Magistratura democratica
Osservatorio internazionale

Ordinamento nazionale e CEDU. Impressioni al sole che è sorto[1]

di Marco Bignami
Magistrato Tar Lazio
Al di fuori della sterile contrapposizione tra euroentusiasti ed euroscettici, si deve essere pronti, quando è il caso, a far germogliare i semi di discendenza sovranazionale, a condizione che essi siano davvero fecondi, e non nascondano piuttosto fraintendimenti, o conclusioni palesemente inaccettabili nel confronto con i principi costituzionali. L’azione di regolamento di confini non può essere affidata a uno schema aprioristico di consenso o dissenso, ma va invece vissuta nella quotidianità dei casi concreti, senza che ciò autorizzi gli uni a rimproverare sciovinismo, e gli altri a gridare al cedimento dei valori costituzionali

Il tema che mi è stato affidato incontra una cornice ben definita. Da un lato, pur nell’ambito di un incontro dedicato al diritto tributario, non è mio compito occuparmi dei rapporti tra quest’ultimo e la CEDU, cui dunque nemmeno accennerò. Dall’altro lato, non ho certo la pretesa di trattare in poche pagine in modo completo e sistematico uno degli argomenti che vanno più moda in letteratura, con infinite applicazioni e raffinati distingui.

Mi limiterò allora alla pittura impressionista, conscio che il sole della CEDU, diversamente che nel celebre quadro di Monet, si è già levato da lungo tempo e ci brilla cocente sul capo.

Dirò subito che non voglio prestarmi al gioco dell’euroscettiscismo o dell’euroentusiamo di maniera, come se tutto quanto provenisse da Strasburgo fosse veleno, piuttosto che oro colato. Siccome, invece, e come accade spesso, ci sono cose buone e cose cattive, l’importante è disporre di un approccio ordinamentale flessibile, che ci permetta di prendere le prime, e lasciare le seconde, perlomeno fino a quando non decantino. La sola linea divisoria nella quale credo separa, allora, chi opta per la rigidità delle regole di ingaggio, da chi preferisce piuttosto conservare valvole di sicurezza gestibili con un buon margine di discrezionalità.

Il primo tratto di pennello cade su un breve e scontato raffronto tra la CEDU e il diritto dell’Unione. Non bisogna dimenticare, infatti, che la prima appartiene al diritto internazionale pattizio, e trova perciò copertura costituzionale nell’art. 117, primo comma, Cost., mentre il secondo si regge specificamente sull’art. 11 Cost., e dispone, grazie a ciò, di una condizione privilegiata sul piano delle fonti.

Il diritto comunitario, nell’ambito delle materie di sua competenza, si arresta solo innanzi ai principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato (i celebri contro limiti), e si impone, viceversa, alle altre disposizioni costituzionali. Quando direttamente applicabile, prescrive al giudice comune di non applicare le leggi nazionali incompatibili, e offre l’alternativa di una regola di giudizio che non necessita di un previo passaggio innanzi alla Corte costituzionale per prevalere sulla norma primaria.

La CEDU, al pari dei trattati internazionali, conserva carattere sub-costituzionale. Operando da norma interposta nell’incidente di legittimità costituzionale, determina l’incostituzionalità della legge perché quest’ultima, violando la Convenzione, ha leso in tal modo anche l’art. 117, primo comma, Cost. Ma in nessun caso la disposizione convenzionale avanza la pretesa di avere la meglio sulla Costituzione tutta, e, anzi, in caso di contrasto diviene essa stessa illegittima, con riferimento alla legge di ratifica ed esecuzione della Convenzione. Posto che siano nel campo della gerarchia, anziché della competenza tra fonti, il giudice comune non ha il potere/dovere di disapplicare la legge nazionale che si ponga in conflitto con la Convenzione, ma è tenuto a investire la Corte costituzionale della relativa questione.

In definitiva, gli elementi di comparazione cadono su questi elementi principali: il fondamento costituzionale, che è la chiave di volta dell’edificio (anche l’art. 11, a fronte del solo art. 117 Cost.); l’ambito di competenza materiale (di settore, oppure universale); il criterio di composizione delle antinomie (in linea tendenziale, la competenza, anziché la gerarchia); i poteri del giudice comune (la omessa applicazione della legge, piuttosto che l’incidente di legittimità su di essa); i rapporti con la Costituzione (l’opponibilità del solo controlimite al diritto UE, innanzi alla natura sub-costituzionale delle disposizioni convenzionali).

