Magistratura democratica
Magistratura e società

Le argomentazioni discutibili dei laici “soft”, tra etica e diritto

di Françoise Longy
maître de conférences – Logica e filosofia della scienza – Università di Strasburgo

Nel confronto di idee che ha fatto seguito all’orrenda decapitazione dell’insegnante francese Samuel Paty, ha sempre più peso, in Francia come in Italia, la posizione che considera la laicità “alla francese” troppo radicale e provocatoria, e chiede che venga temperata e ridimensionata. Ma il problema che pongono gli interventi francesi e italiani a favore di una laicità soft è che non definiscono in cosa tale laicità meno “aggressiva” dovrebbe consistere e quali misure la realizzerebbero. 

Nel dibattito che ha seguito l’orrenda decapitazione da parte di un fanatico islamista dell’insegnante francese Samuel Paty – che in una lezione di educazione civica sulla libertà di espressione aveva mostrato una caricatura di Charlie Hebdo con Maometto nudo – ha sempre più peso, in Francia come in Italia, la posizione che considera la laicità “alla francese” troppo radicale e provocatoria, e chiede che venga temperata e ridimensionata. Ma per essere pro o contro una proposta, e anzi già per discuterne, bisognerebbe che la proposta fosse chiara e distinta. Il problema che pongono gli interventi a favore di una laicità soft è proprio questo: sia quelli francesi che italiani non definiscono in cosa tale laicità meno “aggressiva” dovrebbe consistere e quali misure la realizzerebbero. 

Gli autori che la promuovono preferiscono limitarsi a considerazioni generali, più o meno discutibili o apprezzabili, che mescolano allegramento morale, diritto, politica. In tal modo rendono confusi gli obiettivi che intendono avanzare e già con ciò danneggiano la causa della laicità.  Due esempi significativi di tale atteggiamento sono l’articolo Les défenseurs de la caricature à tous vents sont aveugles aux conséquences de la mondialisation, apparso il 4 novembre su Le Monde a firma di Olivier Mongin et Jean-Louis Schlegel (direttore e colonna dell’autorevole mensile Esprit) e l’articolo di Vladimiro Zagrebelski, Quando la satira si rifiuta di essere responsabile, uscito su La Stampa lo stesso giorno.

Questi sostenitori di una laicità soft hanno in comune la preoccupazione di ridurre al minimo i rischi che caratterizzano la situazione attuale. Zagrebelski evoca il rischio di  «una guerra sciagurata» col vasto e variegato mondo islamico, e compara la responsabilità di diffondere le caricature di Charlie Hebdo a quella di gettare un cerino in un pagliaio. Mongin e Schlegel sottolineano come la diffusione immediata e globale di qualsiasi contenuto via internet renda ancore più pericolosa la pubblicazione di queste caricature «quando l’islam conta alcune migliaia di islamisti decisi a uccidere in nome di Dio, e capaci di manipolare a vantaggio della propria lotta un bel numero di ignoranti e semianalfabeti in tutto il mondo, che di libertà di espressione non hanno mai sentito neppure parlare».  Tali preoccupazioni, largamente diffuse, sono assolutamente legittime, e spiegano anzi il successo dei sostenitori di una laicità soft

Affrontare con spirito pragmatico il modo migliore di essere laici in un mondo reso pericoloso dall’imperversare di un fanatismo religioso omicida significa domandarsi se vi siano atteggiamenti laici inutilmente provocatori, di cui la laicità potrebbe tranquillamente fare a meno senza rinunciare alla propria sostanza, e cercare quali misure potrebbe limitare o impedire tali “provocazioni” senza mettere in pericolo la laicità.

In apertura del loro articolo, Mongin e Schlegel imboccano proprio questa strada. Forniscono tre esempi di provocazioni laiche inutili: la richiesta di affiggere sui muri le caricature di Charlie Hebdo,  la loro proiezione su due edifici della regione ed il progetto di diffonderli in forma di libretto nei licei. En passant, sono tre esempi niente affatto rappresentativi della laicità “alla francese”, posizioni isolate di reazione emotiva a un crimine atroce, e al dunque l’unico fatto, francamente non più che aneddotico, è stata la proiezione su quei due muri. 

