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Il Covid-19 e le disuguaglianze economiche

di Maurizio Franzini
Professore di Politica Economica, La Sapienza Roma
Sono molteplici gli aspetti del rapporto tra pandemia da Covid-19 e disuguaglianze economiche: dal ruolo che le disuguaglianze pre-esistenti possono avere nell'accrescere sia il rischio di restare vittima del virus sia la sua diffusione,  fino alle conseguenze che la pandemia potrà avere sulle disuguaglianze future

Introduzione

Spesso si dice che la tremenda pandemia da corona virus in atto, oltre a non conoscere confini geografici non distingue tra ricchi e poveri. Quest’ultima affermazione ha, naturalmente, un fondamento ed è, almeno in parte, conseguente alla fragilità dei confini geografici rispetto alla forza dirompente del contagio. Ma il rapporto tra il Covid-19 e le disuguaglianze non si esaurisce nel riconoscimento che lo status economico e sociale non discrimina perfettamente tra i sommersi e i salvati. Gli altri aspetti rilevanti sono numerosi; ne considererò quattro.

Il primo è l’influenza che le condizioni economiche di partenza hanno sull’esposizione al rischio di restare vittime del virus; le condizioni economiche più favorevoli non eliminano quel rischio, ma quelle più sfavorevoli possono, in vario modo, renderlo molto elevato. Analogo discorso può farsi per le conseguenze economiche della pandemia, che possiamo distinguere tra quelle dirette e quelle indotte dalle misure di contenimento del contagio.

Il secondo è la possibilità che le disuguaglianze iniziali fungano, attraverso vari canali, da moltiplicatore dei devastanti effetti della pandemia sulla salute e sull’economia.

Il terzo è la possibilità che, nel suo svolgersi, la pandemia trascini repentinamente nella povertà e nella deprivazione anche chi precedentemente occupava posizioni economiche di relativo privilegio, alterando il panorama della povertà e ponendo nuove domande ai sistemi di protezione sociale.

Il quarto è quello che potremmo chiamare il lascito duraturo della pandemia alla disuguaglianza. Su un orizzonte temporale più lungo, come risentirà la disuguaglianza di questa tremenda esperienza? Possiamo immaginare che la pandemia favorirà l’affermarsi di una società meno diseguale economicamente e più giusta o dobbiamo temere il contrario?

In queste note cercherò di delineare una risposta a questi quesiti, la cui rilevanza per porre mano a un disegno migliore delle nostre istituzioni economiche, nell’immediato e nel più lungo termine, appare di per sé evidente. Si tratterà inevitabilmente di risposte parziali, anche per l’ancora insufficiente disponibilità di elementi di conoscenza. La speranza è che non siano fuorvianti.

2. Le condizioni economiche, il rischio di contagio e la mortalità

È troppo presto per potersi esprimere con il sostegno dei dati sull’influenza che le condizioni economiche hanno sulla probabilità di restare contagiati e, cosa ancora più importante, sul rischio di non sopravvivere al contagio.

Si possono, tuttavia, indicare alcune ragioni per le quali sono maggiormente esposti a questi gravi rischi coloro che possiamo considerare deboli dal punto di vista delle loro condizioni economiche e che d’ora in poi chiamerò ‘poveri’ intendendo riferirmi non soltanto a coloro che sarebbero considerati poveri in base a una delle definizione ufficiali di povertà ma anche coloro che si collocano molto in basso nella scala dei redditi, pur non essendo poveri in senso proprio.

2.1 Poveri di reddito, deboli di salute 

La prima ragione sta nella forte correlazione tra condizioni economiche e condizioni di salute, messa in evidenza da numerose analisi.[1] I ‘poveri’ – e, soprattutto, i molto poveri – hanno stili di vita che accrescono i rischi per la salute. Risulta, infatti, che essi non facciamo esami per la prevenzione delle malattie e anzi pospongano le cure mediche o vi rinuncino del tutto. In Italia si stima che oltre 4 milioni di persone, cioè circa il 7% della popolazione rinuncia a quelle cure per motivi economici.[2] In paesi con sistemi sanitari meno universalistici del nostro il fenomeno può facilmente assumere dimensioni ancora maggiori.[3]

È anche degno di attenzione il fatto che tra povertà e salute può instaurarsi un perverso circolo vizioso. Infatti la povertà che genera problemi di salute finisce per alimentare, attraverso quegli stessi problemi, se stessa; dunque, può venire a configurarsi quella che è stata chiamata una “trappola della povertà indotta dalla malattia”. Tutto ciò può riguardare segmenti di popolazione che sono limitati nei paesi avanzati ma amplissimi in quelli meno sviluppati.