Ora, che una Carta delle libertà fondamentali abbia una base costituzionale meno nobile di un diritto nato in origine per costruire un mercato comune delle merci e dei capitali è ovviamente contestabile. Certo, il diritto internazionale pattizio, fino alla revisione costituzionale del 2001, neppure poteva godere dell’ombrello ora offerto dall’art. 117, primo comma, Cost., e finiva relegato, nei rapporti con la legge, al misero criterio della successione cronologica, ben potendo essere abrogato da successive disposizioni primarie. Ma lo stesso diritto dell’Unione si sarebbe prestato alla stessa sorte, se la Corte costituzionale non avesse rinvenuto, con un buon grado di fantasia, nell’art. 11 Cost. il salvifico strumento dell’integrazione europea. Dunque, è lecito domandarsi quanto solida sia la distinzione, ancorata alle sentenze gemelle nn. 348 e 349 del 2007 del giudice costituzionale, tra rango dell’uno e dell’altro diritto europeo, e se davvero la Convenzione, al pari di ogni altra Carta internazionale delle libertà ratificata dall’Italia, non avrebbe potuto a sua volta beneficiare della protezione offerta dall’art. 11 Cost.

Il dubbio, ben corposo sul piano logico, mi pare superabile su quello pratico, proprio alla luce di uno dei criteri sopra accennati di distinguo tra CEDU e diritto UE, ovvero l’ambito di competenza. Mentre quest’ultimo opera nelle sole materie che gli sono attribuite, seppure con qualche tendenza espansiva (la cd. linea Ert), la Convenzione non conosce limite di sorta. Essa reca un catalogo di libertà che debbono essere rispettate, quale che sia il campo che viene in rilievo, come è naturale che sia a fronte di diritti fondamentali dell’essere umano.

La conseguenza di questo tratto è intuitiva: se la Corte costituzionale avesse avallato meccanismi di penetrazione della Convenzione analoghi a quelli fondati sull’art. 11 Cost., essa avrebbe cessato di essere una Corte dei diritti, per divenire esclusivamente una Corte dei conflitti. In altri termini, sarebbe stata stravolta la scelta basilare del Costituente a favore del sindacato accentrato di costituzionalità, e reintegrato quel sindacato diffuso che la giurisprudenza comune si trovò a esercitare (meglio di quanto solitamente si dica) tra il 1948 e il 1956. Un effetto che la Corte non poteva tollerare (si vedrà quale tecnica di contenimento, al di là del riparto per materie, verrà adottata a fronte della Carta di Nizza, che incombe sul sindacato accentrato, a mio parere, ben più minacciosa di quanto in genere si creda), e che, verosimilmente, poneva a repentaglio un altro snodo fondamentale dell’edificio costituzionale, a causa delle velleità a far giustizia delle leggi inique, avvertite da non pochi giudici comuni.

Vi è però un’ulteriore giustificazione, che poggia invece sulle radici stesse della legittimazione democratica del potere pubblico, specie se declinate nella prospettiva dei processi di integrazione politica[2]. La CEDU, a differenza del diritto UE, non è un ordinamento costituzionale (lo dice la sentenza n. 96 del 2015 della Corte costituzionale). Non vi è un legislatore che imprime ai principi costituzionali lo sviluppo di cui essi necessitano; non vi sono organi investiti di legittimazione democratica, incaricati di rinvenire punti di bilanciamento ove rispecchiare, per mezzo della discrezionalità legislativa, i mutevoli indirizzi della società che tali organi governano secondo lo schema della rappresentanza politica; non vi è articolazione delle funzioni, tale da assicurare la diffusività del potere per mezzo della sua distribuzione; non vi è una comunità aperta degli interpreti, che collabora, anche criticamente, per rinvenire punti di convergenza ove possibile, perlomeno nelle forme minimali del pensiero liberale incentrato sull’overlapping consensus; non vi è un’opinione pubblica predefinita e razionalmente orientata.

Manca, in definitiva, il tratto dinamico che congiunge, mediante impulsi di democrazia diretta e indiretta, l’evoluzione dell’ordinamento alle dinamiche sociali, pur temperando queste ultime per mezzo del controllo di legalità costituzionale.

È il tema che definirei della solitudine della Corte EDU. Solitudine innanzi ad una Carta dei diritti che non parla (anche) attraverso la bocca del legislatore. Solitudine innanzi al silenzio di (altri) interpreti, capaci di collaborare alla definizione di un significato condiviso delle norme. Solitudine innanzi a una massa indistinta di individui ancora non ricomposti in comunità.

Certo, sono stati compiuti passi avanti significativi. La Corte EDU si confronta con le tradizioni comuni agli Stati aderenti; dialoga con i giudici costituzionali e, in prospettiva (il Protocollo n. 16) con le stesse giurisdizioni superiori; evolve la sua giurisprudenza, e con ciò sviluppa il diritto. Ma siamo pur sempre ad un’eco dell’ordinamento costituzionale descritto innanzi.

Mi pare questa, alla fine, la ragione valoriale che, almeno allo stato, continua a confortare la supremazia della Costituzione, e dello stesso ordinamento dell’Unione, sulla Convenzione, e a impedire l’estensione dell’art. 11 Cost. alla CEDU. Può non piacere che la Corte costituzionale abbia parlato a tale proposito di predominio assiologico[3]. Ma, prima di dispiacersi, sarebbe necessario confrontarsi con i problemi appena esposti, e ai quali purtroppo si è potuto qui solo far cenno.

