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Art. 35 ter.3 Ordinamento Penitenziario: risarcimento o tassa fissa?

di Roberto Braccialini
giudice del Tribunale di Genova
Prime applicazioni e dubbi sul risarcimento per detenzione inumana
Art. 35 ter.3 Ordinamento Penitenziario: risarcimento o tassa fissa?

Come giudice civile addetto all’unica sezione del Tribunale di Genova, incaricata di trattare tutto il contenzioso distrettuale discendente dall'art. 35 ter.3 dell'Ordinamento penitenziario, non mi sento un clandestino a bordo in questa materia perché credo che magistratura di sorveglianza e tribunale civile siano entrambi fondamentali per garantire il pieno rispetto dei diritti previsti dall’art. 3 della CEDU, messi a fuoco nei due leading cases della Corte Europea più volte richiamati in questa sede, le sentenze SULEJMANOVIC del 2009 e TORREGGIANI del 2013.

Lo dice bene quest’ultima decisione, nel par 96, quando parla di coesistenza complementare di rimedi “preventivi” e di rimedi “compensativi”.

Non posso negare che alla prima lettura del D.L. 92/2014 sia seguito un senso di viva preoccupazione per le prospettiva di una valanga alluvionale di casi da trattare in base alla nuova normativa, tali da comportare sicuramente una maggiore attenzione per il fatto ed il caso singolo e non solo per le questioni giuridiche; quindi, una sicura indaginosità istruttoria, con un appesantimento dei nostri ruoli civili già abbastanza congestionati per la concentrazione di competenze distrettuali derivanti dal tribunale delle imprese.

In realtà questa alluvione fino ad oggi non c'è stata, se è vero che dall'entrata in vigore del decreto legge fino a fine dicembre scorso sono stati presentati 19 ricorsi ex D.L. 92 /2014 (13 da italiani e 6 da stranieri) per ottenere il risarcimento monetario previsto dall’art. 35 ter.3 dell’Ordinamento penitenziario.

Purtroppo non sono in condizione di offrire una panoramica giurisprudenziale elaborata e completa come quella dei colleghi della Sorveglianza sugli sviluppi civilistici della nuova normativa, per la ragione che non abbiamo ancora all'attivo una sufficiente mole di provvedimenti decisori ma siamo ancora alle battute iniziali delle singole vicende.

Però con i colleghi addetti a questo contenzioso ci siamo riuniti ex art.47 quater dell'Ordinamento giudiziario a fine gennaio per un primo confronto interno e per delineare linee di azione per quanto possibile condivise, di cui darò conto in quest'occasione: abbiamo insomma fatto un po’ di “riscaldamento e ginnastica neuronale”.

Certo, per chi sia reduce dalle buone letture sul valore della dignità umana, come quelle che ci propone ad esempio Stefano Rodotà; per chi abbia presente la “lunga marcia” del riconoscimento e personalizzazione del danno non patrimoniale, o che semplicemente ricordi la vicenda esaminate dal Magistrato di Sorveglianza di Lecce nel caso Slimani del giugno 2011, piuttosto che le sentenze dalla Corte Edu nel 2009 e 2013, la prima sensazione che si prova leggendo il decreto-legge estivo è di profonda inadeguatezza sia dell'impianto processuale, che della risposta di tipo risarcitorio.

Sensazione che aumenta, quando si rileggono le brucianti critiche del Giudice Sajò (nella sentenza SULEJMANOVIC) all’inefficacia delle risposte date dall’ordinamento italiano fino al 2009, quando tale magistrato ritiene giustificata la condanna dell’Italia per non aver saputo trasmettere, con misure riparatorie concrete, il messaggio che lo Stato non era indifferente alla sorte dei detenuti e intendeva creare condizioni detentive che “tutto sommato non facessero pensare al detenuto come a nient’altro che un corpo da dover sistemare da qualche parte.

Già l'esordio della nuova disciplina presso la platea degli operatori pratici e degli interpreti è poco promettente, perché si registrano da subito incertezze per individuare il giudice che deve decidere quando la detenzione sia in corso, ma non si svolga in modo tale da determinare una situazione di “inumana detenzione” in atto.

