1. La breve presentazione che accompagna, a mo’ di brochure, questa iniziativa ne ratifica la finalità, già peraltro intuibile dal titolo stesso (Dicono di noi): si vuole «l’analisi senza sconti sul ruolo dell’Avvocato attraverso le riflessioni di chi dall’esterno, quotidianamente, [lo] osserva».
Un’indagine culturale, dunque, svolta attraverso testimonianze in presa diretta e rese “secondo verità”.
Dico subito che apprezzo molto l’acume del modulo: nel parlare, infatti, sugli avvocati (Dicono di noi…) da parte degli esponenti di altri “settori” professionali quotidianamente a contatto (l’Accademia; la Stampa; la Magistratura, ecc.), inevitabilmente si include anche il “dire” sulla “categoria” dell’osservatore, finendo così con l’obbligarlo, a sua volta, ad una quota di ‘autoanalisi’ della propria prospettiva.
Senza necessità neppure di scomodare troppo Heisenberg, sappiamo bene che l’osservatore fa naturalmente parte del sistema osservato: così che il magistrato, che racconta la sua vera visione dell’avvocato, è in qualche modo costretto a licitare anche un narrato senza veli del proprio osservatorio, appunto la magistratura.
Insomma, è un modo per stanare un po' tutti: chi è osservato, ma anche chi osserva.
2. Se così è, sono portato a pensare che l’idea sottesa, e neppure troppo nascosta, a questa iniziativa sia quella di eliminare, nella riflessione, il “patto di finzione” oggi esistente tra Magistratura e Avvocatura: di riflettere oltre esso.
È noto come, in ogni narrazione (in ogni film, in ogni romanzo, ma anche in ogni dialogo istituzionale), la “sospensione dell’incredulità” sia la testata d’angolo della narrazione stessa, che su di essa si regge. Il patto di finzione esige un accordo tacito in forza del quale il destinatario della narrazione si impegna a non dubitare della inverosimiglianza del narrato, pur nella consapevolezza che esso non rispetta le coordinate del vero; la narrazione è implausibile, ma possiede, a seconda dei casi, una “parvenza di verità”, la cui accettazione consente «quella volontaria sospensione di incredulità per il momento, che costituisce la fede poetica», come scriveva Samuel T. Coleridge, che della “suspension of disbelief” fu il primo, sottile teorico.
Si sospende l’incredulità per poter continuare a leggere o a guardare il film o a dialogare; come se si dicesse al romanziere o al regista o all’interlocutore istituzionale: «so che tutto ciò che stai scrivendo o rappresentando non esiste nella realtà o esiste solo in parte; ma faccio finta comunque di credere che sia tutto vero, perché, se non accettassi questo “senso del meraviglioso” o queste “ombre dell’immaginazione”, non potrei continuare a leggere o a guardare o ad ascoltare».
È tuttavia intuitivo che ogni patto di finzione ha anche suoi limiti connaturati. L’incredulità non può dilatarsi senza confini, poiché ogni narrazione, anche fantastica, deve, in qualche modo, rispettare una soglia minima di interna coerenza, un’estremità logica oltre la quale anche il patto più intenso si scioglie ed anche la “sospensione”, più entusiasticamente voluta ed accettata, vacilla. C’è insomma (ci deve essere) un caposaldo (uno “zoccolo duro”, si direbbe in volgare) di credibilità logica anche all’interno del patto di finzione.
3. Perché scomodo uno snodo teorico essenziale della semiotica della narrazione per parlare dell’Avvocatura?
Perché credo che l’“analisi senza sconti” che ci viene richiesta miri, alla fine, a null’altro che all’abbandono di una “narrazione ufficiale” completamente fondata – tra Magistrati ed Avvocati – appunto su di un “patto di finzione”, nel quale è rimasta sospesa l’incredulità del dire reciproco.