La prima conseguenza di tutto ciò è che la speranza di vita dei ‘poveri’ è significativamente più bassa; tuttavia ai nostri fini l’aspetto rilevante riguarda le malattie croniche: i ‘poveri’ le contraggono con maggiore facilità e, soprattutto, a un’età più bassa. Secondo alcune stime malattie croniche quali il diabete, problemi polmonari e disturbi cardio-vascolari nei ‘poveri’ si manifesterebbero fino a 15 anni prima che nel resto della popolazione: a 55 invece che a 70 anni.[4] Come è noto il tasso di mortalità a causa del Covid-19 è notevolmente più alto in presenza di malattie croniche come quelle appena sopra elencate. Di conseguenza, le condizioni economiche disagiate accrescendo la probabilità di contrarre quelle malattie accrescono significativamente il rischio di restare vittime del virus.

2.2 Poveri di tutele, ricchi di contagi

Le condizioni economiche negative spesso si accoppiano – e perfino derivano – da condizioni di lavoro precarie e poco protette. La varietà di forme contrattuali del lavoro è, come noto, amplissima e tale varietà costituisce un grave problema in questa fase di interventi di sostegno economico perché molti lavoratori sono privi di strumenti di protezione e non è facile raggiungerli tutti con provvedimenti di emergenza, come ben risulta dai decreti emanati dal nostro governo nel mese di marzo.[5]

La debolezza contrattuale e l’assenza di adeguate protezioni sociali (dalle indennità di malattie a forme di integrazione del reddito in caso di assenza dal lavoro) fanno sì che i lavoratori con i redditi più bassi frequentemente cerchino di continuare a lavorare anche quando le condizioni di salute consiglierebbero di farne a meno.

Naturalmente il fenomeno si aggrava se non si ha diritto a ricevere l’indennità di malattia nel caso di assenza dal lavoro; e questo rischio è più elevato per coloro che percepiscono bassi redditi da lavoro. Ad esempio si stima che negli Stati Uniti il 90% di coloro che percepiscono un reddito che li colloca nel 25% più pagato hanno congedi per malattia retribuiti mentre questo vale soltanto per il 47% di quanti si collocano nel 25% più povero.

Alcuni studi trovano che il fenomeno del contagio indotto dalla presenza al lavoro dei contagiati ha assunto, in passato, dimensioni rilevanti. Nel caso dell’epidemia di H1N1, che negli Stati Uniti uccise circa 12,500 persone tra il 2009 e il 2010, il 27% dei contagi sarebbe stato dovuto a comportamenti di questo tipo; ad esempio, i lavoratori del settore della ristorazione, soprattutto quelli part-time, continuarono a lavorare pur presentando evidenti sintomi della malattia.[6]

È troppo presto per pronunciarsi sull’entità del fenomeno nella pandemia in corso. Appare, però, indiscutibile che nelle fasi precoci dell’epidemia, quando non sono ancora operative misure di distanziamento sociale nonché di protezione sociale anche per i più deboli, comportamenti come quelli appena indicati possono essere frequenti. D’altro canto per coloro che continueranno a lavorare è cruciale che il management delle imprese adotti misure in grado di ridurre il rischio di contagio. Quando i lavoratori sono deboli è più difficile che ciò accada e alcuni episodi recenti sembrano confermarlo.[7]

Le conseguenze negative di tutto ciò sono molteplici: peggiorano le condizioni di salute dei già contagiati; cresce il numero di contagiati, e non soltanto tra ‘pari’ in termini di condizioni economiche: anche i meno deboli economicamente saranno coinvolti. È come se la ‘povertà’ agisse da moltiplicatore interclassista del contagio. Un aspetto del problema sul quale tornerò nelle conclusioni.

2.3 Ambienti degradati, rischi amplificati

Ad accrescere il rischio di esposizione dei ‘poveri’ ai rischi per la salute, concorrono le peggiori condizioni ambientali e di contesto in cui essi vivono. Un caso-limite è quello degli estremamente poveri che vivono in campi ove, ad esempio, non sono garantite condizioni igieniche minime e dove la possibilità del distanziamento sociale è preclusa. Si pensi ai campi dei rifugiati o anche ai campi rom nei paesi avanzati e si pensi alle ‘normali’ condizioni di vita in molti paesi africani le quali generano enormi preoccupazioni di fronte alla possibilità che, come purtroppo sembra difficilmente evitabile, l’epidemia si diffonda anche in quel continente.