Qui, per brevità, mi limito a dire che l'ordinanza dei magistrati di sorveglianza genovesi dello scorso settembre – che afferma la competenza del TdS quando la detenzione sia in corso ma non sia al momento necessariamente “inumana” - ci trova perfettamente d'accordo, non tanto perché diretti beneficiari del minor aggravio del carico di tali ricorsi, ma perché ci sembra che gli argomenti sistematici esposti dai colleghi siano ancor più condivisibili, una volta letta la giurisprudenza successiva alla “sentenza pilota” della Corte EDU, cioè le sentenze REXHEPI e STELLA contro ITALIA.

Ci pare infatti che senza mezzi termini la Corte di Strasburgo abbia fornito con tali decisioni una netta indicazione di preferenza per una risposta immediata, di fronte alla detenzione in atto, da parte del giudice “più vicino”, più rapido e che ha più poteri di indagine, a prescindere dalle condizioni attuali di questa carcerazione; rispetto alla quale, se persistono profili di disumanità, non c’è risarcimento che tenga ed occorre solo rimuovere la violazione in atto.

La preferenza per il risarcimento cosiddetto “in forma specifica” – mediante scomputo di giorni di detenzione dalla pena in esecuzione - discende dalla compatibilità di quest’ultimo con i precedenti della Corte in materie, nelle quali la riduzione o la mitigazione delle sanzioni/pene sono state ritenute coerenti riparazioni a lesioni di diritti fondamentali.

Ed è in linea con la necessità di fornire una risposta in grado di andare ad incidere anche sulla radice del fenomeno, cioè la sovrappopolazione carceraria; fenomeno, quest’ultimo, a cui il ristoro pecuniario non apporta alcun sollievo.

Ci ha particolarmente convinto il rilievo dei colleghi relativo al paradosso per cui una diversa lettura comporterebbe l'introduzione della domanda civile dopo l'espiazione della pena, magari a distanza di tempo da pregiudizio patito, con serio rischio di perdita della prova; e poi ci chiediamo come potrebbe il detenuto “autopatrocinato” procedere personalmente a tutti gli incombenti di notifica e costituzione a suo carico, secondo le ordinarie regole del processo civile, durante il regime detentivo. Rispondere che gli è sempre possibile conferire la procura speciale non ci pare in linea con lo sbandierato intendimento di consentire la gestione diretta della lite da parte dell'interessato.

Dicevamo di un primo giudizio di inadeguatezza del tipo di procedimento civile prescelto dal legislatore nazionale per rispondere alle censure europee.

Il procedimento in camera di consiglio dell’art. 737 c.p.c., anche in versione monocratica, ci sembra decisamente improprio perché si tratta dello schema più etereo, del rito più evanescente che sia mai stato concepito, il quale è arrivato fino ad oggi solo grazie alle robuste iniezioni ortopediche che ha apportato la giurisprudenza su uno schema di base, che era pensato per la giurisdizione volontaria (amministrazione di diritti), ma che con il tempo si è venuto colorando - in certi settori e materie - di fogge contenziose.

Lo sconcerto è forte, se si pensa che meno di quattro anni fa si era finalmente dato corso ad una prima revisione e semplificazione dei riti speciali, che con il d.p.r. 150 del 2011 passavano da 24-25 a 3.

Oggi si fa rivivere il procedimento dell’art. 737 c.p.c. per queste materie, con la conseguenza che è più facile per un cittadino difendersi personalmente in una causa per sanzione amministrativa, che non far valere in giudizio il diritto fondamentale dell'articolo 3 della CEDU: questo, per il fatto che gli adempimenti notificativi fanno carico al ricorrente stesso e già la modulazione delle formalità introduttive, accompagnata alle formalità di iscrizione a ruolo, costituzione in giudizio e pagamento del contributo unificato, ha reso inammissibili un discreto numero dei nostri ricorsi.

Mancando un termine a comparire normativamente individuato nel procedimento camerale, ci siamo dati un regola largamente condivisa (non unanime) per utilizzare almeno quello previsto per gli ultimi riti speciali introdotti nel sistema processuale: per cui i più applicano quello di 30 giorni previsto dall’art. 702 bis co. 3 c.p.c.