La mia idea di fondo, in breve, è che, quando avvocati e magistrati si parlano “istituzionalmente”, lo facciano solo sulla base di un “patto di finzione” stretto, appunto, in nome delle rispettive insopprimibili funzioni istituzionali, che obbligano a credere anche a visioni reciprocamente “fantastiche”, spesso lontane dal “principio di realtà” e non improntate all’autenticità del dire: quanto necessarie per le rispettive accettazioni di ruolo. Questo, a mio avviso, è avvenuto e avviene non soltanto al più alto livello del dialogo delle rappresentanze – per così dire – “di categoria” (vale a dire, ad esempio, nell’interlocuzione ufficiale dell’Associazione nazionale magistrati o del Consiglio Nazionale Forense o dell’Unione delle Camere Penali, anche quando, all’apparenza, “dure” nei toni) – ma, quasi sempre, anche nei luoghi e nelle occasioni quotidiani della giurisdizione. Sono, quasi sempre, usate parole convenzionali, rugose e lise; ricordano le parole «miracolose» – come le chiama in alcuni suoi magnifici versi Anne Sexton – per le quali “diamo il meglio” e che “brulicano alle volte come insetti lasciando non un pizzico ma un bacio”: ma che poi, alla fine, «aren’t good enough», “non ce la fanno”[1].
Questo porta ad una constatazione e ad alcuni interrogativi.
La constatazione è che – all’interno di questo patto di finzione – le parole dell’interlocuzione tra magistratura, specie quella requirente, ed avvocatura hanno cessato, già sullo stesso piano semiologico, di essere termini rappresentativi di idee, per divenire null’altro che simboli identificativi di "raggruppamenti", assemblati quasi sempre attorno a concetti meramente "negazionistici". Ne è nato, sempre di più, un antagonismo ‘di ruolo’, appunto, finito malinconicamente per appiattirsi su schematismi contingenti e rapsodici, con parole che sconfinano sovente in una vuota libertà di slogans. Insomma, una reciproca – talora tragica – opacità di un quotidiano alterco, in nulla nobilitato da quel (reciproco) “pensiero onesto” nella cui mancanza Salvatore Satta, già nelle splendide pagine che accompagnavano la prefazione alla settima edizione del suo manuale di diritto processuale civile del 1967, individuava la causa della crisi in cui versava la cultura giuridica dell’epoca. E che era – lo possiamo riconoscere senza timore – crisi incomparabilmente assai meno angosciosa di quella che oggi viviamo.
Sembra quasi che la logica che muove questo “confronto-scontro” non sia tra due “visioni della vita” differenti, ma tra settori “professionali” della società che, quasi obbligatoriamente, si dichiarano semplicemente contro: senza alcuna nobilitazione della praxis, meramente distruttiva, attraverso il valore dialettico di una complessiva idea sociale o, persino, delle vituperate ideologie. È, in breve, l’“opinione” che tramonta a favore della “obiezione”.
Discorso complesso e (troppo) vasto, ma qui solo accennato per far intravedere cosa probabilmente fa da sfondo a questo patto di finzione nella interlocuzione tra magistrati e avvocati e che, ovviamente, caratterizza entrambi i locutori.
4. Maggiormente esplorabili paiono invece gli interrogativi, cui sopra si accennava. Precisamente, su cosa in realtà “fuoriesce” da questo patto di finzione e quale sia il non-detto che lo oltrepassa, ancorché taciuto – reciprocamente – nell’interlocuzione più o meno istituzionale, più o meno ufficiale, (anche) più o meno quotidiana. Insomma, il punto critico che spezzerebbe, per entrambi i loquenti, la coerenza interna della narrazione reciproca e la relativa sospensione dell’incredulità su cui essa si fonda. Insomma, il limite cui sopra si accennava.