Al di là di casi estremi come questi, il disagio economico si riflette in condizioni abitative che limitano il distanziamento sociale e che di certo non consentono, ad esempio, di trovare riparo nelle seconde case spesso localizzate in aree più sicure con effetti, peraltro, di aggravamento delle condizioni di vita dei locali, come documentano alcune recenti cronache riferite agli Stati Uniti.[8]

Nelle condizioni di contesto rilevanti per il nostro ragionamento rientra, naturalmente, anche la facilità di accesso a servizi sanitari adeguati. La correlazione tra tale facilità e il reddito medio a livello territoriale è, in generale, elevata e ciò vale non soltanto nel confronto tra aree del mondo, ma anche tra territori all’interno di un paese. Al riguardo un fattore importante, tra molti altri, in caso di pandemie che generano domande straordinarie di servizi sanitari specializzati è la disponibilità di adeguate attrezzature. Una recente analisi riguardante specificamente gli investimenti in sanità (quindi non tutta la spesa sanitaria) mostra notevoli differenze territoriali nella tendenza di quegli investimenti con valori nettamente più bassi nelle aree più povere del nostro paese. [9]

Nel complesso si può, dunque, affermare che se ci riferiamo non soltanto ai singoli individui ma ai territori, quelli più ‘poveri’ offrono meno garanzie di protezione sanitaria e, dunque, in caso di diffusione del contagio, è particolarmente elevato il rischio dei più ‘poveri’ di quei territori ‘poveri’.

In conclusione, le avverse condizioni economiche possono, attraverso vari canali, contribuire ad accrescere i rischi per la salute indotti dalla pandemia. Come si è già detto ciò non equivale ad affermare che i più agiati sono al riparo da ogni rischio. Ma è ben fondata la tesi che dopo l’iniziale focolaio, che può anche colpire in prevalenza i più agiati, chi si trova in condizioni economiche peggiori ha meno opportunità di fronteggiare con successo il rischio e, inoltre, può facilmente essere un vettore di moltiplicazione del contagio e delle sue conseguenze economiche e sociali. Non sorprende, quindi, che una ricerca condotta in occasione di un’epidemia influenzale a New Haven, abbia trovato un tasso di contagio quasi doppio nelle aree dove un’ampia quota di popolazione viveva in condizioni di povertà.[10]

Naturalmente, gli interventi del governo, una volta manifestatasi l’epidemia così come le misure di protezione sociale già esistenti, svolgono un ruolo essenziale anche da questo punto di vista. Tuttavia, come vedremo, le pre-esistenti disuguaglianze non sono senza effetti anche sulla possibilità di introdurre misure di rapida efficacia.

3. Le conseguenze economiche della pandemia: i già "poveri" e chi non lo era

Le conseguenze immediate di natura economica della pandemia hanno due origini: i cambiamenti nei comportamenti spontanei delle persone; i vincoli imposti dai governi nel tentativo di contenere la diffusione del contagio, in particolare attraverso la ‘chiusura’ delle attività che non consentono il necessario ‘distanziamento sociale’.

In assenza di forme adeguate di protezione sociale coloro che operano in questi settori saranno duramente colpiti. Può essere utile riportare la stima, effettuata dall’Istat, del numero di occupati ‘sospesi’, per effetto della chiusura delle attività in cui sono impiegati, e delle loro posizioni contrattuali.[11]

Si tratta di circa 8 milioni di lavoratori, quindi approssimativamente 1/3 di tutti gli occupati. I settori di attività più interessati sono, in ordine di importanza, l’industria in senso stretto, il commercio, gli alberghi e la ristorazione, l’edilizia. Soltanto poco più della metà degli occupati ‘sospesi’ hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato (4,5 milioni); infatti, 2,2 milioni di lavoratori sono autonomi (in grande maggioranza senza dipendenti) e più di un milione hanno contratti a termine.