Si pensava che fosse una boutade, sostenuta da qualche commentatore, l’inidoneità del provvedimento conclusivo al giudicato, che è come dire che non è ammesso ricorso per cassazione ex art. 111 Costituz., posto che il nostro provvedimento conclusivo già non è reclamabile

A noi non riesce facile negare a questo procedimento la natura di contenzioso su diritti, e su diritti fondamentali, con tutti i debiti corollari: condanna per le spese, ricorribilità per cassazione, attitudine al giudicato.

Probabilmente la questione è però più sottile e complessa di quanto possa apparire a prima vista e può essere che la tesi opposta in realtà tenti la quadratura del cerchio rispetto alle questioni di costituzionalità inerenti la quantificazione liquidatoria, di cui tra breve parleremo.

Vediamo sullo sfondo, come primo problema tecnico di rilievo sull’impianto risarcitorio, il meccanismo del rinvio alla giurisprudenza della Corte Europea come “fonte del diritto”. Dal punto di vista pratico, questo significa che i ricorsi pervenutici, spesso a ricalco delle "domandine" carcerarie, copiano schemi variamente circolanti che sono un po' troppo semplificati rispetto a quella che dev'essere la corretta prospettazione dei fatti costitutivi in sede civile, la quale è sicuramente più “formale”.

Oggi perciò ci interroghiamo così sul se e come attivare i poteri ufficiosi dell'articolo 164 c.p.c. per provocare l’integrazione delle allegazioni carenti che prevedibilmente occorreranno – soprattutto per i ricorsi “autoproposti” senza ministero di difensore - sia rispetto ai dati di fatto rilevanti per la decisione della lite, sia per la puntualizzazione del quadruplice schema risarcitorio in cui incanalare le domande.

Infatti, dal nostro angolo visuale di giudici civili, per la corretta conduzione del processo è indispensabile distinguere con precisione le domande in cui si lamenta la flagranza della violazione CEDU in riferimento alla messa a disposizione di spazi detentivi inferiori ai 3 metri quadri; quelle, in cui la disponibilità di spazio superiore è assicurata, ma si deducono altri aspetti negativi della carcerazione incidenti sull’umanità della pena; quelle in cui si rappresenta l'inadeguatezza delle cure mediche ricevute in carcere; e quelle, infine, in cui tali fattispecie sono tra loro variamente miscelate.

Per le allegazioni a sfondo sanitario, che lambiscono profili di responsabilità dell’amministrazione incidenti direttamente sul “bene-salute”, siamo comunque d'accordo che il procedimento speciale che qui esaminiamo non può prendere in considerazione lesioni o peggioramenti delle condizioni di salute risarcibili in quanto tali: danni, che inevitabilmente passano attraverso la via del rito ordinario, il quale può attrarre per connessione il risarcimento per l’inumana detenzione in base all’art. 40 c.p.c.

Un altro tema gettonatissimo dei primi commenti è la titolarità dell’onere della prova, questione che presuppone si determini a monte quale sia l’esatta natura della responsabilità dell'amministrazione.

Tale distinzione non serve a fini esoterici ma riguarda direttamente il concretissimo problema della prescrizione dell’azione, se decennale o quinquennale; e va a toccare il fondamentale nodo di chi deve dimostrare cosa, che non sarà di facilissima soluzione nei casi diversi dalla mancanza di spazi carcerari tout court.

Possiamo fin d’ora prevedere che si andrà a parare, per capire chi pagherà il prezzo di una dimostrazione incompleta (specie quando l’allegazione non riguardi lo spazio “under 3mq.”), sull’analisi della specificità degli addebiti mossi all’amministrazione carceraria, nella quale giocheranno un ruolo-chiave tre poli valutativi variamente graduati o combinati tra di loro: il principio di non contestazione; quello di “vicinanza della prova”; il notorio.

L’inquadramento giuridico del regime di responsabilità gioca un ruolo importante per queste opzioni interpretative ed istruttorie.

Al riguardo abbiamo letto indicazioni maggioritarie nel senso della responsabilità extra-contrattuale, sicuramente favorevoli all’Erario, che lasciano però piuttosto interdetti, perché il detenuto non ci pare un qualunque estraneo che transiti per i luoghi carcerari e lì abbia a subire un danno.