Rappresentativi o meno, però, i tre esempi hanno il vantaggio di consentire di ancorare la riflessione su casi concreti.  Presi in sé, prescindendo dal contesto che abbiamo ricordato, giustificano il giudizio negativo di Mongin e Schlegel. Non si vede, infatti, che cosa la laicità possa guadagnare da manifestazioni del genere. La riflessione di Mongin e Schlegel a partire da questi esempi sembra promettere proposte precise. Si domandano, ad esempio, se non vada fissata la differenza tra ciò che si ha diritto di diffondere in una libreria o in una edicola e quanto si impone  invece alla vista di tutti se esposto su mega cartelloni pubblicitari o addirittura su edifici pubblici. Purtroppo, dopo qualche frasi, il loro argomentare cambia di oggetto e di stile. Invece di provare a definire i contorni della laicità che auspicano e i mezzi per darle corpo, preferiscono lanciarsi in considerazioni generiche sulla tendenza francese a voler imporre agli altri i propri principi.

È vero che proseguire nel promettente stile iniziale avrebbe implicato rispondere a interrogativi impegnativi: come stabilire la restrizione al diritto di “esibizione”? Solo per immagini che potrebbero offendere sentimenti religiosi di credenti relativamente integralisti, o per i sentimenti religiosi nel senso più ampio (e inevitabilmente più vago), o di identità anche non religiose, o per ciò che qualcuno giudicherebbe offensivo per la decenza? In tal caso che fare della pubblicità, che ama puntare assai spesso sulla provocazione? E con quali modalità stabilire le restrizioni? Una legge, una direttiva trasmessa ai prefetti, un altro modo ancora?

Invece, passano all’accusa generica per cui lo schema di comportamento della Francia consisterebbe sempre nella «tentazione di imporre [i suoi principi] con la forza, quando degli individui, gruppi, nazioni, resistono in nome di una libertà diversa, religiosa o politica, giudicata "schiava" dagli illuminati». Detto altrimenti, poiché la Francia è stata colonialista, lo sarebbe tuttora. Una tendenza iscritta nel suo DNA, in qualche modo. Ma ad essere terra terra, nulla nella politica estera o militare corrobora l’affermazione che la Francia tenterebbe di imporre fuori del suo territorio, con le armi o altri strumenti di coercizione, la propria visione della laicità. In territorio francese questa laicità urta qualche coscienza? Senza dubbio, ma la circostanza non giustifica in nessun modo l’accusa di violenza culturale indebita. Ogni paese, altrimenti, dovrebbe essere accusato di far valere nel proprio territorio i propri valori.

Perché, invece di esporre positivamente cosa si dovrebbe fare per moderare la laicità senza snaturarla, o anzi per aprire semplicemente la discussione sul tema, Mongin e Schlegel preferiscono identificare un colpevole assai fantasmagorico, la propensione francese al colonialismo culturale? Intanto perché è più facile denunciare un colpevole che avanzare proposte concrete, che vanno calibrate e giustificate. Ma anche perché denunciare una colpa morale – orgoglio e arroganza – ha  il vantaggio di far credere che una soluzione esista, e non costi nulla: basterebbe smettere di essere arroganti e orgogliosi per essere laici in modo diverso e migliore. La denuncia morale funziona come un gioco di prestigio. Ci fa apparire con uno schiocco delle dita una soluzione che appare perfetta: non richiedendo niente sul piano legislativo o regolamentare, essa non può intaccare la laicità. 

