Magistratura democratica
Magistratura e società

Donna, madre, avvocata

di Maira Casulli
Avvocata del foro di Bari
L’avvocatura femminile oggi fra aspetti culturali e professionali

Anni fa, il colloquio di lavoro con colui il quale sarebbe stato il mio primo dominus, terminò con una domanda che (avrei scoperto solo in seguito) mi sarebbe stata fatta altre infinite volte: “ma perchè non provi il concorso per diventare Magistrato? La professione forense vive un momento complicato e poi tu sei donna... per voi è ancora più difficile”.

Inutile dire che per l’entusiasmo con cui a ventiquattro anni avevo terminato gli studi universitari a Roma, sottovalutai quel consiglio, pensando tra me e me che la mia dedizione ed il mio impegno avrebbero sconfessato quell’assunto: avrei fatto tutto ciò che c’era da fare e sarei diventata, come desideravo, una donna avvocato.

Per tutti i due anni di tirocinio, come la maggior parte dei praticanti, ho passato il mio tempo sui fascicoli di studio, sfogliandoli pagina per pagina ed approfondendo le questioni; partecipavo silenziosamente alle udienze, osservando gli avvocati e le avvocate, cercando di carpire i segreti del mestiere.

Prima avevo frequentato un altro studio legale che ero stata costretta a lasciare perchè uno dei due soci fondatori richiedeva continuamente la mia presenza, proibendo alle altre praticanti (sì: rigorosamente tutte donne) di accompagnarlo alle udienze, soprattutto quelle in trasferta. La ricezione di alcuni SMS notturni, poi, mi aveva convinta a lasciare definitivamente il posto e cercarne un altro.

Dopo essere stata rifiutata da alcuni studi legali dichiaratamente perchè donna (le mogli degli avvocati possono essere molto gelose alle volte) fui accolta in uno studio composto di una decina tra uomini e donne e constatai ben presto che la mia presenza non solo generalmente non era richiesta, ma addirittura nelle traferte non era neppure contemplata,dato che l’automobile ogni volta era già piena, occupata da tutti gliavvocati.

Capì sin da subito che le avvocate dello studio erano solite restare in sede e non andare, ad esempio, ai processi in Cassazione o a qualche corso fuori Regione, per cui se avessi voluto prendervi parte avrei dovuto organizzarmi per mio conto (e qualche volta, quando non c’era posto in auto, lo feci, prenotando biglietto e albergo e presentandomi direttamente in udienza o al corso di formazione).

Tutto ciò, ovviamente, senza guadagnare nulla ma, anzi, rimettendoci il denaro per gli spostamenti e per il vitto e alloggio.

Insomma si può dire che io ero (e sono)compresa in quella parte di donne (il 49,6%, con punte fino al 52,8% nel caso di avvocate ultraquarantenni e del 55,3% per quelle provenienti dal Nord‐Est e dal Centro) che interpellate nell’ambito del progetto del Censis nel 2010, hanno dichiarato che la professione è una passione più che una scelta di opportunità o, quantomeno,è il “compimento di un'aspirazione” (il 32,0%, ma si arriva al 35,9% nel caso delledonne avvocato che sono riuscite nell'impresa di aprire uno studio di cui sono titolari ed al 38,8% nel caso delle donne avvocato del Sud d'Italia) .[1]

È stato autorevolmente sostenuto che “ciò che non viene detto mai con sufficiente chiarezza è che la professione di avvocato è faticosa e la mancanza di informazione su questo punto, sta producendo, soprattutto nelle nuove generazioni, un forte senso di smarrimento legato alla difficoltà di svolgere efficacemente la professione insieme alla propria vita privata” e che “ancora oggi alle avvocate manca la possibilità di orientarsi nella fase di accesso alla professione, quando avrebbero più bisogno di know how organizzativo e gestionale”.[2]

Come ho detto, tuttavia, io ero stata adeguatamente avvisata, ma forse lo stesso non può dirsi per quel 70% delle avvocate penaliste che ha dichiarato di lavorare otto ore al giorno e di chiedere purtroppo la cancellazione dall’albo dopo solo cinque anni dall’ottenimento del titolo. [3]

La verità è che la professione non è ancora stata rimodellata per aderire alle esigenze femminili e risente ancora oggi, purtroppo, dei pregiudizi di genere che per lungo tempo hanno ostacolato l’accesso delle donne all’avvocatura ed alla magistratura.