Anche la qualificazione come responsabilità da contatto sociale, che pure si legge nell’articolata relazione del C.S.M. a commento dello schema di d.d.l. da cui è scaturita la riforma estiva (delibera del 30 luglio 2014), non sembra del tutto convincente, perché il fondamento di essa è costituito dall'esistenza di un corpus di regole deontologico/professionali che fanno sì che il debitore qualificato debba comportarsi osservando gli stessi standard di diligenza (anch’essa qualificata) con qualunque soggetto che riceva le sue prestazioni, sia nel contesto di un rapporto contrattuale che per un rapporto extra contrattuale.

Non esistendo un deontologia professional/penitenziaria codificata a protezione del contatto sociale, a noi sembra che la responsabilità dell'amministrazione discenda in modo più lineare da norma di legge (art. 1173 c.c.), come peraltro sempre il C.S.M. adombra nel suo parere come prospettiva alternativa.

Più esattamente possiamo parlare di una responsabilità contrattuale discendente da un intero sistema normativo, che poi è lo stesso Ordinamento Penitenziario, da leggersi nella cornice dei diritti fondamentali riconosciuti anche alle persone ristrette in carcere - in ordine cronologico – dall’art. 2 della nostra Costituzione; dall'articolo 3 della Cedu; dall’art. 1 della Carta di Nizza, che esordisce ponendo al centro dei valori dell’Unione la dignità delle persone.

Quando leggiamo la L. 354 del 1975, ed in particolare l'articolo 6, oppure gli artt. 6-8 del Regolamento annesso all’O.P., non possiamo credere che si tratti solo di indicazioni tecniche e norme di azione per una buona edilizia carceraria, perché il loro rispetto serve proprio ad evitare la compromissione dei diritti fondamentali dei detenuti.

In altri termini, se vogliamo dirla penalisticamente, l'amministrazione penitenziaria è costituita in garante per legge non solo dell'incolumità psicofisica del detenuto, ma anche della sua dignità durante lo stato di espiazione di pena o di custodia cautelare, ed allo Stato si chiede di evitare limitazioni e sofferenze ulteriori oltre quelle normalmente discendenti dalla carcerazione.

Questa lettura dell’impianto normativo e delle norme di legittimazione passiva ci pare proposta in termini estremamente nitidi nel par 39 della sentenza SULEJMANOVIC e dal par 65 della sentenza pilota TORREGGIANI del 2013, cui rinviamo.

Non mi avventuro neanche, per ragioni di tempo, sull'impervio sentiero delle problematiche di decadenza, perché ci sembra che tutto sommato il parere del CSM offra utili spunti per evitare inique applicazioni della Novella, con il richiamo a quella ricca casistica normativa in cui la decorrenza prescrizionale per far valere un pregiudizio nel corso di un rapporto di durata non coincide con il momento di esaurimento della condotta abusiva, ma con quello della cessazione del rapporto stesso.

Ma non posso negare che le visioni sul punto non siano ancora del tutto messe a fuoco e coincidenti e che sia forte il rischio di innestare una casistica piuttosto ingarbugliata, con spostamenti di prospettiva legati ad accidenti come i cumuli-pena o le carcerazioni “a catena”.

La gestione istruttoria di queste vicende rappresenterà sicuramente un capitolo impegnativo per la ragione che i ricorrenti si attendono dalla sede civile la disponibilità in capo al giudice di poteri istruttori, che invece sono relativamente limitati.

Come a tutti noto, nessun rito civile attribuisce al giudice un compito di ricerca della prova e, quando si parla di poteri officiosi, li si circonda in realtà di una certa circospezione, per cui le dottrine più accreditate parlano di una funzione integratrice dei poteri officiosi in relazione ad una “semiplena probatio” già raggiunta.

Così, per chiarire con un esempio, va subito detto che l’ammissione d'ufficio di prove testimoniali è consentita solo quando già la parte abbia fatto menzione delle circostanze e delle persone informate, ma non significa certo che sia il giudice civile a dover ricercare le fonti informative.

Nella sede civile, poi, i mezzi di prova hanno la valenza dimostrativa "normale” del c.p.c., quindi la prima questione istruttoria (e probatoria) che dovremo rapidamente affrontare sarà quella del valore dimostrativo delle relazioni delle amministrazioni carcerarie per quanto riguarda la descrizione delle condizioni dei luoghi di detenzione: problematica che non ci è del tutto sconosciuta, perché assolutamente affine a quella che si determina nel contenzioso delle sanzioni amministrative, che già trattiamo.