Purtroppo si tratta di una soluzione illusoria, da tutti i punti di vista. Come soluzione concreta è totalmente irrealista, le persone non cambiano carattere o atteggiamento in tempi cosi brevi. Sul piano teorico, non porta a nessun chiarimento, visto che non aiuta a precisare l’obiettivo. Che cosa attendano i nostri autori dal cambiamento morale che preconizzano: che scompaia la voglia di fare satira sulla religione islamica e sulle religioni in generale, o che non la si possa esibire in gigantografie sui muri? Due cose diversissime, proprio rispetto al principio di libertà di pensiero e di espressione irrinunciabili per una democrazia. Alla fine, il problema di sapere se esista una forma più mitigata di laicità che non ne intacchi la sostanza non ottiene nemmeno un inizio di risposta. 

Passiamo all’articolo di Vladimiro Zagrebelsky. A prima vista la sua argomentazione è differente, poiché poggia su testi e decisioni di carattere giuridico. E tuttavia, anche qui mancheranno proposte concrete, giuridiche o meno. E spesso l’andamento del discorso rende difficile capire se Zagrebelsky faccia riferimento al piano della responsabilità personale, fondamentalmente morale, o a quello politico e giuridico di principi, leggi, regolamenti, e sentenze.

Centrale nel suo ragionamento è la nozione di responsabilità. Ma di quale responsabilità si tratta? Il punto di partenza è giuridico, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella quale è scritto che la libertà d’espressione comporta doveri e responsabilità. Tuttavia la conseguenza che Zagrebelsky ne trae è inizialmente un dovere di responsabilità puramente morale: “Non si tratta di prevedere punizioni per chi si sottrae al dovere di responsabilità, ma di denunciarne l’irresponsabilità rifiutando di condividerla”. E infatti prosegue denunciando: “dubito che quelle vignette pubblicate siano compatibili con il dovere di responsabilità”. Giustifica la sua denuncia spiegando che la satira deve essere criticata quando, anziché “garantire maggiore incisività, sintesi intelligente, anche ferocia nella critica” si traduce invece “in offesa diretta ed anche oscena”, “tanto più quando si tratti di blasfemia e quindi colpisca il sentimento religioso”. 

Analizziamo in dettaglio. Nulla consente di pensare che il diritto che rivendica – di poter criticare la satira – corra il minimo pericolo. Dunque questa sorprendente rivendicazione acquista senso alla luce dell’affermazione che la precede: “si pretende che la satira abbia uno statuto speciale, di maggiore e assoluta libertà ed immunità”. Ovviamente Zagrebelsky non sta lamentando che tale immunità vieti ai singoli individui di criticare la satira. Il suo bersaglio deve dunque essere l’opinione – comunque diversamente diffusa secondo i paesi e gli ambienti culturali e sociali – che la satira sotto tutte le forme meriti una totale immunità. In sostanza Zagrebelsky trova esagerata la “libertà e immunità” di cui gode, soprattutto in Francia, un tipo particolare di satira. 

Quale? Quello che Zagrebelsky giudica privo di valore intellettuale o pedagogico (mancante di “maggiore incisività, ecc.”), o moralmente sgradevole (“in offesa diretta e anche oscena”). Fin qui rimaniamo nell’ambito dei giudizi soggettivi – ciò che per uno sarà sintesi intelligente e ferocia nella critica sarà per un altro oscenità e ferocia ingiustificata – che non costituiscono argomento di peso. Questo richiamo al buon gusto ha senso a condizione che si pensi, come ha osservato ironicamente Nello Rossi, di «poter risolvere il problema della libertà di pensiero solo esortando a seguire il galateo delle buone maniere intellettuali». Come del resto sottolinea più oltre, con esplicito riferimento al passo dell’articolo di Zagrebelski citato sopra, chiedere alla satira «di essere "responsabile" e  "addomesticata" equivarrebbe ad "espungerla d’autorità dal campo della libertà di pensiero"», visto che fa parte della sua natura essere « divisiva, corrosiva, destrutturante delle idee più sentite e condivise».[1]

La critica di Zagrebelski comporta però anche un riferimento a qualcosa di più oggettivo, il blasfemo. Entriamo qui nell’ambito delle fattispecie con qualificazione giuridica, e Zagrebelsky cita infatti, una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che condannerebbe la blasfemia poiché il sentimento religioso costituisce «un elemento tra i più essenziali dell’identità dei credenti». Benché manchi il riferimento preciso, dovrebbe trattarsi della sentenza del 25 ottobre 2018, E.S. c. Austria ric.38450/12.