Provo allora a riflettere su questo, ovviamente con generalizzazioni quasi arbitrarie, che nulla hanno né di scientifico, né di specificamente argomentato: ma alle quali mi obbliga il tema che è stato proposto. Per dirla più semplicemente, quello che dirò, e nel settore penale di cui mi occupo, non è, naturalmente, riferibile a tutti gli avvocati (e neppure, ovviamente, a tutti i magistrati): è solo un archetipo discorsivamente generalizzato, con tutti gli ovvi limiti di metodo che tale generalizzazione comporta.
Ora, a me pare che il primo e principale non-detto da parte degli avvocati sia un’idea generale, sottesa ad ogni ulteriore discorso: essa rappresenta una sorta di «contestazione escatologica della realtà così come è data», per dirla con le parole, in altro contesto, di Sergio Quinzio[2]. L’idea, cioè, che viviamo nel peggiore dei mondi (processuali) possibili, vale a dire all’interno di un rito penale che tendenzialmente azzera le garanzie per l’imputato; inoltre, che tale deficit strutturale si sposi, in una terribile sinergia negativa, con l’agire “spregiudicato” della magistratura inquirente ed anche, in parte, con una scarsa scrupolosità di quella giudicante. Con un complessivo e finale risultato: la drammatica consapevolezza dell’insufficienza, quando non della completa inanità, della funzione difensiva.
L’idea, insomma, dell’avvocato quasi come “servo inutile” (proprio nel senso evangelico dell’espressione) nella realtà data, per la quale non è dato sperare in un dinamismo di “salvezza” autocorrettivo. Dovrebbe essere radicalmente diverso il rito; dovrebbero mutare radicalmente i suoi protagonisti, soprattutto il suo motore, cioè il pubblico ministero: fino a questo azzeramento; fino a questa palingenesi, peraltro imperscrutabile, il processo penale italiano sarà solo ricettacolo di generalizzata ingiustizia.
5. Non credo di drammatizzare troppo il senso di questo “sotto-testo”, che emerge solo in parte (ma che emerge) dal registro “ufficiale” dei discorsi dell’Avvocatura penalista italiana: sospetto fortemente che sia questa la principale idea taciuta dagli avvocati nel patto di finzione.
L’Avvocatura di sponda penalistica mostra profonda sfiducia nel rito, ma ne cova altra, ancor più profonda, verso i suoi interpreti istituzionali: ritiene che sia un rito ideologicamente avverso, per sua stessa struttura, alle garanzie difensive, ma che tale genoma alterato trovi sviluppo ed amplificazione in una magistratura ideologicamente portata a proporre il diritto penale quale unica etica pubblica, nel senso acuto descritto da Massimo Donini[3], dunque tendenzialmente “colpevolista”. Per questo parlavo di contestazione quasi “escatologica” della realtà processuale: è questo - credo - il pensiero sotteso e diffuso dell’ora ed è anche quello che, personalmente, mi determina maggiore inquietudine.
Prima di ragionare sulle sue cause e sulla sua fondatezza, tuttavia, mi preme, invertendo un po' l’ordine del discorso, esaminare qualche effetto generato da questo pensiero nascosto sul modo di esercizio della funzione difensiva: su come, cioè, questa “contestazione escatologica” abbia indirizzato (condizionato) l’interpretazione del ruolo del difensore nella fase processuale del merito. La Cassazione è, infatti, un mondo a sé, ben oltre l’ovvia diversità di rito e funzione: c’è uno iato profondissimo sul quomodo concreto dell’esercizio difensivo tra merito e legittimità e spero di avere il tempo per tornare su tale distanza.
6. A mio avviso, questa idea di una “difficoltà di sistema” della difesa - quando non di una “indifendibilità funzionale”, imputata al rito, come ai debordanti poteri dell’inquirente e ad una “timidezza” di fondo dei giudicanti - ha generato alcune tendenze del metodo difensivo, di agevole riconoscibilità.
