Magistratura democratica
Magistratura e società

Un ricordo di Johan Galtung *

di Adolfo Ceretti
professore ordinario di criminologia nell'Università di Milano-Bicocca

0. Un uomo chiamato Johan Galtung

«Esistono esseri umani senza contraddizioni. Si chiamano cadaveri» (Detto cinese citato più volte da Johan Galtung nei suoi scritti e nei suoi discorsi).

«Quasi tutti gli uomini muoiono per via dei loro rimedi, non delle loro malattie» (Molière).

Questi due exergo possono davvero aiutarci ad avvicinare il cosmo infinito che ha preso quale nome e cognome Johan Galtung.

Galtung – che ci ha lasciati il 17 febbraio 2024 dopo 93 anni di intensissima vita su questa terra – è stato, infatti, autore di decine di volumi, di migliaia di articoli scientifici e divulgativi, ma soprattutto è stato capace di materializzarsi in poche ore da un capo all’altro del mondo per condividere passaggi nodali del suo pensiero o per affrontare, con diversi attori, conflitti che potevano coinvolgere due persone, due comunità, due popoli, due nazioni, due continenti, due visioni del mondo. Basti pensare che Galtung ha avuto un ruolo non di secondo piano – descritto magistralmente nel suo libro Searching for Peace (2002) – alla fine della Guerra Fredda.

C’è chi, come il professore Giovanni Scotto, per definire il suo lavoro intellettuale è ricorso all’espressione «jazz del pensiero», perché Galtung «prende un tema, lo estende, "improvvisa" basandosi su conoscenze vastissime e metodologie sempre diverse, si fa ispirare da altri campi del sapere (la matematica, la chimica, la biologia, la medicina), arricchendo e trasfigurando la melodia di base», tutto questo muovendosi ben oltre gli orientamenti che provengono dalla tradizione occidentale. Se è pur vero che quest’ultima è quella di riferimento principale – sia perché Johan nasce in Occidente, sia perché tale tradizione è imprescindibile –, egli ha spaziato includendo, nel suo universo simbolico e di conoscenze, riferimenti in termini‐concetto di culture come quella nipponica, indiana o cinese.

Nonostante sia stato un uomo di sconfinate e profonde letture il suo consiglio, «quando un problema comincia a bruciare dentro, è non leggere la letteratura al riguardo». Il motivo è semplice: «si rimarrà paralizzati» reputando che ci sarà sempre ancora da leggere un altro libro e non si arriverà mai ai propri pensieri, quelli che in lui – come ha scritto nel 1979 – scorrevano nelle ore più strane; l’alba o la notte fonda.

 

1. Galtung, la difesa difensiva, Danilo Dolci, il viaggio, l’accademia statunitense

Come è noto, Johan Galtung nacque a Oslo il 24 ottobre 1930. Già a quattordici anni visse in modo diretto, sulla sua pelle, le ricadute più atroci che può portare la guerra: suo padre venne sequestrato mentre si trovava nella sua abitazione dagli occupanti nazisti e tenuto prigioniero, in un campo di concentramento non lontano da casa, per parecchi mesi. Johan ne trasse spunto per riflettere, negli anni a venire, sui testi di Gandhi, sulla resistenza nonviolenta norvegese e su proposte di “difese alternative”, dalle quali maturerà l’idea della difesa difensiva. Completati gli studi si dichiarò obiettore di coscienza al servizio militare scontando sei mesi di carcere duro, che divennero – in ragione di queste premesse – occasione di studio e di scrittura. È proprio in questo arco di tempo che Galtung iniziò a interessarsi in modo sistematico allo studio della satyagraha, il metodo di lotta gandhiano che stabilisce un nesso inscindibile tra i mezzi e i fini dell’azione politica.

La nonviolenza ha rappresentato dunque, per Galtung, una fonte d’ispirazione precoce, e ne costituirà sempre un punto di riferimento.