Riassumiamo le circostanze. In Austria la signora E.S. durante una assemblea del partito di destra FPÖ accusa Maometto di pedofilia, in quanto consumò il matrimonio con Aisha quando la bambina aveva nove anni. Un giornalista infiltrato nella riunione registra la dichiarazione e sporge denuncia per incitamento all’odio (art. 283) e per denigrazione di dottrine religiose (art. 188). Assolta dalla prima imputazione viene condannata per la seconda a una multa di 480 euro. Ricorre fino alla suprema istanza austriaca, che conferma la condanna. Si appella allora alla Corte europea. La quinta sezione, con sentenza del 25 ottobre 2018, respinge la sua richiesta di dichiarare illegittima la sentenza austriaca. Ritiene infatti che nel caso in questione l’articolo 9 della Convenzione Europea, che tutela la libertà religiosa, vada inteso come protezione dei sentimenti religiosi altrui, prevalendo sull’articolo 10 che garantisce la libertà di espressione.

Trascuriamo pure il fatto che nell’articolo 9 non vi sia alcun riferimento alla protezione dei sentimenti religiosi[2], e che altre volte la Corte abbia giudicato che la libertà di espressione poteva legittimamente provocare shock offendendo o essendo provocatoria contro le religioni. Trascuriamo pure la sentenza nel caso Ginievsky c. Francia[3], quando la Corte ritenne illegittima la condanna comminata da un tribunale francese a chi, commentando l’enciclica Veritatis Splendor di Ratzinger, aveva sostenuto la radice antisemita della religione cristiana e la conseguente responsabilità nell’Olocausto.

Resta, cruciale, che la Corte si è pronunciata su un caso specifico, ritenendo che l’Austria abbia diritto a una legislazione che sanziona la blasfemia, non certo che ogni paese europeo debba avere una legislazione del genere. In Europa la blasfemia è ormai depenalizzata quasi ovunque, nella cattolicissima Irlanda di recente con un referendum (oltre i due terzi dei voti). In Italia è stata depenalizzata dal 2009, attualmente sussiste solo un’ipotetica sanzione amministrativa, da 51 a 309 euro, ma solo se la bestemmia riguarda la divinità, nulla per contumelie rivolte alla Madonna o ai santi. 

Non solo, in un numero impressionante di documenti internazionali, che si occupano di contrastare ogni manifestazione di odio contro le religioni, ricorre l’invito a depenalizzare la bestemmia e a non introdurre il reato di blasfemia ove non sia vigente. L’8 settembre 2015 il Parlamento europeo ha anzi stigmatizzato «l’applicazione di leggi contro la blasfemia e l’insulto alla religione nell’Unione Europea, che possono avere un serio impatto sulla libertà di espressione, ed esorta [“urges”] gli Stato membri ad abrogarle».

Del resto, se la Convenzione europea dei diritti umani condannasse la blasfemia sarebbe stupefacente che la Francia l’avesse a suo tempo approvata. E non solo la Francia, ma la maggioranza dei paesi europei, abbiamo visto. Il riferimento a «doveri e responsabilità», menzionato da Vladimiro  Zagrebelsky, appare infatti in una frase che enumera i motivi per cui uno Stato può legittimamente porre alcuni limiti legali alla libertà d’espressione sul suo territorio[4]. Può. Nessun obbligo, dunque, di limitarla per sanzionare la blasfemia. 

Come ha spiegato la giurista Gwénaële Calvès[5], la posizione della Corte può dar luogo ad ambiguità solo se si dimentica che «le sue sentenze [in merito] riguardano decisioni di giustizia che applicano un diritto nazionale – per esempio austriaco – dove l‘ingiuria alla religione viene repressa”, e che “non concernono minimamente gli Stati che non condannano la blasfemia». In conclusione, né la Convenzione europea, né le sentenze della Corte europea forniscono un terreno solido per legiferare contro la blasfemia o consentirla, a meno che non si voglia trasformare alcuni giudici di quella corte, quelli che hanno redatto la sentenza a cui si riferisce Zagrebelsky, in guide etico-giuridiche supreme. 