Questi dati indicano che è molto consistente la quota di lavoratori ‘sospesi’ che non dispone di adeguate forme di protezione in caso di disoccupazione e che, presumibilmente, percepiva redditi da lavoro molto bassi. Ma è indubbio che in assenza di protezione sociale e di altre entrate, rischia di azzerarsi anche il reddito di chi non rientrava nella categoria dei ‘poveri’; per non pochi è elevato il rischio di vedersi improvvisamente catapultato in quella categoria. Se non si ha accesso a istituti di integrazione del reddito in questi casi è decisiva, per non cadere nell’indigenza, la disponibilità di risorse monetarie e finanziarie (o comunque prontamente liquidabili) accumulate in passato.

Ciò rende evidente quanto sia importante, per valutare la effettiva vulnerabilità delle persone di fronte a shock improvvisi e violenti, considerare anche la loro ricchezza e suggerisce che nel calcolare la povertà, diversamente da quanto oggi si fa, si tenga conto anche delle risorse finanziarie di cui si dispone. [12] Redditi elevati senza questi cuscinetti finanziari possono determinare un improvviso scivolamento nel baratro.

Al riguardo è anche utile ricordare quanto emerge da indagini campionarie europee dirette a rilevare quella che viene chiamata deprivazione economica e che si può manifestare anche in assenza di povertà economica, come normalmente rilevata. Si considera che una famiglia si trovi in condizioni di deprivazione economica se sperimenta almeno 4 tra 9 ipotizzate condizioni di grave disagio.[13] I dati al riguardo sono abbastanza impressionanti: nel 2018 il 32,8% della popolazione dell’Unione Europea a 28 si trovava in questa condizione. In Italia la percentuale era ancora maggiore: 34,4%.

Tra le 9 condizioni di disagio ve ne è una che riguarda la difficoltà a fare fronte a una spesa imprevista di 800 euro. Dunque, adattando la condizione al nostro problema, una quota molto rilevante delle nostre famiglie si troverebbe in seria difficoltà se si interrompesse un flusso di reddito di quell’ammontare. Il cuscinetto finanziario, per loro, semplicemente non esiste. E se non ci sono (e per molti non ci sono) o non si attivano trasferimenti pubblici l’esito non può che essere la disperazione e forse anche la rivolta sociale.

A questo proposito, una considerazione rilevante sembra essere la seguente: l’estrema frammentazione delle forme contrattuali, l’assenza di istituti di tipo assicurativo per diverse tipologie di lavoro nonché l’estesa area dei lavori cosiddetti informali concorrono in vario grado a determinare una situazione nella quale non soltanto è elevato il numero di coloro che non hanno diritto a prestazioni sociali ma è anche estremamente difficile, nell’emergenza, intervenire in modo rapido ed efficace riuscendo, e, soprattutto, ad alleviare tutte le situazione più drammatiche: quelle in cui alla mancanza di reddito si accoppia l’assenza di ‘cuscinetti’. La scelta ‘tragica’ in queste condizioni è, anche prescindendo dai problemi finanziari, se non dare a nessuno per non rischiare di dare a chi non ne necessita o dare a tutti, quindi anche a chi non ne necessita (perché, ad esempio, ha un adeguato cuscinetto).

La maggiore esposizione dei ‘poveri’ alle conseguenze economiche della pandemia si manifesta anche in un altro modo. Mi riferisco, in particolare, alla possibilità che i figli dei ‘poveri’ soffrano di più a causa di misure come la chiusura delle scuole sia perché, nei casi estremi, perdono la possibilità di accedere a pasti gratuiti, sia perché possono non disporre degli strumenti informatici necessari per una proficua partecipazione all’insegnamento a distanza. Si pensi a una famiglia di ‘poveri’ con più di un figlio minore che dovrebbe disporre di più di un computer nonché di spazio adeguato in casa. Il rischio è un ulteriore restringimento delle opportunità di apprendimento per questi ragazzi e quindi l’aggravarsi della prospettiva di una vita adulta in condizioni di ‘povertà’. La scuola, pur con tutti i suoi limiti, concorre a ridurre le disuguaglianze di opportunità e lo fa anche attraverso modalità che non possono essere replicate quando viene meno la classe, l’edificio scolastico, il contatto con l’insegnante, nonché gli eventuali altri servizi offerti.

Prima di chiudere questo paragrafo è utile ribadire che, per le ragioni indicate, forme severe di deprivazione e di drastico ridimensionamento delle opportunità possano essere sperimentate anche da chi, prima della pandemia, non rientrava tra i ‘poveri’, almeno in termini di reddito. Dunque, il reddito di mercato senza ricchezza e senza forme di protezione sociale non costituisce di per sé uno scudo adeguato contro i potenziali, devastanti effetti economici della pandemia. I sistemi di welfare forse dovrebbero, tempestivamente, porsi anche questo problema.