Possiamo perciò prevedere una diversificazione dei casi di fidefacienza delle attestazioni, per le parti in cui riferiscono di stato dei luoghi o orari, con conseguente necessità di impugnazione con querela di falso in caso di contestazione.

Complicazione che non si porrà per i casi di cosiddetto accertamento valutativo, quando tali dati si accompagnino a giudizi di adeguatezza-inadeguatezza, come potrebbe essere il caso di giudizi sulla qualità dell’areazione e della luminosità dei locali.

Non sarà da escludersi un più intenso ricorso al potere ufficioso di ispezione, descrizione e documentazione fotografica dei luoghi carcerari, incombente magari anche personalmente condotto dal magistrato istruttore (almeno al livello distrettuale).

Adempimento impegnativo, perché non si deve dimenticare che gli accertamenti affidati al giudice civile sulla qualità della carcerazione vanno dalle Alpi a Lampedusa, in quanto il criterio che incardina la competenza distrettuale è la residenza attuale del ricorrente e non il luogo di detenzione.

Del pari, sarà quanto mai opportuno acquisire la scheda del trattamento individuale di recupero del detenuto per avere informazioni aggiuntive sulla qualità della carcerazione.

Insomma, bisogna immaginare strumenti conoscitivi ulteriori che consentano ai giudici civili di superare quel “gap” informativo sulle effettive condizioni di detenzione nelle carceri del Distretto (e fuori Distretto), che ci deriva dal contatto così episodico e casuale con tale realtà: un contatto che non manca invece alla magistratura di sorveglianza, per l’attività che quotidianamente disimpegna.

Ci sarebbe da parlare di molte altre cose, esaminando il nuovo art. 35 ter O.P., perché abbiamo notato che, come una ciliegia tira l’altra, così l’enunciazione di un problema apre subito nuovi scenari e dubbi interpretativi su molteplici versanti collegati.

Non si può però svicolare sull’altra grande questione interpretativa, rispetto alla quale il D.L. 92 fornisce risposta inappaganti e, probabilmente, destinate a essere prossimamente riviste: quella della tecnica risarcitoria a “punto unico giornaliero”.

Abbiamo cercato con curiosità negli atti preparatori lo spunto che facesse capire come e perché nasce questo precedente normativo unico di un ristoro (o meglio: di un risarcimento, così testualmente definito dalla rubrica dell’art. 35 ter) in misura pecuniaria fissa, sperando che la misura fosse in qualche modo ancorata ad una percentuale del pregiudizio (maggiore) del danno alla persona; scoprendo così, nelle pieghe dei lavori parlamentari, una preoccupazione negativa proveniente dalla commissione della Camera, che aveva in effetti espresso forte perplessità per tale scelta.

In realtà, non è al sistema nazionale del risarcimento dei diritti fondamentali che dobbiamo guardare, ma alla giurisprudenza della CEDU che, anche per questo aspetto, diventa una “fonte del diritto”.

Fonte però non scevra da ambiguità e difficoltà di lettura, perché la parti liquidatorie delle decisioni rese a Strasburgo sono tra le più oscure ed a tratti contraddittorie di tutto l’impianto giurisprudenziale europeo.

Scendendo al dettaglio monetario delle singole liquidazioni riparatorie, vediamo che si va da un minimo di 6,54 euro al giorno per il signor TORREGGIANI, ai 26,19 euro/die riconosciuti al sig. SELA per 14 mesi di detenzione, ma vi è una posizione che pare decisamente più emblematica delle altre.

Mentre tutti gli altri ricorrenti avevano quantificato in termini monetari la loro richiesta di riparazione, il solo sig. BAMBA si era rimesso integralmente alla valutazione discrezionale della Corte Europea e quest'ultima aveva dato la seguente risposta a questo sollecito all’equità “diretta”: € 20,08 al giorno, che sono più del doppio di quanto previsto dalla nuova normativa interna.