Del resto, perché cercare di richiamarsi alla Convenzione europea e alle sentenze della sua Corte, se non si intende richiedere nessun cambiamento sul piano legislativo, visto che Zagrebelsky ha specificato che «non si tratta di prevedere punizioni»? Per suscitare l’impressione che sussistano argini morali autorevolmente evidenziati, per chi non intende sfuggire alle sue responsabilità? Ma quali sarebbero precisamente le prescrizioni morali da trarre a partire dalla sentenza della Corte europea? Quale dovrebbe essere secondo Zagrebelsky l’autolimitazione della libertà d’espressione, indotta dal senso di responsabilità, visto che «il sentimento religioso costituisce elemento tra i più essenziali dell’identità dei credenti»? 

Rinunciare alla blasfemia fuori di casa propria, a esprimerla in un giornale o altri media di relativa diffusione, o solo limitatamente a quelli di grande diffusione, o solo a reiterare la pubblicazione quando una prima uscita abbia provocato reazioni estreme e foriere di violenza da parte di gruppi di credenti, o qualche altra modalità? E l’incertezza non finisce qui, visto che l’argomento avanzato da Zagrebelsky - non offendere un sentimento che costituisce «elemento tra i più essenziali dell’identità» di un essere umano - non è di natura teologica, ma si appella piuttosto ad un umanismo nutrito di psicologia sociale. 

Ma allora deve valere anche nei confronti di non credenti, agnostici, atei. Di ogni tipo. Ad esempio, per senso di responsabilità, bisognerebbe evitare ogni offesa e satira oltraggiosa nei confronti di Marx, Engels o altre figure o simboli emblematici del marxismo. O di qualsiasi altra ideologia. A seguire una linea moralmente coerente si dovrebbe stabilire quali tipi di credenze o di appartenenza collettive abbiano diritto a essere tutelate rispetto agli strali della satira, senza discriminazioni tra credenti e non credenti. 

Allargare così il campo potrà sembrare capzioso, visto che non ci sono gruppi di marxisti pronti a commettere attentati come vendetta contro episodi di satira che dileggino figure o simboli emblematici del marxismo, perché gravemente offesi. Capzioso in realtà non è, perché serve a mostrare come nell’argomentazione di Zagrebelsky vengano confusi e scambiati i piani del discorso: quello generalmente morale, quello che eventualmente privilegia l’identità religiosa rispetto ad altre identità, quello che si riferisce alla Convenzione europea dei diritti umani, quello ancora più specifico che fa riferimento a una determinata sentenza della Corte europea. Zagrebelsky, finisce infatti per esigere la famosa “responsabilità” solo per quanto riguarda la blasfemia, e abbiamo anzi visto che per farlo deve appoggiarsi su una sentenza della Corte europea che riguarda unicamente la legittimità della legislazione austriaca applicata al tema specifico “Maometto”. 

Perché preferisce lanciarsi in complesse ed azzardate considerazioni morali a base di riferimenti giuridici invece di dirci chiaramente quale limiti riterrebbe opportuno porre all’espressione o alla diffusione di alcuni forme di satira e attraverso quali misure legali e relative sanzioni? Temo per motivi analoghi a quelli di Mongin e Schlegel. Con l’aggravante che Zagrebelsky è un giurista, perciò sorprende che preferisca, in fine dei conti, rimanere sul terreno piuttosto nebuloso delle ingiunzioni morali – destinate in genere a restare lettera morta – anziché percorrere quello  concreto e definito delle leggi e misure auspicabili.