Qui tengo molto a ricordare che negli anni 1956 e 1957 egli trascorse un periodo in Sicilia per sostenere Danilo Dolci – nato peraltro nel Carso e poi trasferitosi a Trapetto. Dolci, a quell’epoca aveva avviato un vasto programma di denunce nei confronti della violenza mafiosa che, tra le tante sue nefandezze, costringeva alla disoccupazione forzata. Per le sue scelte nonviolente Danilo fu definito da molti – e in particolare dallo stesso Galtung – il “Gandhi di Sicilia”. L’amicizia e la collaborazione continueranno, tra i due amici, fino alla morte di Dolci (1997), incentrandosi soprattutto sulle cause e sulle forze che guidano le transizioni dalle società tradizionali alle società moderne.

Dall’incontro con Dolci nel mondo interiore di Johan si delineò, in nuce, quella che diverrà una differenziazione marcata del suo pensiero in relazione al “conflitto”: da una parte egli edificò il suo… galtunismo, dall’altra collocò l’orientamento della conflict resolution – quella scuola di pensiero statunitense vicina al behaviourismo che privilegia gli interventi sui comportamenti individuali, assai lontana da un’analisi dei mutamenti strutturali necessari per combattere ogni forma di sfruttamento.

Un altro elemento che entra prepotentemente e precocemente nella vita di Galtung è il viaggio, che divenne un modo di concepire la propria esistenza, occasione di riflessione, di cambiamento. Basti pensare che tra il 1953 e il 1989 – alla continua ricerca di approcci costruttivi e di terze vie – egli visitò per ben venticinque volte Unione Sovietica e i suoi paesi satellite, tanto che i servizi segreti norvegesi iniziarono a tenerlo sotto controllo. Di più, durante la rivoluzione di Praga, Galtung prese un treno notturno, e dopo aver raggiunto la città in sommossa iniziò a distribuire alcune centinaia di copie del suo saggio sulla difesa difensiva.

Reputo che in questo mio memoir qualche parola vada dedicata alla formazione accademica di Galtung. Mi limito a ricordare, allora, che dal 1957 al 1960 egli frequentò il Department of Sociology della Columbia University in qualità di Assistant Professor. Il contatto con la vivacità teoretica e metodologica che animava quell’Ateneo in quell’epoca, con i grandi pensatori nel campo della sociologia che lo abitavano, hanno ampiamente segnato il suo percorso intellettuale. Tra questi Maestri vanno citati almeno Pitirim Aleksandrovič Sorokin – autore di Social and Cultural Dynamics, pubblicato nel 1957 –, Paul Felix Lazarsfeld – tra i fondatori del Bureau of Applied Social Research – e Robert Merton, uno studioso assai stimato da Johan, del quale però egli criticò spesso il suo grado di astrazione. Galtung fu consapevole dell’influenza che ebbe su di lui lo studioso dell’anomia e della devianza, e lo scrisse apertamente benché alle lodi affiancasse considerazioni sulla «quasi totale assenza, in quegli anni e in quell’Università, di ogni specifico interesse riguardo alla verticalità», vale a dire l’assenza di interesse per le relazioni fra classi, fra etnie – il che comportò di arrivare a concepire, fondamentalmente, l’antisemitismo come un problema di “comportamento” e di “percezione”. Un limite, questo – come scrisse nei suoi Essays in Peace Research –, che non faceva altro che riprodurre «la solita storia delle scienze sociali in quei giorni».

Cito queste frasi perché, reputo, è proprio a partire dall’acquisizione di questa consapevolezza – alla quale contribuì significativamente l’incontro con Dolci – che nacque l’idea di portare a compimento una “scienza per la pace”, che fin da quegli anni doveva, nella vision galtuniana, essere in grado di tenere insieme il campo di tensione tra il rigore scientifico – da una parte –, e l’introduzione del mondo dei valori – dall’altra.

Grazie a Galtung la Peace research acquisì uno statuto scientifico più ampio della visione prevalentemente giuridica delle relazioni internazionali, approdando a un approccio olistico, fondato su una sociologia impegnata, appunto, per la pace. In breve, con Galtung la nonviolenza entrerà finalmente nelle accademie, riconosciuta e accettata come metodo di indagine scientifica e di trasformazione sociale non violenta, a partire dalla consapevolezza che il conflitto di per sé può non essere distruttivo ma – per contro – occasione di sfida e cambiamento.

 

2. Peace Research

Le prime correnti della Peace research si svilupparono, dunque, nel contesto politico statunitense dopo la Seconda guerra mondiale, contemporaneamente alle ricerche nel settore dei cosiddetti “studi strategici”.