Questi dati numerici erano noti nei lavori preparatori e parlamentari di conversione del D.L. 92. Dalla relazione di maggioranza predisposta dall’On. David ERMINI apprendiamo infatti che gli 8 euro/die sono il frutto di un doppio passaggio matematico: in primo luogo, è stata esaminata la media dei ristori ritenuti congrui dalla Corte, e si parla infatti di 20 euro al giorno, come sopra; secondariamente, su tale dato giornaliero è stata applicata la percentuale del 45%, che in passato era stata ritenuta dalla Corte EDU una percentuale congrua per l’indennizzo delle richieste risarcitorie per ingiustificata dura del processo.

Non c'è dubbio che le recenti decisioni REXHEPI e STELLA contro ITALIA, con cui tutti i ricorsi per violazione dell’art. 3 della Convenzione, diversi da quelli trattati nella sentenza pilota, sono stati respinti per la ritenuta adeguatezza del nuovo rimedio preventivo e risarcitorio interno, forniranno solidi argomenti all'Avvocatura dello Stato quando sarà – ritengo, a breve - chiamata a difendere tale scelta di fronte alla Corte Costituzionale.

Vale a questo punto la pena di segnalare un paradosso nell'evoluzione della concezione della giurisprudenza di Strasburgo come fonte del diritto.

Tre anni fa studiavamo le ricadute costituzionali interne di norme nazionali non compatibili la giurisprudenza CEDU; adesso, dovremo esaminare una normativa ritenuta da ultimo (con qualche sforzo da parte della Corte Europea) non incompatibile con la Convenzione del 1950, ma che gli operatori nazionali potrebbero ritenere non conforme all'impianto costituzionale interno.

Non c'è davvero il tempo e non è questa la sede per ripercorrere le sorti magnifiche e progressive del danno non patrimoniale nel sistema italiano, dopo la fondamentale svolta nella giurisprudenza di legittimità (costituzionale) del 2003, in cui per la prima volta si affermò che la lesione di interessi significativamente protetti a livello costituzionale, e massime dei diritti fondamentali, sia un danno ingiusto risarcibile anche ai sensi dell’art. 2059 c.c.

Un percorso al quale il Tribunale di Genova ha dato il suo contributo non solo con le storiche decisioni sul danno biologico, ma anche in tempi più recenti con la sua giurisprudenza sull'applicabilità dell'articolo 2059 c.c. anche in caso di applicazione di meccanismi di responsabilità presunta, quando non oggettiva, e con le decisioni assunte nel filone giurisprudenziale “G8”, in cui i diritti fondamentali sono stati ritenuti risarcibili pur quando la loro lesione non aveva interessato anche l'incolumità personale: mettendo a punto anche una tecnica risarcitoria che partiva da quest'ultimo bene per parametrate la monetizzazione del pregiudizio del diritto fondamentale.

Ci basti dire che tutto questo faticoso ma felice percorso giurisprudenziale ha sempre avuto come necessario corollario la personalizzazione del risarcimento, come confermato da significativi arresti di legittimità fin troppo noti, perché occorra ancora menzionarli.

Se facciamo i debiti paragoni con le materie più prossime alla nostra, sempre ad alta valenza CEDU, come la riparazione pecuniaria per l’ingiustificata durata dei processi, la riparazione da ingiusta detenzione e quella da errore giudiziario – fatti ovviamente salvi i debiti distinguo per la natura riparatoria della Legge PINTO e quella indennitaria dell’art. 314 c.p.p. - vediamo che l’adattamento ai casi singoli dei ristori occorrenti è rimessa pur sempre alla giurisprudenza e non fissata con un sistema legale predeterminato.

Insomma, il nodo fondamentale è che non esiste il “punto unico giornaliero” in questi paralleli campi indennitario/risarcitori, per cui non si comprende perché ciò non sia avvenuto anche in materia di risarcimento del danno da violazione dell’art. 3 della CEDU per le condizioni detentive.

Perché non si è introdotta una forbice economica anche per la “detenzione inumana”, che poteva anche imperniarsi su un valore intermedio intorno agli 8 euro, visti i minimi edittali ritenuti congrui dalla Corte nei suoi arresti sul piano del ristoro economico? Una forbice che lasciasse però ragionevoli margini di apprezzamento per i casi singoli?

E questo margine era ben possibile, se non doveroso, se si esaminano le singole statuizioni liquidatorie della Corte, per quanto sincopate rispetto alle nostre tradizionali motivazioni di monetizzazione del danno.