La pandemia e la disuguaglianza futura

Prima di concludere possono essere utili, allungando lo sguardo avanti nel tmpo, alcune considerazioni sugli effetti che la pandemia potrebbe avere sulla disuguaglianza futura.

Pregevolissime analisi storiche delle pandemie, e di altri disastri, avanzano l’ipotesi che esse abbiano avuto effetti durevoli di riduzione delle disuguaglianze. È questa la tesi di Scheidel e, in una certa misura, anche di Cipolla.[14]

Semplificando si può dire che il meccanismo principale che viene invocato è quello della ‘scarsità’ di lavoratori in conseguenza della mortalità da pandemia che determinerebbe redditi da lavoro più alti a scapito di quelli da capitale e delle rendite. Non vi sono ragioni per dubitare che questo meccanismo abbia funzionato in passato, ma è estremamente dubbio che esso sia di qualche rilevanza nel caso della pandemia da Covid-19. Le ragioni per sostenere questa tesi sono molteplici. Anzitutto è sperabile che il numero di morti resti di dimensioni insufficienti a produrre effetti rilevanti sulla popolazione ed in particolare su quel suo segmento che può essere attivo sul mercato del lavoro. Infatti sembra che il virus si abbatta con esiti letali principalmente su persone di età molto avanzata, già uscite dal mercato del lavoro. L’esito non sarà certamente una riduzione dell’offerta di lavoro. Al massimo si potrà avere una (macabra) riduzione della spesa pensionistica. Se si considera che quest’ultima contribuisce a ridurre la disuguaglianza nei redditi disponibili [15] l’effetto ‘automatico’ – se ci sarà –sarà più probabilmente avverso e non favorevole alla riduzione delle disuguaglianze.

Un fenomeno indotto dalla pandemia che rischia di avere implicazioni di aggravamento non solo della disuguaglianza ma anche della complessiva distribuzione del potere economico (e non soltanto) riguarda la possibilità che i cosiddetti ‘giganti della rete’ escano ulteriormente rafforzati da questa emergenza. Assistiamo, infatti, alla crescita della domanda dei loro servizi, inclusi quelli di vendita online i cui effetti sono già ben visibili ad esempio nelle 100.000 assunzioni addizionali preannunciate da Amazon nei suoi vari stabilimenti dislocati nel mondo.

Tali assunzioni sono, naturalmente, del tutto insufficienti per compensare le perdite occupazionali nei settori tradizionali, ma indicano chiaramente che questa pandemia rischia di rafforzare chi già aveva una posizione di tipo monopolistico nel mercato con conseguenze negative ampiamente accertate sulla distribuzione dei redditi. Quei ‘giganti’ distribuiscono poco reddito ai lavoratori, specie i più ‘deboli’, e molto, moltissimo reddito ai manager; in più il contributo che danno alle casse dello Stato attraverso il pagamento di imposte è quasi sempre irrisorio per la poco responsabile corsa di alcuni stati a riservare loro condizioni fiscali particolarmente vantaggiose.

Di ciò risentono, anche in termini di disuguaglianza, tutti quei paesi nei quali quei giganti fanno enormi profitti ma praticamente non pagano imposte. Di fronte alle sofferenze sociali che la pandemia sta creando, e alle difficoltà, spesso ben poco comprensibili, di mobilitare a livello europeo le risorse necessarie per limitarle provoca amare riflessioni la considerazione che i privilegi fiscali concessi a quei giganti da alcuni paesi europei (tra cui almeno uno che si mostra oggi così sensibile al rigore di bilancio da essere quanto meno riluttante a permettere e sostenere l’indebitamento di chi deve affrontare tremende emergenze) abbiano limitato la possibilità che misure essenziali di mitigazione dei più gravi disagi siano già in atto.

Un’analisi più approfondita delle conseguenze di lungo termine della pandemia dovrebbe prendere in considerazione anche altri effetti potenziali, ad iniziare da quelli che riguardano il funzionamento dei mercati finanziari.