Scrivo queste note, e mi viene il dubbio di essermi catapultato indietro a fare malamente il verso a Jeremy Bentham, o persino al conservatorismo di ritorno di un Burke ossessionato dal sangue del Terrore.

La polemica contro l’astrattezza delle Carte dei diritti è vecchia di secoli, impregnata come è di empirismo inglese, e fierezza per un costante e pacifico (entro certi limiti!) rifluire della risacca verso le forme dello Stato di diritto. Ma quanto astratte erano, in realtà, quelle Carte? Certo, a fronte del secolare flusso della common law, intessuta nella longstanding tradition di un popolo insulare e mediata dalla saggezza pratica di una casta assai omogenea di giuristi, la formulazione letterale di un elenco di libertà dell’uomo ambiziosamente proiettato verso l’universalità doveva davvero apparire un “non senso sui trampoli”[4]. Eppure, la Declarationdel 1789 poggiava saldamente, a sua volta, sul terreno di un epocale conflitto di forze sociali concretamente consumatosi al crepuscolo dell’ancien régime, si distendeva dall’empireo del dibattito illuministico, scioglieva i nodi imposti all’esercizio delle libertà borghesi dalla monarchia assoluta, con il suo ceto aristocratico parassitario, che di esse non avvertiva invece alcuna necessità. Insomma, veniva riempita di contenuto non per mezzo di formule anodine avulse dalle impellenze della società, ma attraverso il percorso di una comunità, intriso di storia, sangue, idee.

Temo che altrettanto non possa dirsi della Convenzione, planata negli anni 50’ del secolo scorso a sanare la ferita del conflitto mondiale, ma pur sempre in seconda battuta rispetto alle Costituzioni del dopoguerra, e con una vocazione di generalità predicata, tuttavia, a popoli ancora disuniti nell’epoca preglobalizzata[5].

Questo tratto non è privo di effetti significativi. Prendiamo l’esempio ben noto del principio di legalità, che, come tutti sanno, la CEDU declina nei termini di adeguata certezza e prevedibilità della regola cui conformarsi, disinteressandosi del tutto della qualità democratica della fonte da cui tale regola proviene. Tale è lo stato delle cose, ed è lecito pensare che in ciò vi sia un guadagno netto per la sfera delle libertà individuali. Ma come e perché si è giunti a questo punto?

Negli ordinamenti democratici contemporanei, il primato della legge sull’amministrazione e sullo stesso potere giudiziario non è un capriccio del caso, ma l’effetto di dinamiche storico-politiche secolari, e ampiamente poste in luce[6]. Vi è, in altri termini, l’evoluzione delle forme di governo scandita dal conflitto tra monarchia e borghesia, e il progressivo esautoramento della prima culminante, di regola, nella costituzione di un unico polo di produzione normativa, che conduce dalla legalità formale alla legalità sostanziale; ma vi è anche, nella formula dei Rechtsstaat conseguente alla efficace resistenza opposta dalla monarchia guglielmina, la sopravvivenza di una duplice origine legale del diritto, che ridimensiona il primato della legge a preferenza per la legge. Ora, quando si tratta di decidere se i regolamenti indipendenti del potere esecutivo sono o no compatibili con la Costituzione, quale che sia la risposta al dubbio, le coordinate sono chiare.

Torno invece a chiedermi: perché la Convenzione preferisce il concetto di chiarezza della regola e di prevedibilità degli effetti di una condotta, e reputa soddisfatta la legalità per il solo fatto che ciò accada, quale che sia l’origine, anche giurisprudenziale, della regola? Il punto non è, in questa prospettiva, sulla bontà o no della soluzione (il giurista continentale, però, ricorda la sua storia e sa che qualche cosa viene perso), ma sulla sussistenza di adeguate ragioni normative, storiche e politiche che permettano di spiegarla, e con ciò di giustificarla. Si tratta di una prevalenza ideologica dell’approccio di common law? Le reminiscenze di storia nazionale sono obsolete? La crisi della legge e dei meccanismi della rappresentanza democratica è arrivata al suo compimento? Siamo nel campo del buon senso comune? Il guaio è che non sembra esservi risposta altra dal realismo giuridico, il diritto è ciò che le Corti decidano che sia, e forse un correttivo si può rivenire solo nel pragmatismo di Posner, che perlomeno orienta sui criteri decisionali preferibili[7].

Questa è, nello stesso tempo, la forza e la debolezza della CEDU.

La forza, perché il significante prende vita per mezzo della giurisprudenza, che lo conduce a significati talora imprevisti sulla base della sola formulazione letterale della norma.

Già due secoli fa Luigi Rossi insegnava che le disposizioni costituzionali sono elastiche[8]. Non si può pretendere di leggerle al pari delle norme del codice civile, o, peggio ancora, del principio di tassatività proprio del diritto penale. Esse si prestano a sopravvivere all’usura del tempo attraverso la ricezione di un senso proveniente dal dialogo proprio del pluralismo sociale, in specie per mezzo del gioco delle forze politiche che ne è il riverbero.