Una tendenza, innanzitutto, a “personalizzare” il processo in ogni sua possibile dimensione, a “soggettivizzarlo”: non gli argomenti contro fatti emergenti dalle prove, quanto la critica al metodo inquirente; non la evidenziazione degli elementi favorevoli all’imputato, quanto lo svilimento indiretto della fonte di accusa (come la detrazione del testimone o le seriali e ripetitive eccezioni sulle modalità esecutive di intercettazioni); non il tentativo di un “ponte di dialogo” con il decisore - anche attraverso un confronto serrato con la prova d’accusa - quanto un processo che diviene un processo “alle persone” (o “delle persone”).
Il progressivo abbandono, insomma, dell’idea di una “difendibilità” innanzitutto tecnica e, quindi, anche dell’idea di poter fornire al giudice un contributo plausibile – quindi, costruttivo, credibile, una pars construens, insomma - al problema decisorio: dimenticando così che il processo è innanzitutto un problema decisorio, la cui soluzione non passa solo sull’invalidazione personale della prospettiva d’accusa.
Si ha quasi l’impressione, insomma, che, nel merito, l’avvocato troppo spesso miri al solo risultato “persuasivo”, come se ad esser di fronte, in un modello accusatorio puro, non fosse un giudice professionale, ma una giuria popolare e come se l’unico margine della difesa fosse quello di fare breccia nel foro interno del giudice. Come se l’avvocato lavorasse solo per scalzare, smurare una decisione già presa: non per contribuire a costruirla.
Una sorta di pregiudiziale, che lo porta a non affrontare la “grande barriera tecnica” del processo. Questa si prova a sfondarla nella sua interezza - secondo un’improbabile, quanto esasperata, legge del “tutto o niente” - e non invece nei suoi, inevitabilmente esistenti, punti deboli: magari secondari; magari non forieri, se abbattuti, di una pronuncia assolutoria, ma non per questo meno importanti, anche in funzione dell’ampia disponibilità impugnatoria che il sistema italiano, unico anche in questo nell’occidente giuridico, garantisce.
7. Ma perché, nel merito, il processo “delle” o “alle” persone sostituisce spesso il processo del fatto (probatorio) e perché il fatto (probatorio) è concepito a sua volta, difensivamente, solo come “fatto della responsabilità dell’imputato”, assorbendo o eclissando ogni ulteriore profilo di diritto, ritenuto pregiudizialmente “minore”?
Perché diviene marginale parlare, in diritto, di attenuanti e di aggravanti o di diversa qualificazione del fatto (possibile che, in ogni processo, esistano solo le trite questioni di inutilizzabilità delle intercettazioni o solo la difficilissima prova della circolarità delle “chiamate”?) e perché il giudice professionale non è invece stanato, fin da subito, su questioni che si presentano, in realtà, assai redditizie nella futura prospettiva del giudizio se non di appello, sicuramente di legittimità?
Ecco, la domanda un po' apicale: da cosa deriva questa idea culturale secondo cui il bravo avvocato è solo quello che consegue la “vittoria” totale del processo e non quello che - sfruttando appieno un margine ed infilandosi dentro una piccola falla della costruzione - progressivamente fa “perdere pezzi” all’accusa iniziale, la addomestica, la rende accettabile con intelligenza, accontentandosi, attraverso un discorso difensivo serio, di una vittoria parziale?
Questo approccio del “tutto o niente” – e, in generale, della soggettivizzazione del processo - porta una serie di ulteriori effetti a cascata.
Esso ha infatti bisogno - quale supporto essenziale - di enfasi, di una percentuale aggiuntiva di retorica difensiva d’antan (ben oltre quella normalmente preventivata nel patto di finzione delle discussioni in dibattimento) e scatena, al contempo, una guasta logica “contenitiva” da parte di molti giudici. In breve, l’esatto contrario di ciò che dovrebbe accadere nel modello cognitivo che è il processo: dove il giudice dovrebbe fare proprio l’esatto contrario di “controllare” o “contenere” la difesa, avendo semmai l’opposto interesse gnoseologico a stimolarla (perché realmente dipendente dai suoi contributi nella verifica dell’ipotesi di accusa) e la difesa dovrebbe essere interessata a veicolare tali contributi, secondo un principio di effettività e nella più assoluta serenità possibile, proprio per la sicurezza della loro recezione.