Ma la nostra analisi si può concludere qui con una indicazione di ordine generale: le politiche, a tutti i livelli, dovranno essere estremamente attente a frenare i rischi di aggravamento delle dinamiche che negli scorsi decenni hanno prodotto crescente disuguaglianza nei mercati[16] e che possono trarre perverso alimento dalla pandemia che di certo non produrrà un automatico miglioramento delle disuguaglianze. Se quelle politiche mancheranno il futuro per i ‘poveri’ potrebbe essere perfino peggiore del loro passato. E una variabile decisiva, e di enorme rilevanza è, anche a questo riguardo, cosa accadrà alla democrazia per effetto della pandemia. La speranza è che anche grazie alla capacità di alleviare le forme più gravi di disagio a cui si è fatto cenno in queste note, la democrazia esca rafforzata da questa terribile contingenza e favorisca l’assunzione di decisioni attente al benessere del più gran numero di persone. 

Conclusioni

Il tentativo, condotto in queste note, di riflettere sui molteplici rapporti tra pandemia, da un lato, e disuguaglianza economica, dall’altro, è necessariamente parziale. Tuttavia esso consente di formulare alcune considerazioni, collegate alle questioni poste nell’Introduzione, che appaiono rilevanti sia per comprendere le tendenze in atto sia per migliorare, su un più lungo orizzonte temporale, il disegno delle istituzioni da cui dipende tanto la dinamica della disuguaglianza economica quanto la possibilità di limitare i danni devastanti che shock drammatici come la pandemia da Covid-19 possono provocare.

La prima considerazione è che una pandemia può diffondersi più facilmente in un contesto di alte disuguaglianze economiche e di limitata protezione sociale con effetti gravissimi in termini di letalità e di indigenza economica. Spesso è stata chiamata in causa la globalizzazione come responsabile della diffusione di Covid-19 Sarebbe bene tenere presente anche il ruolo delle disuguaglianze e della limitata tutela del lavoro e dei diritti sociali.

La seconda considerazione è che i ‘poveri’ presentano specifiche modalità di esposizione ai rischi di salute ed economici e la loro debolezza rischia di trasformarsi in fattore di propagazione interclassista dei danni della pandemia. Rilevanti, a questo riguardo, sono non soltanto i ricordati fattori relativi ai comportamenti rispetto al lavoro ma anche la difficoltà per i lavoratori stagionali di proseguire nelle loro attività ‘informali’ in periodi di lockdown con la conseguenza di mettere ulteriormente in pericolo la capacità di produzione in alcuni settori, ed in particolare – nel caso italiano – del settore alimentare. La debolezza economica e contrattuale di quei lavoratori diviene causa di danni economici per tutti. Tra i costi sociali potenziali della disuguaglianza forse andrebbe incluso anche questo.

La terza considerazione è che la frammentazione delle forme contrattuali, con il corredo di diversità nel trattamento economico e nella tutela rispetto ai rischi sociali, crea condizioni che rendono estremamente più difficile intervenire in modo rapido ed efficace in situazione devastanti come la pandemia. Una considerazione collegata è che sarebbe opportuno predisporre misure in grado di assicurare un immediato accesso alla liquidità in caso di improvviso azzeramento del reddito (che può colpire anche chi ‘povero’ non era) e di assenza dell’una o l’altra delle condizioni che permettono di intervenire immediatamente a sostegno di chi ne resta vittima.

La quarta considerazione è che sarebbe estremamente pericoloso fare affidamento su un presunto automatico effetto positivo della pandemia sulle future disuguaglianze. Il pericolo è esattamente opposto. E questo ci conduce all’ultima considerazione: per limitare la disuguaglianza occorrono ben calibrati interventi in grado di rovesciare le tendenze di atto ormai da qualche decennio. Ridurre la disuguaglianza, e farlo con quanta più ragionevolezza è possibile, significa non soltanto rendere la società più giusta nell’immediato ma anche limitare il pericolo che essa diventi orrenda per larghi strati della popolazione al verificarsi di eventi estremi. Che sono difficili da prevedere, ma che sono e saranno parte della nostra storia, e perciò richiedono precauzione. Una precauzione che si può finanziare attingendo risorse dove queste abbondano, accedendo così alla possibilità di costruire una società più giusta oggi e più resiliente nel meno favorevole dei domani. Un progetto difficile da avviare nel contesto politico contemporaneo, ma forse Covid-19 ci dice che è giunto il momento di prenderlo sul serio.