Ora, la CEDU contiene disposizioni non formalmente, ma materialmente costituzionali, perché l’elenco delle libertà fondamentali è la base dello Stato costituzionale. Esse, perciò, sono scritte a loro volta in modo da garantire elasticità. Se le leggiamo, non vi troviamo alcunché di differente dalle corrispondenti previsioni della Costituzione dedicate ai diritti fondamentali. Un tempo si diceva che il solo principio della ragionevole durata del processo arricchiva il catalogo, ma oggi, dopo la riscrittura dell’art. 111 Cost., neppure questo sarebbe più vero.

Eppure, si è visto più volte che la medesima disposizione può generare interpretazioni costituzionali divergenti: il principio di legalità penale impone la retroattività della lex mitior in base all’art. 7 CEDU, benché qui non vi sia nulla di più che nell’art. 25 Cost., che invece non la assicura.

La CEDU fa carriera, rispetto alle tante Carte dei diritti ratificate dall’Italia per nulla dissimili nei contenuti (si pensi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo), perché è presidiata da una Corte, cui la vittima ha accesso diretto, che le conferisce un’anima, muovendo la disposizione verso lidi lontani dalla rotta minimale tracciata sulla carta geografica. L’interprete, che dovrebbe assegnare ad una norma del Patto sui diritti civili e politici lo stesso ruolo ai fini del giudizio rivestito dal precetto convenzionale, può pigramente schiacciare la prima sul corrispondente significato nazionale, ma non è più in condizioni di ignorare che a Strasburgo si è andati oltre, o, più semplicemente, in luoghi differenti.

Ecco però la debolezza. L’interpretazione genera conflitti. Quando essi sono innescati, il giudice costituzionale è forte dell’elasticità storica, politica, e democratica della Costituzione. La Corte di Strasburgo gli oppone, invece, la sola elasticità giudiziaria. Aristocrazia delle toghe, si sarebbe detto un tempo. Judicial hubris, si dice oggi[9].

Le sentenze gemelle della Corte costituzionale hanno un contenuto in parte necessario, in parte accidentale. A fronte del crescente rilievo del diritto internazionale pattizio, della vivace determinazione del giudice comune di renderne applicazione, delle condanne che Strasburgo infligge all’Italia e che vanno in qualche modo eseguite, non si può più continuare a gestire una Carta dei diritti fondamentali al pari di una legge ordinaria sulla lotta alle mosche. Ciò che è stato fatto non poteva essere non fatto, avverte Lady Machbet nella traduzione che ho sempre preferito del verso what’s done cannot be undone. E allora la CEDU diviene fonte interposta del giudizio di costituzionalità, grazie alla forse poco consapevole, ma certamente provvidenziale riscrittura dell’art. 117, primo comma, Cost. da parte del legislatore della revisione costituzionale del 2001.

Il contenuto accidentale, ed è qui l’ostacolo (per restare a Shakespeare), viene dopo: le norme della Convenzione vivono nel significato loro attribuito dal giudice europeo.

La Corte costituzionale è consapevole di quanto si è detto innanzi; sa, in altri termini, che un insieme di libertà formali prive di interpreti che le diano corpo è un non senso; per ragioni di uniformità, trova l’interprete (esclusivo) nel soggetto più ovvio e a portata di mano.

Immaginiamo che un’analoga affermazione fosse rivolta alla Costituzione: le disposizioni costituzionali vivono nel solo significato che dà loro la Corte costituzionale. Saremmo di fronte ad una manifestazione di rozzezza giuridica senza pari. Nel paese ove è stata teorizzata la Costituzione materiale (Mortati); ove la forma di governo è stata studiata alla luce dell’assetto del sistema dei partiti politici (Elia); ove si è indagata a fondo la diffusività della Carta repubblicana (Onida); ove essa è riempita quotidianamente di senso dal coagire di molteplici protagonisti; in questo paese, un’asserzione simile naufragherebbe nella scherno. Essa sarebbe, inoltre, una falsità. Perché è vero che la Corte costituzionale ha (di regola, ma non sempre: si pensi alla revisione dell’art. 111 Cost. in “riforma” della sentenza n. 255 del 1992) l’ultima parola, ma la detiene a certe condizioni (l’iniziativa del giudice a quo; la decisione di attivare e coltivare un conflitto sempre disponibile in capo alle parti), ed essa non è comunque l’unica parola, in un contesto estremamente articolato di attori che a propria volta applicano, interpretano, attuano la Costituzione.

Se invece pensiamo alla CEDU (a ciò che prima ho voluto chiamare la solitudine della sua Corte) queste obiezioni non si possono muovere così facilmente, ed ancora una volta c’è qui una dimostrazione di potenza che nasconde un equivalente tratto di povertà.