Le ragioni “di principio” sottese alla protratta esclusione possono sostenzialmente essere riassunte nelle considerazioni espresse, nel 1946, dell’Avvocato (Onorevole democristiano) Salvatore Mannironi il quale, nel far riferimento alla “costituzione psichica” della donna sosteneva che le mancassero “le attitudini per far bene il magistrato, come dimostra l’esperienza pratica in un campo affine, cioè nella professione dell’avvocato. Tutti avranno notato quale scarsa tendenza e adattabilità abbia la donna per questa professione perchè le manca, proprio per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto che è necessario per sottrarsi agli stati emotivi”.

Così, sebbene laureate a pieni voti e con la discussione delle tesi in materie che spaziavano dal Diritto Commerciale al Diritto Penale, nel corso del Novecento le giuriste hanno di fatto occupato i settori lasciati “liberi” dai colleghi, perchè cosiderati meno appetibili di altri e/o più adeguati al genere femminile, in quanto legati alla dimensione familiareed alla maternità: il diritto di famiglia, la giustizia minorile et similia.[4]

Questo ha avuto ovvie ripercussioni sul reddito delle donne avvocato poichè, com’è noto,quelli citati sono, ictu oculi, i settori meno remunerativi.

Difatti, a qualsiasi età, le donne hanno in media un reddito inferiore a – generalmente pari alla metà di – quello dei loro colleghi.

Secondo i dati della Cassa Forense, indipendentemente dal genere, un avvocato guadagna all’anno all’incirca 46.860,00 euro; orbene, dalle dichiarazioni è emerso che le avvocate, nel 2013, hanno guadagnato in media poco più di 22.000 euro, ben il 58% in meno degli uomini, inoltre nel 2011 solo il 22,8% ha dichiarato di guadagnare tra i 39.200 e i 150.000 euro ed un irrisorio 9,1% supera la soglia di 150.000. [5]

Il maggior impedimento pare essere il tempo, che rende difficoltoso coniugare le esigenze familiari con il lavoro, che molto spesso richiede una dedizione tale da superare abbondantemente le classiche otto ore giornaliere.

Si consideri, poi, che l’avvocata, in quanto libera professionista, non vede garantito il diritto alla maternità come le lavoratrici dipendenti (ad es. le magistrate): di fatto, a partire dal 1990, ci viene riconosciuta un’indennità dalla Cassa Forense che è parametrata rispetto al reddito e che copre, sostanzialmente, tre mesi, di talché nemmeno nel periodo della gestazione possiamo assentarci dal lavoro.

Il problema si pone essenzialmente perchè nel Sud Italia non hanno ancora preso piede gli studi in formazione effettivamente societaria, per cui non siamo nè dipendenti nè socie ma, semplicemente, collaboratrici, dunuque il congedo parentale non è un diritto ma una fortuna o una scelta.

Detto in altri termini, io che sono in attesa di una bimba non potrò comunque assentarmi dal lavoro e dovrò conciliare il mio lavoro con quello (dipendente) del mio compagno, in maniera tale da non pregiudicare i diritti delle parti che ho il pregio di assistere, primo fra tutti quello a che il processo si svolga in tempi ragionevoli (soprattutto se parti civili).