Generalizzando, è ancora oggi ben salda una differenza – che rischia, peraltro, di riprodurre uno stereotipo – che collega i ricercatori nel campo degli studi strategici a una visione “conservatrice” della politica mondiale, mentre invece i Peace Researcher, i cosiddetti “pacifisti”, avrebbero perseguito, fin dall’inizio, obiettivi differenti: più nel dettaglio, i seguaci degli studi strategici non si proponevano di influenzare la realtà politica, ma svolgevano una ricerca finalizzata a soli fini euristici, mentre gli studiosi di Peace Research si posero da subito interrogativi “normativi” su come uscire, per esempio, dalla Guerra fredda o come realizzare il disarmo – tanto per citarne alcuni.

In Europa, fin dagli anni Sessanta del Novecento, Galtung criticò gli studiosi della prima generazione di Peace Research, soprattutto per come concepivano la pace come assenza di guerra, e non come pace (positiva) legata alla realizzazione di tutte le potenzialità umane, e quindi anche allo sviluppo economico, alla giustizia sociale etc. Sotto questo punto di vista, Johan promosse il formarsi di una nuova corrente di studiosi – quella dei cosiddetti “costruttivisti” – che nel dibattito sulla politica mondiale introdusse, anche in questo campo, i valori della socialdemocrazia.

In particolare, i Peace Researchers che si riunirono negli anni Ottanta intorno a Galtung elaborarono il concetto di «transarmo», che prende forma dall’osservazione dei modelli offerti dai Paesi neutrali europei che adottavano armi e strategie di«difesa difensiva», ovvero non offensiva, non provocatoria, volta a definire che solo chi dispiega armi può tollerare che altri lo facciano – limitatamente, però, alla difesa, non all’offesa, all’attacco, alla guerra. Questa strategia richiede armi e piattaforme a corto raggio, campi minati, veicoli armati, bombe intelligenti, armi semi automatiche, artiglieria costiera, elicotteri, difesa aerea, il tutto finalizzato unicamente alla difesa.

 

3. Tre aree concettuali: conflitto, violenza, modalità per trascendere i conflitti

Desidero ora concentrarmi – anche se in modo schematico e molto sintetico – su tre aree concettuali certamente costitutive del pensiero di Galtung e che possono aiutare ad avere una percezione della vastità del suo sguardo e delle traiettorie che ha assunto nel corso degli anni.

 

3.1. Iniziamo con la parola conflitto

Lapidariamente, sappiamo che ogni forma di conflitto possiede una sua logica di sviluppo quasi… organica: nasce, si alimenta, può prendere strade inaspettate e tortuose, può ridimensionarsi ma anche riproporsi in modo ancora più complesso di come è emerso, soprattutto se non è affrontato adeguatamente.

Va subito aggiunto che l’emergere e il consolidarsi di un conflitto – ciascuno dei quali è connotato, per Johan, dalla presenza di “obiettivi incompatibili” tra coloro che ne sono coinvolti – non va necessariamente osservato con uno sguardo negativo. Il conflitto può assumere derive devastanti, violente, ma più spesso richiama cammini costruttivi e comunicativi, che possono servire a uno sviluppo vantaggioso dei rapporti interpersonali, interetnici, internazionali, assolvendo a molte funzioni positive, come per esempio far affiorare percorsi sotterranei/repressi e creando così i presupposti per affrontarlo, oppure rivitalizzare – se parliamo di dinamiche di coppia – un rapporto sfibrato. Si parlerà, allora, di conflitto distruttivo nel caso in cui si ricorra ad atteggiamenti e strategie d’azione molto rigidi, sulla scorta dei quali la relazione tra i partecipanti tende a strutturarsi come un gioco a somma zero, al cui interno una sola delle parti coinvolte può vincere. Al contrario, un conflitto costruttivo sarà possibile se tutti gli attori si impegnano a mettere in atto un “gioco a somma positiva” (win/win), che avviene quando tutti gli attori possono guadagnare qualcosa dallo sviluppo della situazione problematica in atto. Detto altrimenti, le persone coinvolte, cogliendo le opportunità di crescita comune offerte dalle differenze e dai contrasti, si adoperano per produrre ricadute vantaggiose all’interno del confronto e per trasformare ogni emergenza in efficienza, vitalità, dinamismo.