Nel processo penale, insomma, il mezzo non è il messaggio, non vale McLuhan: è il contenuto ciò che rileva ed è importante e conta massimamente, a questo fine, l’inclusività del dire delle parti.
8. È da chiedersi allora – proseguendo in questo rosario di interrogativi - perché siamo scivolati verso un processo che confonde mezzo e messaggio ed in cui è venuta meno l’inclusività dei contributi delle parti, che, in esso, spesso paiono tutte monologanti, autoreferenti, loquenti su diversi canali di comunicazione, incapaci di vera maturità di confronto e di dialogo.
È una domanda impervia e complessa.
Quanto all’avvocatura, conosco troppo poco gli interna corporis della categoria per azzardare risposte. Ipotizzo soltanto (ma è solo davvero un’ipotesi) che abbiano forte incidenza alcune condizioni generali peculiari alla situazione italiana e relative, per un verso, al generale “assetto” delle categorie professionali nel nostro Paese e, per altro verso, al rapporto tra professionista e cliente nell’àmbito di esse.
Rispetto a vari contesti occidentali di raffronto, questi profili mi paiono poco “moderni”, poco “laici”, poco determinati da quella che dovrebbe essere la regola prima della prestazione professionale, quella dell’effettiva selezione del migliore in forza di un criterio concorrenziale. In generale, per le categorie professionali - e per l’avvocatura in particolare - sulla scelta del mandato professionale operano fattori di disturbo “culturali”, che alterano l’affidamento per qualità professionali: un’arcaica e rozza percezione, da parte degli omnes, del valore della prestazione professionale; dei suoi costi; della sua fatica e della sua difficoltà; della sua responsabilità, con una impropria collocazione di essa, piuttosto, nell’universo di altre tipologie di esperienze di rapporto e secondo altri e diversi criteri sommari (l’avvocato-amico; l’avvocato-quasi-parente; l’avvocato-che-costa-poco; l’avvocato-che-è-amico-di un mio-cugino-di-o-di-un-mio-amico, ecc.). C’è, insomma, una scarsa sensibilità sociale sull’importanza della prestazione professionale e sulle qualità che ne performano il valore. Che non sono soltanto, beninteso, il tecnicismo “normativo”, ma gli essentialia professionali che ne consentono la concreta espressione: vale a dire – rispetto al processo ed all’assistito - la lealtà, l’attenzione, la pazienza, la riflessione; soprattutto, la misura della “giusta distanza”. Né troppo vicino, né troppo lontano; né algido, ma neppure adesivo: è questo il punto di difficilissimo equilibrio, il più scomodo e delicato, in assoluto, per un avvocato, ma anche quello socialmente meno compreso.
9. Tuttavia, come si accennava, le ragioni del venir meno dell’inclusività dei contributi delle parti nel processo e gli effetti di impropria “soggettivizzazione” di esso hanno, naturalmente, anche altre importanti eziologie.
Torno così all’inevitabile implicazione iniziale del “dicono di noi”: all’osservatore che fa parte del sistema osservato; alle ragioni pluriformi per le quali, nel processo penale di merito, il metodo difensivo è spesso alterato nel senso che ho provato sommariamente a descrivere. Torno all’interrogativo di fondo: perché esiste questo sentimento dell’Avvocatura di integrale scetticismo e di contestazione dei destini finali della realtà processuale?
Il tentativo di risposta muove da un punto di incontrovertibile accordo: nel comune riconoscimento di una struttura ormai babelica del rito penale.