Tuttavia, la soluzione scelta dalla nostra Corte non era inevitabile. Se ci si fosse arrestati al livello necessario della decisione, evitandone il lato accidentale, avremmo modellato un sistema che, di fatto, avrebbe potuto funzionare non meno bene (o, se si vuole, non peggio) dell’attuale. Perché il dibattito sul significato da attribuire alle disposizioni convenzionali, anziché strozzarsi in gola alla Corte di Strasburgo, si sarebbe in teoria ampliato agli interpreti nazionali, senza che ciò potesse impedire, nel medio periodo, la ricezione dell’indirizzo definitivamente affermatosi presso la Corte EDU. È giocoforza che, in ultima istanza, sia quest’ultima a dirci che vogliono dire, sull’intero spazio europeo, le norme della CEDU. Ma se ciò accade all’esito di un confronto con i tribunali nazionali, in cui questi ultimi possono far inizialmente valere le ragioni dei propri ordinamenti, e al di là di pretese egemoniche, i sistemi di tutela si integrano con uguale efficacia, ma con minore virulenza.

Il salto dell’ostacolo compiuto dalle sentenze gemelle pare una verace concessione al realismo giuridico anglosassone, ma più in profondità nasconde il colpo di coda del giurista continentale di matrice illuminista, il quale non si rassegna all’approccio casistico e sente, senza dichiararlo, il bisogno di una dimensione sistematica quanto più possibile teorizzata.

La si butta, allora, sul piano delle fonti, non soltanto per collocarvi la CEDU, ma anche per spiegare che ruolo vi abbia la sua giurisprudenza. La funzione giudiziaria appanna il tratto dichiarativo per far corpo, creativamente, con il testo scritto (altra faccenda è la common law, a lungo largamente priva di quel testo). Ma con questa veste essa pretende di far breccia in un ordinamento che è strutturato, anzitutto sul piano costituzionale, secondo schemi differenti, ove è colto, nella soggezione del giudice alla sola legge, al contempo il primato costitutivo di quest’ultima sullo ius dicere dichiarativo, e poi l’autonomia interpretativa dei giudici rispetto alle Corti superiori. Nonostante queste coordinate, la nostra Corte ha optato per la rigidità, anziché per la flessibilità.

Ne sono seguiti corollari convincenti, atteso il postulato. In particolare, la forza espansiva delle pronunce dalla Corte EDU, chiamate a far sistema al di là dell’esigenza circoscritta all’esecuzione del comando reso sul singolo caso deciso, in base a quanto previsto dall’art. 46 della Convenzione. Quando, in una certa fattispecie, la legge ha determinato la violazione della CEDU, dunque, “è fatto obbligo ai poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della CEDU cessino” (Corte cost., sentenza n. 210 del 2013), in via generale, e con ogni strumento disponibile. Ciò che è fonte del diritto è fonte del diritto, e produce i suoi effetti, appunto, sul piano delle norme.

Mi pare ben dimostrato[10] che, salvo il caso (anch’esso pretorio) delle sentenze conformative, la CEDU non esigesse ciò. Del resto, altrove funziona diversamente. In Germania, ad esempio, i Tribunali si confrontano con la sentenze della Corte EDU, e motivano la loro eventuale inosservanza, senza trovarvi vincoli insuperabili (2 BvR 1482/04). In Gran Bretagna, lo Human rights Act del 1998 obbliga i giudici a taking into account le pronunce europee, con espressione ovviamente molto più pregnante della sua traduzione letterale in italiano, ma che ugualmente, incorporando le sentenze EDU nella common law, aprono ad un rapporto di interazione piuttosto che di subordinazione.

Detto questo, il modello disegnato dalle sentenze gemelle mostra il suo lato migliore quando è possibile azionare la teorica dello standard di tutela più avanzato, che trova il suo culmine nella sentenza n. 317 del 2009 della Corte costituzionale: “il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza di una singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali”.

Talvolta è certamente possibile, oltre chi auspicabile, che il giudice sia in condizioni di raggiungere l’obiettivo. Ho forti dubbi che ciò possa accadere sempre, o persino spesso. Prima di tutto, bisognerebbe capire se questa operazione permette di combinare le garanzie in forma caleidoscopica, pescando ora qui, e ora lì, e dando vita a istituti all’Arlecchino, che non sono né quelli previsti dall’ordinamento interno, né quelli integralmente imposti dalla Convenzione. Questo modo di procedere ignorerebbe, infatti, che, specie nel campo processuale, talune garanzie sono accordate proprio perché altre ne sono sottratte, secondo un delicato lavoro di composizione che rischia di esplodere, ai danni dello scopo ultimo del processo, per effetto di un gioco sempre e comunque al rialzo.

Poi, mi domando che succede se a confrontarsi nel caso di specie sono due opposte libertà fondamentali, tali che il premio per l’una sia il castigo dell’altra (privacy e diritto all’informazione, ecc.). I diritti si fagocitano, e la coperta è corta, anche in termini di risorse finanziarie necessari ad alimentarli. Non potendo per definizione accordare priorità ad alcuno dei diritti in conflitto, senza al contempo comprimere l’altro, il criterio della massima tutela non mi sembra particolarmente proficuo.

