generale valenza, la quale si manifesta proprio nell’accettazione e nella tutela di situazioni di diversità, anche «minoritarie ed anomale» (sentenza n. 161 del 1985)».  

Oltretutto, l’argomento del “turbamento” sociale di fronte alla visibilità delle persone l.g.b.t.+, quale argomento di cultural defense, si presta anche a pericolose degenerazioni, suscettibili di esporre a rischio non solo l’eguaglianza e la libertà ma anche la loro incolumità personale. Basti pensare che nel diritto penale statunitense si parla di gay o trans panic defense quando l’autore di violenze e omicidi, commessi ai danni di persone l.g.b.t.+, afferma di aver agito in uno stato di temporanea infermità mentale determinata dal sentimento di paura e repulsione di fronte ad avances affettive e sessuali da parte di persone omosessuali o trans. 

Se dunque il disagio, lo sconcerto e lo stupore di colleghi e genitori non costituiscono, così come abbiamo visto, un’argomentazione giuridica ricevibile per legittimare un provvedimento disciplinare ‒ sussistendo, al contrario, un onere, riconosciuto anche dalla giurisprudenza costituzionale interna, della società di adeguarsi alla manifestazione del sé e dell’identità personale del singolo, come modalità attuativa dei doveri inderogabili di solidarietà sociale sanciti all’articolo 2 ‒  analoga conclusione dovrebbe valere per gli studenti, con tutto che nel caso di specie si trattava di un istituto scolastico superiore. 

Senza aver dato corso a un’istruttoria approfondita, la sentenza si limita alla mera acquiescenza alla valutazione dell’Amministrazione secondo la quale: i) tali esternazioni abbiano una valenza meramente negativa (quando invece esse, ci pare, avrebbero dovuto dall’istituzione scolastica  essere approfondite  al fine di decifrarne e comprenderne le ragioni); ii) di esse possa essere responsabile la docente in quanto sono seguite alla sua condotta; e iii) giustifichino quindi l’esercizio del potere disciplinare. 

Riteniamo che sia anche compito della giurisdizione, in particolare nella sua funzione contro-maggioritaria quando si tratta di discriminazione, promuovere una cultura dell’eguaglianza e dell’accoglienza della diversità, mentre riteniamo profondamente contrario alla ratio della stessa normativa in materia avallare, anche indirettamente, l’argomento che la non comprensione o l’assenza di strumenti per comprendere quella diversità siano motivi validi per sanzionare la dipendente che la esprime.

Come si saranno sentiti gli studenti e le studentesse che in età adolescenziale magari iniziavano a interrogarsi sulla loro identità di genere e sul loro orientamento sessuale di fronte al fatto che la scelta della loro insegnante, di comunicare e manifestare la propria identità di genere, veniva sanzionata? Che fine educativo ha raggiunto la scuola nei loro confronti attraverso tale reazione? 

E ancora: se la funzione del procedimento disciplinare, oltre che la tutela dell’interesse “aziendale” leso dalla condotta, è anche quella di dissuadere il/la dipendente dal ripetere mancanze dello stesso tipo, non si comprende come questa finalità possa dirsi raggiunta nel caso della dipendente Bianco. Al contrario, il messaggio lasciato all’intera comunità scolastica, è che comunicare chi si è può portare a essere sanzionati. 

Non ci si può infine esimere dal chiedersi, seguendo il ragionamento avallato dalla decisione in commento, quale fosse nella specie il comportamento alternativo corretto: cioè quella condotta “rispettosa del decoro e della funzione educativa” in presenza della quale sarebbe stato consentito alla dipendente di essere sé stessa senza essere sanzionata. Se un dipendente commette un furto sul posto di lavoro, è chiaro quale sia il comportamento illecito e quale quello alternativo lecito. Così come se il dipendente arriva in ritardo sul posto di lavoro o se ne assenta ingiustificatamente. Il comportamento è sanzionato perché è violato un obbligo contrattuale. In questo caso, la condotta alternativa corretta che la dipendente avrebbe dovuto seguire è riassunta nella generica e del tutto soggettiva valutazione che i tempi e le modalità avrebbero dovuto essere diversi e più graduali. 

Viviamo in un momento storico nel quale anche i diritti che definiscono il nucleo irriducibile delle libertà fondamentali di tutti e di tutte sono rimessi in discussione, anche se frutto di lunghe battaglie. Non sono solo movimenti e gruppi politici che fondano la loro ispirazione sull’odio e sul rifiuto “dell’altro”, a minarli. È anche l’incoerenza di un sistema politico e mediatico, nel quale è coinvolta inevitabilmente anche la giurisdizione, che afferma retoricamente la libertà e l’eguale dignità delle persone (siamo tutti LGBT-friendly, antirazzisti, a favore della libertà delle donne), ma che fallisce nel tutelarli quando essi vengono azionati. Questo dovrebbe sollecitare nelle operatrici e negli operatori del diritto lo stimolo a reagire, proponendo in atti, sentenze e commenti un’altra narrazione e un’argomentazione giuridica capace di rendere quei diritti effettivi. 