Se andiamo a confrontare, calcolatrice alla mano, le singole liquidazioni adottate nella vicenda SULEJMANOVIC e per i sette ricorrenti del caso TORREGGIANI, notiamo che la Corte non si è indirizzata verso una liquidazione forfettaria giornaliera uguale per tutti i ricorrenti, per cui occorre credere che abbia diversamente apprezzato parametri di vessatorietà/gravosità della detenzione singola nelle tre realtà carcerarie interessate dalle due decisioni in questione. Come potranno i giudici nazionali dare a tutti gli aventi diritto la stessa cifra, quando già in sede europea sono state operate liquidazioni differenti nell’ambito delle medesime strutture carcerarie? Non è anche questa una chiara opzione interpretativa della giurisprudenza CEDU, che abbiamo elevato per legge (e non solo per via giurisprudenziale) a fonte del diritto?

Vado verso le conclusioni. Ho pensato di intitolare questo intervento come "risarcimento o tassa", alludendo agli effetti sulle pendenze dei ricorsi presso la Corte Europea.

Il balzello giornaliero pagabile dallo Stato ai sensi del D.L. 92/2014 (non era poca cosa l’esborso incombente per sanzioni che si stava per scaricare sull’Italia: si parla di 42 milioni di euro) sembra essere stato soddisfacente per la Corte di Strasburgo, ma è tutto da vedere che possa sopravvivere in questi termini economici nell'ordinamento nazionale.

Non dimentichiamo che altre iniziative di standardizzazione dei risarcimenti – che erano comunque più flessibili rispetto al “punto unico giornaliero” dell’art. 35 ter.3 - sono sopravvissute poco tempo, perchè non facevano i conti con l'esigenza di personalizzazione del ristoro.

A questo punto pare di capire perchè alcuni commenti parlino di una decisione, il decreto che conclude il procedimento dell’art. 737 c.p.c. monocratico, che non determina un giudicato e costituisce un mero indennizzo anticipatorio: perché in questo modo si aggirerebbe il problema della costituzionalità del valore giornaliero fisso, quasi che con il D.L. 92/2014 si pagasse un acconto risarcitorio standardizzato: anche se poi non si spiega come sarebbe possibile incardinare una nuova azione (ordinaria) sui medesimi presupposti di violazione dell’art. 3 della CEDU, diversamente apprezzati per una inumanità detentiva “non normale” e non standardizzabile nella misura di 8 euro al dì.

Siamo, a mio giudizio, a cavallo tra il quarto e quinto movimento della Sinfonia pastorale di Beethoven, quando sta finendo la festa dei villici (per lo scampato pericolo a Strasburgo) e sullo sfondo si colgono le prime avvisaglie di un'incombente temporale, che potrebbe essere rappresentato da una serie di ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionale sul nuovo assetto risarcitorio giornaliero a valore fisso introdotto dal nuovo art. 35ter.3.

Chiudo definitivamente rappresentando l'esigenza operativa di un più stretto contatto collaborativo tra i magistrati di sorveglianza ed i giudici civili che trattano questa materia, come quello che si è realizzata in questo primo seminario di studi genovesi, perché il classico approccio casistico e casuale del nostro lavoro presso il tribunale ordinario ci impedisce di disporre di una chiara panoramica della situazione carceraria nell'ambito del nostro Distretto e fuori di esso.

Indubbiamente, anche solo la disponibilità di una comune "banca dati nazionale" riguardante i provvedimenti resi sull’art. 35 bis e ter e sulle situazioni di sovraffollamento, organizzata cronologicamente per istituti carcerari e per numero di presenze – ma anche la socializzazione di piantine, relazioni stese dai magistrati di sorveglianza, decisioni assunte nel contraddittorio - renderebbe notori i picchi critici di sovraffollamento nelle nostre carceri, semplificando probabilmente la gestione istruttoria e quindi i tempi decisionali dei nuovi procedimenti risarcitori civili; e magari, evitando anche decisioni inique o contraddittorie.*

 

*relazione tenuta nell'incontro organizzato dalla Formazione Distrettuale ligure tenutosi l’11.2.2015 sul tema: “40 anni di ordinamento penitenziario: dall’ideale della rieducazione alla violazione dell’art. 3 CEDU"

11/03/2015
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