Infine, pur consapevole che il primo principio di giustizia di Rawls insegna altro[11], non sono convinto che una libertà fondamentale incontri i soli limiti prescritti da un’altra libertà fondamentale, perché trovo casi in cui la conformazione costituzionale del diritto implica un temperamento correlato a interessi pubblici di pari dignità costituzionale (quale libertà individuale, intestata a uno specifico individuo che ne reclami la tutela, può rinvenirsi nella proibizione delle associazioni segrete, che è un limite costituzionale al diritto di associarsi nelle forme desiderate ai sensi dell’art. 18 Cost. ?).

Costruire un ordinamento è una faccenda maledettamente più complicata che elencare un gruppo di libertà positive e negative, e creare una Corte preposta a tutelarle. Il giudice costituzionale ne ha dovuto prendere atto, quando si è trovato a confrontarsi con un orientamento della Corte EDU favorevole ad attribuire un certo regime pensionistico privilegiato, e lo ha in definitiva respinto in ragione degli effetti di squilibrio che esso avrebbe cagionato sul sistema previdenziale italiano (sentenza n. 264 del 2012). Mi pare un caso evidente di temperamento di una supposta libertà convenzionale (divieto di interferenza legislativa retroattiva in un giudizio pendente) in nome di un interesse pubblico di rango costituzionale.

In conclusione, quando accade che il criterio dell’integrazione delle garanzie secondo il segno positivo non è praticabile, il dilemma su quale regola applicare per decidere un caso concreto torna prepotentemente a farsi sentire.

Affidarsi agli orientamenti di una Corte, per di più ripartita in sezioni, al fine di giudicare la costituzionalità di una legge, nell’ambito del sindacato accentrato, porta con sé un inconveniente. Se quella Corte, come è fisiologico che sia, cambia posizione, e nel frattempo la norma nazionale è già stata dichiarata illegittima, non vi è modo per rimediare. La sentenza n. 49 del 2015 della Corte costituzionale ha dovuto porsi questo problema, innanzi ad un bizzarro, ma isolato, precedente della Corte EDU che avrebbe potuto condurla a subordinare l’applicazione della sanzione amministrativa della confisca urbanistica non al pieno accertamento della responsabilità personale, ma al fatto formale che essa fosse stata dichiarata con sentenza di condanna (non sarebbe più stato consentito confiscare il bene lottizzato in caso di prescrizione del reato, benché il giudice avesse dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza dell’imputato, pur dovendolo prosciogliere per il decorso del tempo).

Si è rimediato chiarendo che il vincolo proveniente dalle pronunce europee è invalicabile solo se esso esprime una giurisprudenza consolidata, ovvero un diritto vivente europeo[12], di cui la stessa sentenza n. 49 ha tratteggiato alcuni elementi costitutivi. In ciò, non vedo alcuna “fallo vistoso” ai danni del giudice europeo[13], perché a dover stabilire entro che limiti il diritto convenzionale penetra nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 117, primo comma, Cost., non può che essere il custode giudiziale della nostra Costituzione, e non la Corte EDU. Ci importa quindi relativamente poco dei criteri che tale Corte impiega per distinguere la qualità della propria giurisprudenza, pur prudentemente richiamati dal giudice costituzionale, o del dubbi sul rilievo paritario di cui godono tutte le pronunce europee, o persino del fatto, in verità ovvio, che all’interno del sistema di tutela convenzionale tutte le pronunce hanno uguale forza ed efficacia (non mi risulta che le cose vadano diversamente in Italia, dove la sentenza del giudice di pace, se non riformata, ha autorità di cosa giudicata e va eseguita, al pari di quella delle Sezioni Unite). La questione è affatto differente. Nel bilanciare gli obblighi internazionali della Repubblica con la libertà interpretativa attribuita a tutti i giudici nazionali dall’art. 101, secondo comma, Cost. si è reso necessario, anzitutto per un evidente ragione pratica, filtrare ai nostri fini l’efficacia normativa del precedente europeo, ovvero la sua capacità di integrare quale norma interposta il parametro costituzionale. Altrimenti anche la sentenza resa per incuriam, o ancora soggetta a riforma da parte della Grande Camera, o comunque mero indizio di un orientamento tutt’altro che stabile, avrebbe determinato l’illegittimità costituzionale (questa sì, stabile!) della legge nazionale. Resta invece ferma la piena autorità della decisione EDU sul caso concreto, come richiesto dall’art. 46 della Convenzione.

A questa difficoltà pratica, direi persino di buon senso, i severi censori della sentenza n. 49 rifiutano di dare risposta. Non prendo per buona, infatti, l’osservazione per cui la Corte europea articola una giurisprudenza casistica, per la quale neppure avrebbe senso porsi il dilemma concernente il carattere occasionale o consolidato della pronuncia giudiziale. Essa mi starebbe bene, se le sentenze gemelle non avessero posto la questione sul piano delle fonti del diritto. Compiuta questa scelta di fondo, what’s done cannot be undone, stavolta nella traduzione italiana meno seducente: ciò che è stato fatto non può essere disfatto. Se il precedente è casistico, non dichiaro l’incostituzionalità di una legge generale e astratta, mentre, se devo farlo, ho bisogno di uscire dal caso (che è già di suo conformato dalla Corte EDU) e rinvenire il principio di diritto che vi si pone a fondamento.