In questo quadro si inserisce il divieto di accesso al Tribunale per i minori, che arriva a rendere le emergenze delle vere e proprie tragedie: non poche colleghe mi hanno raccontato di aver dovuto lasciare i loro figli da soli nei giardini del Tribunale, nel frattempo che loro celebrassero udienza o svolgessero adempimenti di cancelleria in scadenza.

Ecco perchè molte di noi dichiarano di avere sensi di colpa sia nei confronti della famiglia (il 56%) sia verso se stesse (78%), il ché poi innesca un circolo vizioso che ci vede frustrate (il 75%) o, in ogni caso, rassegnate a prendere il lavoro come una necessità, anche se sottopagato. [6]

In proposito, degni di nota sono tutti quei progetti che fanno capo ai Comitati Pari Opportunità delle Professioni Legali che hanno l’ambizione di creare degli asili nido all’interno o nelle immediate vicinanze dei Tribunali ma che, purtroppo, non hanno ancora trovato uno sbocco esecutivo.[7]

Non mi stupisce, allora, constatare che nel mio foro di appartenenza le avvocate titolari di studi siano pochissime e quelle che possono dirsi davvero affermate si contino sulle dita di una mano, nemmeno su due. Quel che è peggio e che più mi mortifica è che circoli il pettegolezzo che la loro posizione non sia dovuta alla loro bravura e che – soprattutto – a dar credito a queste dicerie siano le mie stesse colleghe.

Ciò conferma la mia personalissima idea che la condizione dell’avvocatura femminile dipenda in larga parte proprio da noi donne avvocato, che combattiamo strenuamente per i dirtitti degli altri e delle altre ma spesso,per abnegazione o per la scarsa consapevolezza della nostra situazione, trascuriamo i nostri di diritti.

Così, ad esempio, è curioso che lasciamo che i clienti dello studio si rivolgano a noi con l’appellativo di “dottoressa” (quasi fatichino a credere che, come i nostri colleghi,possiamo anche noi aver conseguito il titolo).[8]

Ad onor del verosono ancora pochissime le donne che si presentano come “avvocate” e non “avvocato” o “avvocatessa”[9].

La constatazione non è priva di pregio se si considera che in pochi hanno davvero capito l’importanza di adottare un linguaggio di genere, che tenga conto dell’esclusione delle donne dall’avvocatura, fondata all’epoca sul semplice rilievo che “nessuna legge ha mai pensato di distogliere le donne da quelle ordinarie occupazioni domestiche che loro sono proprie”.[10]

Pretendere di essere chiamata “avvocata” significa esigere che mi venga riconosciuta la possibilità – che a molte donne prima di me è stata negata – di esercitare una professione che non prevedeva la declinazione al femminile, sol perché è stata strutturata al maschile e proibita al femminile.

Significa, altresì, tenere viva la memoria (e al tempo stesso rilanciare) la storia dell’ emancipazione femminile; significa segnalare le criticità di un sistema che ci vuole al pari degli uomini, ma che di fatto ci discrimina, soprattutto nel momento in cui veniamo a scontrarci con il c.d. “soffitto di cristallo”: nelle istituzioni di vertice vi è un deficit di rappresentanza femminile[11], segno che forse aveva ragione Paciotti quando sosteneva che “era inutile «a parità di condizioni» essere«più brave» degli uomini: «ciò non toglie la superiorità dell’ingegno maschile»”.[12]

Ancora oggi, in occasione delle elezioni forensi, ho sentito colleghi sotenere che il sistema matematico delle c.d. “quote rosa” fosse offensivo per le stesse donne, perchè mette in dubbio che la loro elezione sia dovuta ad un calcolo matematico e non alle loro competenze e professionalità.

A prescindere da simili assunti, ciò che conta è che il genere femminile sia rappresentato, perchè è solo tramite gli organi di vertice che possiamo iniziare a concretizzare azioni orientate ad una vera politica di pari opportunità per avvocati ed avvocate.