Sono frastornanti le diverse lingue normative che ormai si parlano all’interno del processo, effetto di un fenomeno non riscontrabile in nessun evoluto sistema giudiziario contemporaneo. Non è dato rinvenire altrove, insomma, un omologo corpus iuris di tale centralità ed importanza, quale un codice di rito penale, assoggettato ad una mole tanto intensa quanto frequente di: interpolazioni; innesti; amputazioni; modifiche; modifiche delle modifiche; espansione di istituti originariamente secondari; metamorfosi di istituti, fino alla loro stessa eterogenesi; percorsi processuali incidentali divenuti preminenti; istituti solo “ospitati” poi signoreggianti l’intero processo; “filtraggi” apparenti quanto inutili; dilatazioni temporali insostenibili assieme a compressioni temporali altrettanto ingiustificate; forme artefatte al di là di ogni necessità procedurale assieme a disinvolture estemporanee di rito. E così via. Sono gli epifenomeni cresciuti all’interno del processo penale nazionale – cui corrispondono, per ciascuno, altrettanti innesti dal formante giurisprudenziale: risparmio, solo per ragioni di tempo, le possibili esemplificazioni – che, nel corso di questi cinque lustri, hanno privato il processo non soltanto di una riconoscibile “fisionomia”, quanto soprattutto di un preciso telos. Il processo è stato troppo spesso gravato di funzioni improprie: inteso, cioè, come il più facile surrogato di politiche criminali - ma anche di politiche “garantiste” – asfittiche, di respiro cortissimo, di solubilità immediata in esso. Sulle modifiche estemporanee si sono scaricate le rassicurazioni sociali di “emergenze” criminali spesso intercettate non nella loro effettività, ma nella loro nervosa percezione sociale (politicamente, le più “redditizie”) ed, accanto a tali pulsioni, nel processo hanno fatto spesso da controcanto innesti di garanzia talvolta solo apparenti, più di forma “compensativa” che effettivamente scaturenti da un ragionato progetto complessivo, spesso disancorate dall’effettivo pregiudizio difensivo: in un gioco infinito di spinte e controspinte di precario equilibrismo, non certo di ponderato equilibrio.
Ma, ancorché percorso accidentato e frastagliato fino alla contraddizione, si può davvero affermare che il rito penale italiano sia intrinsecamente antitetico alle garanzie per l’indagato/imputato? O che lo sia, quantomeno, al punto da giustificare lo scetticismo diffuso presso l’Avvocatura e tale da innestare la sindrome dell’avvocato quale “servo inutile”, con tutti gli effetti sopra visti?
Non lo credo affatto, anche se la dimostrazione di tale risposta negativa richiederebbe tempi ed argomentazioni incompatibili con questa sede.
Mi limito a dire che, probabilmente, abbiamo chiesto (e continuiamo a chiedere) al processo penale più di quanto un processo possa dare: ad esigere, dal processo, risultati contraddittori ed antinomici, senza sapere rinunciare a nulla. Così – e solo per qualche esempio in un discorso infinito - vogliamo efficienza e durata ragionevole, ma al contempo, correttamente, ripudiamo i modelli aziendalistici e liberticidi della giustizia penale (chi non ricorda l’abiura dei cosiddetti econometrics americani? e chi mai accetterebbe che la soluzione il 90% dei processi venisse risolta dal prosecutor attraverso estorsioni più o meno legalizzate nei confronti del reo che “accetta” la pena più mite?); vogliamo, correttamente, la pienezza di tre gradi di giudizio “per Costituzione” (non è così, ma facciamo finta che sia così), ma tolleriamo il fenomeno, unico al mondo, di una Corte Suprema divenuta Corte di terza istanza, che introita oltre 50.000 ricorsi penali annui ed è costretta a falcidiarli – per sopravvivenza stessa – con il 73% di inammissibilità; vogliamo un appello che non sia solo rarefatta revisio del primo grado (e che non somigli in nulla alle “stampigliature di conformità” dei pochissimi appelli, come in sistemi quali quelli inglese o francese), ma novum iudicium, ma non accettiamo, poi, la logica della “doppia conforme”, né di assoluzione né di condanna; non vogliamo, correttamente, riedizioni improprie del giudice istruttore, dell’istruttoria segreta e monologante (penso ancora al sistema francese), ma vogliamo, al contempo, in un modello tendenzialmente accusatorio, un’indagine preliminare scandita rigorosamente in forme processuali “strette”, solo in atti garantiti, in tempi contingentati, dai contenuti di assoluta completezza e dagli esiti che pronostichino solo la condanna. Insomma, dal processo penale vogliamo proprio tutto, ed a tutti i costi.