L’idea che la common law e (non è chiaro per quale ragione) anche la CEDU non conoscano i principi di diritto quale base del ragionamento giudiziario, ma si affidino piuttosto a principi generali aventi un carattere maggiormente indeterminato, è curiosa[14].

La circostanza che una Corte decida su casi concreti, ricostruendo il fatto e verificando se, di volta in volta, esso è compatibile con i propri precedenti, ovviamente non significa che la decisione non possa e non debba reggersi sulle ragioni giustificatrici di questi ultimi, che sono sempre ricavabili, nella sentenza del Pretore così come in quella del Lord Chief Justice. Altrimenti non vi sarebbe pensiero giuridico, ma brutale istinto di protezione o castigo[15].

Vorrei invitare chi pensa che i principi di diritto, quale base della decisione giudiziale, siano un vezzo dell’arretrato e poco informato giurista di civil law a leggere la sentenza della Grande Camera 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia.

Dinnanzi ad un dubbio interpretativo sul significato della garanzia del ne bis in idem in materia penale, assicurata dall’art. 4 del Protocollo n. 7, la Corte europea si era fortemente divisa, giungendo a sostenere tesi del tutto opposte, e, in particolare, talvolta a ritenere rilevante l’idem factum (il fatto storico), talaltra l’idem legale (la qualificazione giuridica del reato). La Grande Camera interviene al dichiarato scopo di sedare il conflitto sul principio di diritto; esamina dettagliatamente i precedenti; opta per uno degli orientamenti disponibili, e ne spiega le ragioni. Da allora, nessuna sezione si è discostata dal principio di diritto secondo cui la medesimezza del fatto si ricava alla luce delle sole circostanze fattuali. Questa sentenza avrebbe potuto essere scritta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, altro che distingui tra civil law e common law nella gestione di processi logico-giuridici che sono necessariamente condivisi![16].

Insomma, mi convincono le osservazioni di uno dei severi censori di cui sopra, che però offre una diagnosi priva di efficace terapia: “per un certo periodo di tempo, prima che siano risolte con il meccanismo del rinvio alla Grande Chambre, convivono talora tra le sentenze della Corte europea orientamenti difficilmente compatibili, che l’interprete nazionale, che dovrebbe poter identificare con sicurezza la ratio decidendi cui far riferimento, non ha strumenti per comporre”, sicché “benché si tratti di ipotesi eccezionale, non è dunque da escludere che sia riconosciuta l’incostituzionalità di una legge nazionale, per il contrasto con la giurisprudenza della Corte europea, che successivamente ritorni sui suoi passi in modo tale che, rispetto alla nuova giurisprudenza, il contrasto rilevato non appaia[17]. Questa eventualità, invece, la Corte costituzionale la doveva proprio escludere, ed è quanto la sentenza n. 49 ha cercato di fare.

L’abbozzo del nostro quadro è, si spera, completo. Gli spazi entro cui muoversi nel rapporto con la CEDU sufficientemente chiari. Il giudice comune è tenuto ad applicare la Convenzione, a mio parere anche direttamente, quando non vi si pone ad ostacolo una norma di legge di segno contrario. In tale ipotesi, vi è l’obbligo di interpretazione convenzionalmente conforme di tale legge, e, quando essa non è possibile, la via dell’incidente di legittimità costituzionale sulla base dell’art. 117, primo comma, Cost. Se, però, il significato della CEDU, nel caso di specie, deriva da una giurisprudenza europea non ancora consolidatasi, il giudice nazionale vi può aderire, ma non ha alcun obbligo in tal senso, e, se lo reputa opportuno, è libero di discostarsene. Altrimenti, non vi è altra soluzione che investire la Corte costituzionale, o della questione di costituzionalità della norma italiana, o di quella della legge di autorizzazione e esecuzione della CEDU, quando quest’ultima contrasti con la Costituzione.

Vorrei aggiungere che, personalmente, reputo largamente positivo l’apporto che la Corte di Strasburgo ha saputo offrire allo sviluppo dei diritti nell’ordinamento italiano, dischiudendo ipotesi che la presbiopia nazionale ci impedivano persino di intuire. Anche la miopia, però, è un difetto ottico. Talvolta, guardare il mondo dall’alto impedisce di comprenderlo a fondo. È perciò necessaria, torno a ripeterlo, flessibilità. Determinazione nel recepire il bene, e fermezza nel respingere l’inaccettabile. La formula introdotta dalla sentenza n. 49 mi è subito sembrata felice, perché risponde a questo scopo, consentendo di tenere duro a fronte di orientamenti poco persuasivi, ai quali sarà possibile opporre argomenti contrari fino a che essi non si consolidino.