 

 

[1] Sul tema delle disuguaglianze di salute e del loro rapporto con le disuguaglianze economiche si veda, tra gli altri, J.P. Mackenbach, Health Inequalities: Persistence and change in European welfare states, Oxford University Press, 2019.

[2] Cfr. Istat, Rapporto annuale 2017. La situazione del Paese, 2017.

[3] Ad esempio negli Stati Uniti, dove come è noto il sistema sanitario è basato largamente su assicurazioni private, lo scorso anno, secondo un’indagine Gallup, il 26% della popolazione ha posposto le cure mediche perché non riusciva a far fronte alle corrispondenti spese.

[4] Cfr. I.T. Elo, “Social Class Differentials in Health and Mortality: Patterns and Explanations in Comparative Perspective”, Annual Review of Sociology, vol. 35, 2009, pp. 553-572. https://www.annualreviews.org/doi/abs/10.1146/annurev-soc-070308-115929.

[5] Per un’analisi accurata del primo decreto del 17 marzo, anche sotto questo aspetto, si veda l’audizione del presidente dell’UPB al Senato, http://www.upbilancio.it/audizioni-parlamentari-2/ 

[6] R. Drago e K. Miller, “Sick at Work: Infected Employees in the Workplace During the H1N1 Pandemic”, Institute for Women’s Policy Research Briefing Papers, Febbraio 2010.

[7] Il riferimento principale è al caso di Amazon accusata dai lavoratori di non prendere adeguate misure di contrasto del rischio anche dopo che uno dei suoi lavoratori è stato trovato affetto dal virus e che sembra aver reagito a queste proteste con un licenziamento. Cfr. https://www.businessinsider.com/amazon-fires-warehouse-worker-led-strike-protest-covid19-cornavirus-response-2020-3?IR=T

[8]

Cfr. T. Tully e S. Stowe, “The Wealthy Flee Coronavirus. Vacation Towns Respond: Stay Away”, The New York Times, 25 marzo 2020.

[9] Cfr. G. Viesti, “Gli investimenti pubblici nella sanità italiana 2000-2017: una forte riduzione con crescenti disparità territoriali”, Menabò di Etica e Economia, 121/2020, https://www.eticaeconomia.it/gli-investimenti-pubblici-nella-sanita-italiana-2000-2017-una-forte-riduzione-con-crescenti-disparita-territoriali/.

[10] S. Kumar, K. Piper, D.D. Galloway, J.L. Hadler e J.J. Grefenstette, “Is population structure sufficient to generate area-level inequalities in influenza rates? An examination using agent-based models”, BMC Public Health, Settembre 2015, https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/26400564.

[11] I dati sono tratti dalla Memoria presentata dall’Istat alla 5° commissione programmazione economica e bilancio del Senato in data 26 marzo 2020.

[12] Per un contributo molto utile a questo riguardo si veda: A.Brandolini, S.Magri e T.M. Smeeding, “Asset-based measurement of poverty”, Temi di discussione Banca d’Italia, 755, Marzo 2010.

[13] Le nove condizioni sono: impossibilità di permettersi: – una settimana di vacanza fuori casa; – un pasto con carne, pollo, pesce o equivalente vegetariano ogni due giorni; – un telefono (incluso il cellulare);- una TV a colori;- una lavatrice;- un’auto; riscaldamento per mantenere la casa adeguatamente calda. Inoltre difficoltà a fronteggaire spese impreviste per 800 euro e ritardo nei pagamenti di mutui o affitti, bollette, rate di acquisto a rate o altri pagamenti di prestiti.

[14] Cfr. W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, Il Mulino, 2019 (ed. orig, The Great Leveler. Violence and the History of Inequality from the Stone Age to the Twenty-first Century, Princeton University Press, 2017); C.M. Cipolla, Miasmi ed umori. Ecologia e condizioni sanitarie in Toscana nel Seicento, Il Mulino, 1989.

[15] Cfr. M. Franzini e M. Raitano, “Le tendenze della disuguaglianza dei redditi disponibili e di mercato”, in Il mercato rende diseguali? La disuguaglianza dei redditi in Italia, a cura di M. Franzini e M. Raitano, Il Mulino, 2018. 

[16] Per un’analisi, riferita soprattutto al nostro paese, di queste dinamiche e delle politiche più appropriate per farvi fronte si rimanda a M. Franzini e M. Raitano (a cura di), Il mercato rende diseguali? op. cit.

08/04/2020
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