L’elenco delle antinomie tra i desiderata e le effettività (cioè: la capacità del sistema, di ogni sistema, di recepirle tutte) potrebbe essere molto lungo ancora.
È un rito sicuramente contraddittorio; pretenzioso rispetto a numeri e fini; irrealistico rispetto a risorse investite; conosce ancora ampie sacche di tenebra (e la recente Relazione al Parlamento relativa alle «Misure Cautelari Personali e Riparazione per Ingiusta Detenzione» riferita all’anno 2023 è lì a ricordarcelo); soprattutto, conosce un vergognoso buco nero finale, a lui estraneo ma presente come convitato di pietra e baratro definitivo, che è il carcere italiano.
Tutto vero.
Ma è un rito che, persino al di là di tutto questo, contempla uno standard di qualità e quantità di garanzie ampiamente accettabile, in valore assoluto ed anche in comparazione con gli ordinamenti occidentali evoluti. Salvo essere comparatisti della domenica o esterofili ingenui. Non è certo un rito che mortifica la funzione difensiva o che induce allo scetticismo riguardo al suo fattivo esercizio: l’esatto contrario.
10. Dove la riflessione diviene, per me, più spinosa è sull’interazione della funzione difensiva con la magistratura. L’interrogativo più inquietante è infatti nel feedback che l’osservatore riceve dal sistema osservato da parte dei protagonisti a lui omologhi, i magistrati stessi.
Anche qui, oltre il patto di finzione, occorre chiedersi: quanta parte delle alterazioni o approssimazioni della funzione difensiva sopra delineate è dipesa da un atteggiamento non inclusivo, non criticamente leale, non virtuoso rispetto alla finalità gnostica del processo da parte degli stessi magistrati (non dico giudici, dico a ragion veduta magistrati)? Quanta parte del “ponte di dialogo” non realizzato nel merito con il decisore è dipeso da una sottile fin de non recevoir del contraddittore o dell’ascoltatore del difensore?
Non so quantificare, ovviamente: ma so che questo è avvenuto ed avviene.
Alla base dei presupposti del dialogo c'è un necessario concetto di pariteticità culturale: la piena, ma soprattutto convinta, percezione dell’altro in ruolo certamente diverso, ma accreditato – fuori da qualsiasi retorica – dall’insostituibilità della sua funzione e dall’identico accredito di portati tecnici, etici, deontologici.
Di contro, la magistratura – anche in questo caso sono costretto a generalizzazioni impossibili, per nulla scientifiche e solo discorsive – ha ritenuto il proprio ruolo assistito da una sorta di primazia di carattere culturale anche all’interno del processo, a sua volta “personalizzando” la figura del difensore ed omettendo, forse, di dimensionarsi anche sulla falsariga dell'esigenza dell'altro, sino a non comprenderne, spesso, le esigenze.
Non parlo certamente del difetto di un accettabile coefficiente di onestà culturale: sono l’ultimo a poter esprimere una valutazione del genere. Osservo, però, che, presso la magistratura, è stata ricorrente la tentazione all’autoreferenzialità; ad uno sguardo presbite all’etica attraverso la lente del processo; al ritenere una superiorità deontologica “di principio” ed un predominio tecnico “di mestiere”; alla funzione intesa a “contenere” gli interventi difensivi piuttosto che a stimolarli; allo scetticismo sul dubbio tecnico e probatorio, pure innestato, perché proveniente da fonte comunque “interessata”.