Dobbiamo, insomma, cercare di migliorarci sempre più, perché per dirlacon Christiane Collange: quando si appartiene a una minoranza bisogna essere migliori per avere il diritto di essere uguali. [13]

Il progetto è certamente ambizioso, ma non impossibile o difficile come un tempo: grazie all’operato delle Colleghe che ci hanno precedute, è ormai diffusa la convinzione che la sfera lavorativa non sia più un ambito a sè stante (e che debba, perciò, essere totalizzante) ma che sia una delle possibili eplicazioni della personalità di una donna e, come tale – vale la pena sottolinearlo – tutelata e garantita quale diritto inviolabile dalla nostra Carta Costituzionale.

 

 



[1]Questo il dato emerso nell’ambito del progetto di ricerca-intervento per le donne avvocato “Dopo le buone teorie, le proposte” del Censis. Il riferimento è tratto da pag. 28 del relativo rapporto finale.

[2] Ilaria Li Vigni, Avvocate, Sviluppo e affermazione di una professione, Francoangeli, Milano 2012, p. 77.

[3]Idem, che cita Le donne nell’avvocatura, intervista alle avvocate Annamaria Marin e Monica Gazzella del foro di Venezia su Polis, n. 120 del 2005.

[4] Anche negli anni del fascismo, fu applicato lo stesso ragionamento a tutte quelle (poche) donne che avevano avuto la possibilità di laurearsi in Giurisprudenza ma che non erano state comunque ammesse per questioni “di principio” all’esercizio della professione forense: furono “invitate” ad occuparsi dell’abolizione della pornografia e della prostituzione, difatti erano per lo più tutte attive nel Comitato Italiano della Federazione abolizionista internazionale (cfr. MOSCONI, i doveri sociali e la donna, «la Toga», 20 ottobre 1919).

[5]Il reddito negli albi resta una questione di genere, in ItaliaOggi del 26/10/2015 e dati Cassa Forense 2011.

[6] Ilaria Li Vigni, Avvocate, cit. pag. 37.

[7] La rete dei Comitati Pari Opportunità delle Professioni Legali 2008-2011, istituita il 24.10.2008 presso il Consiglio Superiore della Magistratura ha istituito al proprio interno dei gruppi di studio, tra cui uno che ha come obiettivo quello di istituire degli asili nido.

[8] Non diversamente da quanto raccontato dalla Giudice Nicoletta Gandus che, quando gli avvocati entravano nella Sua stanza, si sentiva domandare “Scusi signorina, quando posso trovare il giudice?”, cfr. GANDUS, Organizzazione degli uffici ed esercizio delle funzioni giurisdizionali, essere donna fa differenza?, anche on line qui

[9] Come riportato in alcuni dizionari, la desinenza –essa ai sostantivi di professione è dispregiativo, pertanto tra “avvocato” (che ha, per le succitate ragioni, accezione maschilista), “avvocatessa” (che è usato anche per indicare la moglie di un avvocato, o una donna che ha la parlantina sciolta, che si accalora nel discorrere e nel sostenere le ragioni proprie o altrui e “avvocata”) ed “avvocata”,  il sostantivo più corretto è quest’ultimo.

[10] Così riteneva l’ex Ministro dell’interno Desiderato Chiaves, riportato in SANTONI DE SIO, La donna e l’avvocatura. Studio Giuridico Sociale, I, La questione giuridica, Tip. Nuova Roma, Roma 1884, pagg. 1-2.

[11]ad esempio, nel CNF sia nel triennio 1984-1987 sia in quello 1994-2001 vi era una sola donna; attualmente, su 28 membri del Consiglio, solo 7 sono donne.Per un ulteriore approfondimento sui dati numerici, cfr. F.TACCHI, Eva togata. Donne e professioni giuridiche in Italia dall’Unità a oggi, UTET 2009, pag. 209 e ss.

[12]F.TACCHI, Eva togata, cit., pag. 199.

[13] C. COLLANGE, La signora e il management, Garzanti, 2001.

04/12/2015
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