Al di fuori della sterile contrapposizione tra euroentusiasti ed euroscettici, si deve essere pronti, quando è il caso, a far germogliare i semi di discendenza sovranazionale, a condizione che essi siano davvero fecondi, e non nascondano piuttosto fraintendimenti, o conclusioni palesemente inaccettabili nel confronto con i principi costituzionali. L’azione di regolamento di confini non può essere affidata a uno schema aprioristico di consenso o dissenso, ma va invece vissuta nella quotidianità dei casi concreti, senza che ciò autorizzi gli uni a rimproverare sciovinismo, e gli altri a gridare al cedimento dei valori costituzionali.

                                       


[1] Relazione di prossima pubblicazione in un volume edito da Key editore nella Collana Il diritto in europa oggi.

[2]Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetti, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative”. R. Smend (1928), ed. it. Costituzione e diritto costituzionale, 1988, 93 

[3] A meno di trascurare che da trent’anni circa il costituzionalismo, a torto o a ragione, dibatte di valori e vi cerca il fondamento di scelte normative, pur scontando la difficoltà di tenerli separati dai principi, come pone in luce J. Habermas (1992), ed. it. (a cura di L. Ceppa), Fatti e norme, 1996. Si veda, invece, G. Guarino, Corte costituzionale e diritto internazionale: noterelle a margine della sentenza n. 49/15 in www.academia.edu

[4] J. Bentham, Anarchical Fallacies (1816), ed. it. (a cura di L. Formigari), Il libro dei sofismi, 1993, 124 ss

[5] P. Grossi, Mitologie giuridiche della modernità. 2007, 127 ss

[6] L. Carlassarre, Legalità (principio di),in Enc. Giur. Treccani,1990

[7] Lo stesso Posner ci tiene a distinguersi dal realismo: R. Posner, Law, Pragmatism and Democracy, Cambridge 2003, 84 ss

[8] L. Rossi, L’elasticità dello Statuto italiano, ora  in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, 1940, 28

[9] N. Zanon, Pluralismo dei valori e unità del diritto: una riflessione, in Quaderni cost. 2015, 4, 929

[10] E. Lamarque, Il vincolo alle leggi statali e regionali derivante dagli obblighi internazionali nella giurisprudenza comune, in www.cortecostituzionale.it, 52 ss

[11] J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), tra. it.. 2008, 77

[12] Questa espressione non piace ai più, che non la ritengono riferibile al diritto europeo: ad. es. G. Sorrenti, Sul triplice rilievo di Corte cost., sent. n. 49/2015, che ridefinisce i rapporti tra ordinamento nazionale e CEDU e sulle prime reazioni di Strasburgo, in Forum di Quaderni costituzionali, 2015. Eppure, essa mi pare del tutto calzante. Il diritto vivente, in giustizia costituzionale, non rappresenta la sola idea che le disposizioni traggano vita e ed evolvano in norme per mezzo della giurisprudenza. Piuttosto, seleziona uno specifico stadio di quella giurisprudenza, di regola segnato da pronunce omogenee delle giurisdizioni superiori, e in particolare della Corte di Cassazione, grazie al quale si possa ritenere che il significato della norma si è stabilizzato, e che quindi la Corte costituzionale deve imporre un self restraint ai suoi poteri interpretativi della legge ordinaria. Nella CEDU non vi sono Corti superiori, ma c’è la medesima esigenza di isolare un precipitato consolidato delle pronunce in punto di diritto. Tale esigenza riflette un analogo self restraint, poiché, ove vi sia diritto vivente convenzionale, il giudice comune perde il potere di interpretare liberamente la Convenzione, che gli deriva dall’art. 101, secondo comma, Cost., ed è tenuto a porre a base del suo ragionamento giuridico la norma europea, per come vive, appunto, grazie alla Corte di Strasburgo.

[13] Così, invece. A. Ruggeri, Fissati nuovi paletti alla Consulta a riguardo del rilievo della CEDU in ambito interno, ora in Diritto penale contemporaneo. Rivista trimestrale, 2015, 2, 330 e nota 11

[14] Specie se si considera che, secondo versioni assai in voga, il principio si accompagna sempre ad un grado di indeterminatezza colmabile con il passaggio alla regola, senza che ciò lo renda in sé meno pregnante: R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali (1994), trad. it. 2012, 106 ss; G. Zagrebelsky, Il diritto mite, 1992, 149

[15] Sul punto, in senso diverso dal testo, B. Randazzo, Interpretazione delle sentenze della Corte europea dei diritti ai fini dell’esecuzione (giudiziaria) e interpretazione della sua giurisprudenza ai fini dell’applicazione della CEDU, in www.rivistaaic.it.; V. Zagrebelsky, Corte cost. n. 49 del 2015, giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, art. 117 Cost., obblighi derivanti dalla ratifica della Convenzione, in www.rivistaaic.it

[16] T. Endicott, La generalità del diritto, ed. it. 2013

[17] V. Zagrebelsky, Corte cost. cit.

14/07/2016
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