Oggi alcune di queste considerazioni possono sembrare quasi scontate, ma non è così se si considera che, quando Galtung le ha pensate, non erano ancora state pensate…

In ogni caso, alla base di ogni conflitto si possono intercettare, secondo il nostro autore, tre elementi di fondo, che lui stesso definisce l’ABC del conflitto, e in cui le diverse lettere corrispondono in lingua inglese: A) agli atteggiamenti (attitudes) delle parti all’interno di un conflitto, cioè all’insieme delle percezioni, emozioni e disposizioni degli attori originate dal conflitto o a esso preesistenti, che determinano il comportamento e l’interpretazione della situazione (dimensione soggettiva); B) al comportamento (behaviour) ovvero all’insieme delle azioni osservabili con cui gli attori intendono gestire il conflitto per perseguire i propri obiettivi o impedire all’altro di conseguire i suoi (dimensione osservabile); C) alla contraddizione di base (contradictions) creata dall’incompatibilità tra gli scopi degli attori o, nell’accezione di conflitto in senso lato, dall’incompatibilità tra la necessità di soddisfare dei bisogni (autorealizzazione) e le strutture sociali che la soffocano (dimensione strutturale).

La sequenza con cui si passa da un elemento all’altro non è necessariamente quella esemplificata: la manifestazione del conflitto può iniziare con A e poi condurre a B e C ma può anche iniziare con C per poi approdare a B e, solo da ultimo, ad A oppure, ancora, iniziare con un comportamento (B) e poi passare al punto C ed infine ad A, e così via. Quale che sia la sequenza con cui si manifestano, è importante considerare questi elementi nella loro interdipendenza, e non come aspetti separati.

 

3.2. Conflitto e violenza non sono la stessa cosa

La violenza è molto spesso l’espressione del conflitto, un modo per agirlo. Galtung definisce la violenza come un «insulto evitabile ai bisogni umani essenziali» e, più in generale, alla vita. Non solo: anche le minacce di violenza sono violenza e così pure la sua accettazione è, senza dubbi, una forma di violenza.

Per Galtung sono quattro i «bisogni umani primari»: il bisogno di sopravvivenza (la sua negazione è infliggere la morte); il bisogno di bene-essere (la negazione porta alla miseria, alla malattia); il bisogno di identità e di significato (la sua negazione è l’alienazione); il bisogno di libertà (la sua negazione è la repressione).

Ebbene, il nostro pensatore ritiene che la violenza riduca drasticamente la possibilità di soddisfare questi quattro “bisogni”, abbassandoli al di sotto delle potenzialità umane.

Riporto qui un suo schema riassuntivo di questo ragionamento, messo a punto dallo stesso Galtung.

Esistono, inoltre, per Galtung tre tipi di violenza, che sono connessi tra di loro:

1. la «violenza diretta» (verbale o fisica, che produce i suoi effetti sul corpo, sulla mente o sullo spirito), che causa primariamente danni fisici alla persona. La violenza diretta è un evento.

2. la «violenza strutturale» (politica, che si esercita nella repressione, economica che produce sfruttamento, e legislativa), che va intesa come un processo, che dà vita a dei cicli.

3. la «violenza culturale», che si manifesta attraverso il razzismo, lo sfruttamento etnico, il sessismo, i pregiudizi, la discriminazione, gli stereotipi. Con l’espressione violenza culturale Galtung fa riferimento a quegli aspetti culturali che aiutano a dare una cornice alla sfera simbolica della nostra esistenza – religione e ideologia, linguaggio e arte, scienza empirica e scienza formale (logica, matematica) – e che possono essere usati per giustificare o legittimare la violenza strutturale e la violenza diretta. Indagando all’interno delle diverse forme culturali e alla loro maggiore o minore disponibilità a ricorrere alla violenza o a promuovere la pace, Galtung ha proposto, a suo tempo, di adottare il concetto di «cultura profonda», o «cosmologia» (in un senso prossimo a quello espresso dal termine Weltanschauung), vale a dire quel substrato di presupposti profondi, di idee collettive sulla realtà, che definiscono cosa è normale e cosa è naturale. La cosmologia, si sostiene, è inconscia, a differenza dell’ideologia, che è cosciente.