 
[1] «É necessario superare la tradizionale classificazione e riconoscere che, in aggiunta alla dicotomia uomo/donna, esiste uno spettro di caratteristiche, ruoli e comportamenti condivisi tra uomini e donne, cosicché il sesso stesso dovrebbe essere piuttosto concepito come un continuum. Da questo punto di vista, è chiaro che sarebbe ingiusto continuare a trattare come illegittimi solamente gli atti di discriminazione fondati sul sesso che sono riferiti agli uomini e donne nel significato tradizionale attribuito a questi termini, e rifiutare nel contempo di proteggere coloro che sono trattati in maniera svantaggiosa proprio in ragione del loro sesso e/o della loro identità sessuale». Conclusioni dell’avvocato generale Tesauro del 14 dicembre 1995 nella causa P. contro S. e Cornwall County Council, § 17.

[2] Su questo tracciato si sono quindi inserite importanti fonti europee di ultima generazione, come  la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata con la legge 27 giugno 2013, n. 77, che contiene, all’articolo 3, la seguente definizione di “genere” come un formante di «ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini»; o, ancora, la Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce «norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato», anch’essa già recepita dall’Italia con decreto legislativo 15 dicembre 2015 n. 212, e in base alla quale: «per violenza di genere s’intende la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima» (Considerando 17).

[3] Per molto tempo, il real-life test è stato considerato un elemento essenziale e preliminare anche dalla giurisprudenza per poter accogliere le domande di rettificazione anagrafica del sesso, cfr. A. Lorenzetti, La condizione giuridica delle persone transessuali, Franco Angeli, 2014. Cfr. anche, Garante regionale dei diritti della persona della Regione Friuli Venezia Giulia (ed.), La condizione transessuale: profili giuridici, tutela antidiscriminatoria e buone pratiche, nell’ambito della collana I Quaderni dei Diritti, in collaborazione con l’Avvocatura dei LGBTI- Rete Lenford, 2017, https://www.consiglio.regione.fvg.it/cms/export/sites/consiglio/pagine/garante-diritti persona/garante/.allegati/CONDIZIONEtransessuale_2lr.pdf. A seguito dell’undicesima revisione della classificazione internazionale delle malattie (ICD) da parte dell’OMS, le categorie del transessualismo e dell’incongruenza di genere sono state rimosse dal capitolo inerente a Disturbi mentali e comportamentali per essere inserite in un apposito nuovo capitolo sulle Condizioni inerenti alla salute sessuale. Tale cambiamento ha rinnovato l’istanza per una completa depatologizzazione del procedimento di rettifica giuridica del genere. Si può osservare, tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, una crescente tendenza a superare procedure basate sulla medicalizzazione delle persone trans per accedere al cambio legale del genere in favore di nuovi assetti legislativi incentrati sul rispetto dei diritti umani e che consentano alle persone transgenere di vedersi riconosciuto il genere d’elezione attraverso procedure che pongono al centro l’autodeterminazione della persona, senza che per ottenere tale riconoscimento sia richiesta una diagnosi medica e che esso debba essere autorizzato da un tribunale. La Danimarca è stata la prima a introdurre una legislazione di questo tipo ed è stata seguita da un numero crescente di stati: Malta (2015), Irlanda (2015), Norvegia (2016), Belgio (2017), Portogallo (2018), Lussemburgo (2018) e Irlanda (2019).

[4] Cfr. ISTAT, Diversità Lgbt+ e Ambito Lavorativo: Un Quadro d’insieme. Statistiche su inclusione e diversità LGBT+ Anni 2019, 2020 e 2021, 17.5.2022, https://www.istat.it/it/files//2022/05/REPORT-LGBT_2019_2021.pdf ; Il rapporto dell’associazione Parks liberi e uguali, Dalla Legge Cirinnà alle buone prassi: le sfide del datore di lavoro inclusivo. Una guida, 2021, al link https://www.parksdiversity.eu/wp-content/uploads/2021/12/Parks_dalla-legge-cirinna-alle-buone-prassi.pdf; v. anche Garante regionale, supra nota 5.

[5] Cfr. art. 21 Contratto collettivo nazionale di lavoro del personale del comparto funzioni centrali triennio 2019 – 2021, siglato il 9.5.2022; https://www.aranagenzia.it/attachments/article/12775/CCNL%20e%20Frontespizio%20Comparto%20Funzioni%20Centrali%202019_2021.pdf 

[6] L’Università di Torino ha introdotto per prima la Carriera Alias nel 2003, seguita dall’Università di Bologna e dalla Federico II di Napoli. A queste si sono poi aggiunte altri atenei, come quelli di Palermo, Padova, Verona, Catania, Bari, Venezia, Siena, Roma, Milano (Politecnico, Bicocca, Statale), Firenze, Bergamo e molti altri.

[7] T. Ramm, Discrimination: International Development and Remarks of Legal Theory, in Discrimination in Employment, F. Schmidt (ed.), Stockholm, Almqqvist & Wiksell International, 1978, p. 491 ss., qui 508. 

 

[**]

Fabrizio Filice, giudice del tribunale di Milano
 
Francesco Rizzi, avvocato, socio di Rete Lenford e assegnista di ricerca in diritto del lavoro nell’Università di Firenze

01/07/2022
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