A quale conclusione pratica lo porta tutto il suo ragionamento etico-giuridico?  All’interrogativo retorico, «se l’identità francese ed europea meriti veramente d’essere rivendicata con la difesa, senza un accenno di critica, della pubblicazione – e ripubblicazione – di quelle vignette». Visto che non si tratta di elemosinare per ciascuno il diritto a criticare le vignette che non ci piacciono, è evidente che Zagrebelsky vuole che venga sottoposto a critica il comportamento francese. Cosi apre la porta a coloro che rifiutano la solidarietà alla Francia di fronte alla campagna di boicottaggio dei suoi prodotti (e altre minacce velate) da parte di numerosi paesi arabi e con particolare virulenza da parte della Turchia reislamizzata di Erdoğan.  Ora, tutto ciò che indebolisce il dovere di solidarietà che i paesi europei si devono l’uno l’altro di fronte ad attacchi di fanatismo religioso, è dannoso: fa imboccare una china che passo passo potrebbe condurci fino ad una Monaco delle forze laiche

Non è certo mia intenzione difendere dogmaticamente il modello francese, e meno che mai esigere una sorta di unione sacra laica che metta la sordina ai disaccordi e ai problemi sotto una unità di facciata. Riflettiamo e discutiamo sul migliore modo di essere laici e di difendere le nostre libertà, ma facciamolo affrontando la questione pragmaticamente e con l’obiettivo di proporre delle misure concrete che possano essere discusse e valutate, non perdendoci in discorsi morali generici e contro-produttivi. 

Il senso della responsabilità, che Zagrebelski vorrebbe vedere più diffuso nel ambito della satira, deve valere tout azimut. L’islamismo, cioè l’uso politico della religione islamica, costituisce un nemico pericoloso, e più il nemico diventa pericoloso, più cresce la responsabilità. Questo deve portarci a serrare i ranghi non a dividerci. Ora, solo una linea di confine chiara e distinta, e di riconosciuta legittimità, può essere difesa collettivamente nel modo migliore. Principio che vale per gli Stati e per i cittadini. Irresponsabile è, allora, la critica che invece di aiutare a definire chiaramente una precisa linea di confine, tende a rendere le poste in gioco più generali e vaghe, diffondendo al tempo stesso sentimenti di colpa e di diffidenza – attenzione alla nostra arroganza, al nostro colonialismo, all’irresponsabile volgarità che offende i sentimenti religiosi dei credenti.

Insomma, chi vuole far avanzare la causa della laicità dovrebbe adottare una strategia inversa a quella di Mongin, Schlegel e Zagrebelsky. Invece di lanciarsi in considerazioni generali, morali o d’altro genere, che producono un clima equivoco di colpevolezza e diffidenza, affrontare questioni precise ­– cosa permettere e cosa proibire nello spazio pubblico, nelle scuole, ecc. – e proporre concrete misure politiche e giuridiche.


 
[1] Nello Rossi, Adattarsi alla libertà. Per onorare Samuel Paty, in Questione Giustizia on line, 9 novembre 2020.

[2] Articolo 9, Libertà di pensiero, di coscienza e di religione: «1. Ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. 2. La libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla pubblica sicurezza, alla protezione dell’ordine, della salute o della morale pubblica, o alla protezione dei diritti e della libertà altrui».

[3] Ginievsky c. Francia, ric. 64016/00 (2006). Qui i fatti riguardavano un articolo intitolato L’obscurité de l’erreur e pubblicato su Le quotidien de Paris nel quale l’autore aveva sostenuto che alcuni passaggi dell’Enciclica papale Veritatis Splendor dimostravano la matrice antisemita della religione cristiana e la responsabilità della sua dottrina anche nello sterminio degli ebrei. La Corte ha però riconosciuto che la condanna in sede civile subita dal ricorrente era stata una restrizione illegittima ai sensi dell’art. 10 CEDU, sia perché il contenuto dell’articolo non poteva essere ritenuto un’offesa a tutta la comunità cristiana, sia perché, in una società democratica, esso era di fondamentale interesse pubblico.

[4] Articolo 10, comma 2: «L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».

[5] Le Monde, 4 febbraio 2020.

17/12/2020
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