Infine, la violenza culturale costituisce un’invariante, il che significa che può rimanere essenzialmente identica a sé stessa per lunghi archi temporali. Una modalità attraverso cui essa opera è mutando il colore morale di un atto: da “riprovevole” a “giusto” (o almeno accettabile). Per portare un esempio si può fare riferimento a uccidere in nome della Patria – che viene considerato giusto, mentre uccidere a nome proprio viene considerato sbagliato.

Questa triangolazione della violenza è importante per agire contro di essa e trovarvi valide alternative concrete.

 

3.3. Veniamo, infine, alla terza area concettuale, ovvero il metodo per trascendere i conflitti

Reputo sia sufficiente ricordare, qui, che il Transcend method messo a punto dal Professore Galtung è stato a suo tempo adottato dallo United Nations Disaster Management Programme, ed è uno, se non il manuale con la lettera maiuscola per quanto riguarda la trasformazione dei conflitti mediante l’uso di strumenti pacifici.

In estrema sintesi, va specificato che lo stesso modello utilizzato per definire il conflitto e la violenza viene impiegato da Galtung per formulare una teoria della pace, la quale individua tre diverse tipologie:

1. “Pace diretta”: comprende le azioni volte a trasformare i conflitti: il dialogo, la cooperazione, il rifiuto delle ingiustizie. La parola chiave, in tale contesto, è “empatia”.

2. “Pace strutturale”: prevede la creazione di strutture politiche, economiche e sociali per rispondere ai bisogni di tutti.

3. “Pace culturale”: si afferma con una cultura che promuove quali valori la pacifica convivenza e i diritti delle persone, che protegge e valorizza le differenze.

 

4. In particolare: il Transcend method

Date tutte queste premesse, va da sé che se siamo gettati dentro a un conflitto possiamo, ipoteticamente, scegliere di comportarci anche violentemente, e quindi di determinarci a lottare per soddisfare il nostro obiettivo – quello di vincere –, ma con il rischio che la vittoria possa portare, quale conseguenza, la vendetta, la rappresaglia.

Un’alternativa a questa decisione è quella di lavorare, invece, per il differimento del conflitto stesso. Assumere questa opzione invita a non raggiungere alcun obiettivo e a rimandare ogni scelta a un futuro prossimo, che può essere determinato o indeterminato. Il conflitto resta congelato e la frustrazione che ne deriva nei partecipanti può condurre, in epoche successive, a qualche forma di aggressione.

La posta in gioco, per Galtung, non è, dunque, dare qualcosa sotto i denti alla frustrazione e alla violenza per riuscire a… ingabbiarle: si tratta, piuttosto, di soddisfare almeno uno dei quattro “bisogni fondamentali” dei quali si parlava poc’anzi. In tal senso, si può ricorrere a un ampio spettro di prospettive, tra le quali il compromesso è, forse, una delle scelte più accettabili. Resta il fatto che adottando questo vettore di senso la sostenibilità del conflitto rimane temporanea: pur non esplodendo, perché le contraddizioni sono diventate meno acute, anche se sottotraccia continua a bruciare.

Se, al contrario, si promuove la trascendenza positiva, allora un futuro diviene possibile.

La finalità del metodo transcend rispetto a un conflitto è – come molti sapranno – creare una prospettiva sia/sia, tenuto conto che quest’ultima, prima dell’intervento, non esiste. Non si tratta dunque di un compromesso 50/50, non si tratta né di una vittoria o di una rinuncia – anche se in determinate circostanze tutte queste ipotesi possono rientrare.

In particolare, Galtung propone – pure per questi passaggi, tre principali linee di azione:

· Dialogare con tutte le parti in conflitto (sia dirette che indirette) separatamente, esplorare i loro obiettivi/paure e guadagnare la loro fiducia;

· Distinguere tra obiettivi legittimi, che sostengono i bisogni dell’uomo e obiettivi illegittimi che violano invece i bisogni dell’uomo.