Il difensore non deve aver bisogno di sentirsi “coraggioso”: deve soltanto (essere e) sentirsi libero.
Forse questo è stato (ed è) il male oscuro della magistratura, assai più delle ideologie, che, in realtà, sono molto più innocue e, soprattutto, ineliminabili, perché connaturate: il giudice pregiudicato dall’enfasi della sua stessa funzione occupa spazi dialogici e dialettici che nessuna ideologia “politica” oserebbe invadere.
11. Su cosa abbia riposato (e riposi) questo senso di primazia tecnica, etica, deontologica del magistrato rispetto all’avvocato nel processo penale è interrogativo incauto: occorrerebbe ripercorrere almeno gli ultimi cinquant’anni della storia di questo Paese, non solo giudiziaria.
Mi sento solo di dire che hanno concorso fattori coevi o in rapida successione, i quali hanno segnato, storicamente, straordinari ed innegabili picchi di responsabilità istituzionali e culturali della magistratura, cui hanno corrisposto, quasi per un gioco della Storia, debilitazioni ed appannamenti del ruolo sociale dell’avvocatura.
L’appalto politico alla magistratura della conservazione dell’ordine costituzionale, in più circostanze e di fronte a contingenze tragiche diverse, è coinciso con l’esistenza di figure culturali, prima ancora che professionali, dell’ordine giudiziario di indiscutibile, elevatissimo spessore, legittimando un altissimo e nobile senso istituzionale e morale della funzione: è l’eredità preziosa che abbiamo ricevuto, ma che abbiamo, se non in buona parte dilapidato, sicuramente male alimentato nell’ora. Al contempo – o in una rapida successione temporale, che, rispetto ai tempi della Storia, è un fruscio attimale – l’Avvocatura ha mostrato un improprio volto di piena collateralità alla contingenza politica, con figure – certamente isolate, certamente non rappresentative del tutto – divenute tuttavia usignolo del Principe e della sua salvaguardia, ma che, per il gioco mediatico ed opinionale, hanno finito per distorcere la percezione sociale della funzione difensiva, malamente identificata con essi.
Discorso infinito ed impossibile da proseguire o approfondire oltre la suggestione che precede.
Oggi, in una situazione completamente diversa, si perdono nelle brume le origini di quella idea di primazia, che non trova comunque più giustificazione culturale, se anche l’aveva in passato. Resta questo effetto di rimbalzo, di contesa tra interpreti di ruoli, per i quali entrambi i “contendenti” (è orribile questo sostantivo, ma rende bene semanticamente) continuano a rivendicare, ciascuno, la nobile funzione di lotta contro il Potere, attribuendo all’altro le stimmate della lotta agita per il Potere.
Forse, a sanare questo “contrasto”, varrebbe l’accordo su di un principio lapidario ben racchiuso in un formidabile dialogo di una giovane avvocatessa di colore, in un intenso movie di dramma sociale: «Possono essere tutti colpevoli: ma uno vale di più della sua peggiore azione»[4].
Monito terribile ed impegnativo per ogni avvocato come per ogni magistrato.
[1] A. Sexton, Words (Le parole, trad. di Cristina Gamberi), in La zavorra dell’eterno, Crocetti editore, 2016.
[2] S. Quinzio, La tenerezza di Dio, Castelvecchi, Roma, 2013, p. 76.
[3] Vale a dire: «il "controllo della virtù" pubblica (…) come un fenomeno caratterizzante le funzioni della magistratura penale»: M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, Mucchi ed., Modena, 2014, p. 5.
[4] Si tratta di American fiction (2023), per la regia di Cord Jefferson.
Intervento alla conferenza Dicono di noi..., organizzata dall'Ordine degli Avvocati di Firenze e dal Dipartimenti di Scienze Giuridiche dell'Università di Firenze e tenutasi a Firenze il 3 maggio 2024.