· Ridurre le distanze tra tutti gli obiettivi legittimi apparentemente contraddittori promuovendo soluzioni che includono creatività, empatia e nonviolenza, al fine di costruire una nuova realtà. Detto altrimenti, occorre promuovere tra i confliggenti la conoscenza degli altri punti di vista (non solo del proprio) e porsi domande del tipo: “Com’è il mondo visto dall’altro genere, dalle altre generazioni, dalle altre etnie, dalle altre classi, dalle altre nazioni, dagli altri Stati, dalle altre religioni, dalle altre civiltà?”. “Com’è il mondo visto dalle professioni – militari, religiose, politiche, economiche?”. Comprendere i traumi e le glorie altrui è una parte importante – secondo Galtung – della formazione in geografia e storia nell’era della globalizzazione. 

È con queste consapevolezze, per esempio, che Johan si è seduto negli anni Novanta del Secolo scorso a un tavolo coi rappresentanti dei Governi di Ecuador e Perù, e ha affrontato il conflitto di confine riguardante un’area di cinquecento chilometri quadrati, che aveva condotto a tre guerre nell’arco di cinquantaquattro anni e a estenuanti negoziati, sempre falliti. Ai suoi occhi l’unica possibilità rimasta era, appunto, la trascendenza, la più semplice soluzione sia/sia, ovvero trasformare quell’area in una «zona binazionale con un parco naturale».

Un altro recente caso nel quale Galtung ha fornito un importante contributo è stato quello che vedeva contrapporsi la Danimarca e il mondo mussulmano sulle vignette che denigravano il Profeta Maometto, e il rifiuto del Primo Ministro danese di aprire un dialogo su come bilanciare il diritto di libera espressione e quello di non essere offesi.

 

5. Coda

Le parole che ho scritto non fotografano, neppure pallidamente, il cosmo che ha preso il nome Johann Galtung.

Una cosa è certa.

Il suo mondo interiore ha lasciato al mondo profondamente ostile e malato di oggi pensieri ineguagliabili per guardare al conflitto, inteso non come un limite invalicabile che pone i fatti al posto della parola ed apre così. Inevitabilmente, alla guerra, ma come possibilità, al contrario, di ridare voce alla parola per capire e agire le complessità delle quali siamo protagonisti.

 

[*]

Questo non è un saggio scientifico. Ho cercato in poche pagine di riprendere i passaggi che sento più vicini del pensiero del Maestro, che ho tratto dalla lettura, nel corso degli anni, di alcuni suoi scritti.
Lascio, a chi fosse interessato, una bibliografia in inglese – che include molti testi dai quali ho attinto i miei rapsodici pensieri:
Gandhi's political ethics (in collaborazione con Arne Naess, 1955);
Theory and Methods of Social Research (1967);
Violence, Peace and Peace Research (1969);
Essays in Peace Research (1975);
Transarmament: from Offensive to Defensive Defense (1984);
Peace By Peaceful Means. Peace and Conflict, Development and Civilization (1996);
Macrohistory and Macrohistorians (in collaborazione con Sohail Inayatullah, 1997);
Conflict Transformation by Peaceful Means (1998);
Conflict Transformation by Peaceful. The Transcend Method (2000);
Searching for Peace (2002);
Transcend & Transform. An Introduction to Conflict Work (2004, tradotto in 25 lingue);
50 Years - 100 Peace and Conflict Perspectives (2008);
Democracy - Peace - Development (in collaborazione con Paul Scott, 2008);
50 Years - 25 Intellectual Landscapes Explored (2008);
Globalizing God. Religion, Spirituality and Peace (in collaborazione con Graeme MacQueen, 2008);
The Fall of the US Empire - And Then What (2009);
Peace Business (in collaborazione con Jack Santa Barbara e Fred Dubee, 2009);
A Theory of Conflict (2010);
A Theory of Development (2010);
Reporting Conflict. New Directions in Peace Journalism (in collaborazione con Jake Lynch e Annabel McGoldrick, 2010);
Korea. The Twisting Roads to Unification (in collaborazione con Jae-Bong Lee, 2011);
Reconciliation (con Joanna Santa Barbara e Diane Perlman, 2012);
Peace Mathematics (con Dietrich Fischer, 2012);
Peace Economics (2012);
A Theory of Civilization (2013);
A Theory of Peace (2013).

18/03/2024
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